L’Università delle Generazioni è particolarmente lieta di invitare alla lettura del seguente, recentissimo piccolo saggio del filosofo di Soverato (Cz),
Salvatore Mongiardo, riguardante la probabile attinenza sulla figura ed il significato del “passero solitario” negli scritti di San Giovanni della Croce (sacerdote e dottore della Chiesa) e nella poesia di Giacomo Leopardi.
Potrebbe essere in utile “confronto” ed una inedita “riflessione” letteraria e spirituale in più per ognuno di noi, specialmente per chi ama il Poeta di Recanati e/o San Giovanni della Croce e, in particolare, per gli studenti alle prese con interrogazioni o esami. Ecco il testo di Salvatore Mongiardo (il quale è anche scolarca della Nuova Scuola Pitagorica di Crotone), mentre il testo della evocativa poesia “Il passero solitario” di Leopardi seguirà come “Lettura parallela”.
IL PASSERO SOLITARIO
Alcuni anni fa avevo letto nelle opere di San Giovanni della Croce, il mistico spagnolo (1542-1591), il suo Cantico Spirituale, poesia in quaranta strofe di grande bellezza, per il quale il Santo ha scritto due commenti molto simili, riassunti anche al N. 120 dei suoi Detti di luce e amore. In quel passo il Santo scrive:
Sono cinque le caratteristiche del passero solitario:
prima: si porta in alto il più possibile;
seconda: non sopporta la compagnia nemmeno di quelli della sua specie;
terza: tende il becco verso il vento;
quarta: non ha un colore determinato;
quinta: canta soavemente.
Queste devono essere anche le caratteristiche dell’anima contemplativa, che deve tenersi al di sopra delle cose transitorie, comportandosi come se non esistessero, e dev’essere tanto amica della solitudine e del silenzio, da non sopportare la compagnia di altre creature; deve protendere il becco al soffio dello Spirito Santo, corrispondendo alle sue ispirazioni, perché, così facendo, possa diventare più degna della sua compagnia; non deve avere un colore determinato, cioè non deve fissarsi in alcuna cosa, ma solo in ciò che è volontà di Dio; deve cantare soavemente nella contemplazione e nell’amore del suo Sposo.
Le due strofe 14 e 15, alle quali il commento si riferisce, sono le seguenti in cui la Sposa – l’anima – comincia a cantare le lodi al suo Sposo o Amato, Cristo:
14
L’Amato è le montagne,
le boschive valli solitarie,
le isole inesplorate, i fiumi gorgoglianti,
il sibilo dei venti innamorati,
15
la quiete della notte
vicina allo spuntar dell’aurora,
musica silenziosa,
solitudine sonora,
cena che ristora e innamora.
E nelle Annotazioni alle due strofe il Santo scrive più a lungo:
In tale quiete l’intelletto si vede elevato, con sua grande sorpresa, al di sopra di ogni conoscenza naturale verso la luce divina. E’ simile a colui che, dopo un lungo sonno, apre gli occhi alla luce che non si aspettava. Di questa luce credo che intendesse parlare Davide quando diceva: Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto: Mi svegliai e divenni come un passero solitario sul tetto (Sal 101[102], 8 Volg.). In altri termini: aprii gli occhi del mio intelletto e mi trovai al di sopra di tutte le conoscenze naturali, solitario, senza di esse, su un tetto, cioè al di sopra di tutte le cose di quaggiù.
Il testo dice che è diventato simile a un passero solitario, perché, nella contemplazione di cui si parla qui, lo spirito ha le stesse caratteristiche di quel passero, che sono cinque.
———–
Il passero solitario, simbolo di uno stile di vita necessario per arrivare alla contemplazione divina, è tra le composizioni più originali del Santo, il quale scrisse anche un piccolo trattato sul passero solitario, che è andato perso.
Anni fa, quando lessi gli scritti del Santo, feci mentalmente il confronto con Il passero solitario del Poeta Giacomo Leopardi (1798 – 1837), che conosco a memoria dai tempi del Ginnasio, e mi ripromisi di verificare se, nella Biblioteca Leopardiana di Recanati, l’opera del Santo fosse presente e quindi il Poeta potesse averla letta. Ne chiesi recentemente conferma e la risposta mi fu data il 27 marzo 2018:
…abbiamo verificato che in Biblioteca è presente il volume Opere spirituali del sublime e mistico Dottore S. Giovanni della Croce […], VI ed. per opera del sig. Abate Jacopo Fabrici, Venezia, 1749 che contiene il Cantico spirituale, o sia l’esercizio d’amore fra l’anima e Cristo suo sposo. Il commento che descrive le cinque particolarità del passero solitario si trovano alle pagine 305-306.
Essendo un’edizione settecentesca e presente in biblioteca all’epoca degli studi di Leopardi, possiamo ipotizzare che il Poeta possa averlo letto.
Il dott. Leopardi è interessato a sapere se sta svolgendo ricerche in merito ai riferimenti letterari (e non solo) che il poeta può aver usato nella scrittura de Il passero solitario e, se sì, sarebbe lieto di avere informazioni in merito e conoscerne i risvolti.
Prima di scrivere le mie riflessioni in merito, mi sembra utile riportare per intero il testo del Cantico Spirituale in italiano, trovato in rete e da me controllato con l’originale spagnolo. La traduzione, che ho migliorato in pochi punti, non porta il nome del traduttore, al quale comunque vanno i miei ringraziamenti.
Cantico Spirituale
1 La Sposa
Dove ti nascondesti
in gemiti lasciandomi, o Diletto?
Come il cervo fuggisti,
dopo avermi ferito;
ti uscii dietro gridando: ti eri involato…
2
Pastori, voi che andate
di stazzo in stazzo fino all’alto monte,
se per caso incontrate
chi più d’ogni altro bramo,
ditegli che languisco, soffro e muoio.
3
In cerca del mio amore
andrò per questi monti e queste rive,
non coglierò mai fiore,
non temerò le fiere,
supererò i forti e le frontiere.
4
O boschi e selve ombrose,
piantate dalla mano dell’Amato!
O prato verdeggiante
di bei fiori smaltato!
Ditemi se attraverso voi è passato.
5
Mille grazie spargendo
passò per questi boschi con snellezza,
e mentre li guardava,
solo con il suo sguardo
adorni li lasciò d’ogni bellezza.
6
Ah! chi potrà sanarmi?
Finisci di donarti a me davvero;
non mi inviar da oggi
in poi alcun messaggero
il qual dirmi non sa quel che io chiedo.
7
Tutti color che vagano
mille grazie di te mi van narrando,
e tutti più mi piagano,
mi fa quasi morire
un non so che che dicon balbettando.
8
Ma come tu resisti,
o vita, non vivendo dove vivi,
bastando perché muoia
le frecce che ricevi
da ciò che dell’Amato tu capisci ?
9
Dopo avere piagato
questo mio cuor, perché non lo sanasti?
Giacché me l’hai rubato,
perché così il lasciasti,
senza prender con te quel che rubasti?
10
Estingui le mie pene,
che nessuno ha il poter di eliminare,
ti veggan gli occhi miei,
poiché sei loro luce,
che per te solo voglio conservare.
11
Scopri la tua presenza,
mi uccida la tua vista e tua bellezza,
sai che la sofferenza
di amore non si cura
se non con la presenza e la figura.
12
O fonte cristallina,
se in questi tuoi sembianti inargentati,
formassi all’improvviso
gli occhi desiati,
che tengo nel mio interno disegnati!
13
Allontanali, Amato,
ché a volo vado!
Lo Sposo:Volgiti, o colomba,
poiché il cervo ferito
sull’alto colle spunta
eall’aura del tuo vol prende frescura.
14 La Sposa
L’Amato è le montagne,
le valli solitarie e ricche d’ombra
le isole remote,
le acque rumorose,
il sibilo delle aure amorose;
15
È come notte calma
molto vicina al sorger dell’aurora
musica silenziosa,
solitudin sonora,
è cena che ristora e che innamora.
16
Prendeteci le volpi,
ché fiorita è ormai la nostra vigna,
mentre che noi di rose
intrecciamo una pigna,
non compaia nessun sulla collina.
17
Férmati, o borea morto,
austro vieni, che susciti gli amori,
spira per il mio orto,
sì che corran gli odori
e l’Amato si pasca in mezzo ai fiori.
18
O ninfe di Giudea,
mentre che in mezzo ai fiori e ai roseti
l’ambra sparge il profumo,
nei borghi dimorate,
toccar le nostre soglie non vogliate.
19
Nasconditi, o Diletto,
e volgi la tua faccia alle montagne,
e non voler parlarne,
ma guarda le compagne
di chi sen va per isole straniere.
20Lo Sposo
O voi, agili uccelli,
leoni, cervi, daini saltatori,
monti, riviere, valli,
acque, aure, ardori,
e delle notti vigili timori.
21
Per le soavi lire
e il canto di sirene io vi scongiuro,
cessino le vostre ire,
non mi toccate il muro,
perché la sposa dorma più al sicuro.
22
Entrata ormai è la sposa
nel già desiato giardinetto ameno,
a suo piacer riposa,
il collo reclinato
sopra le dolci braccia dell’Amato.
23
Di un melo sotto i rami
quivi da me tu fosti disposata,
là ti porsi la mano,
e fosti risanata
colà dove tua madre fu violata.
24La Sposa
Fiorito è il nostro letto,
da tane di leoni circondato,
da porpora protetto,
in pace edificato,
da mille scudi d’oro incastonato.
25
Dietro le tue vestigia
le giovani scorrazzano in cammino,
al tocco di scintille,
al rinforzato vino,
emissioni di balsamo divino.
26
Nell’intima cantina
io bevvi dell’Amato,
quindi uscita alla pianura bella
tutto dimenticai,
anche il gregge smarrii, prima seguito.
27
Lì mi dette il suo petto,
lì una scienza mi infuse saporosa,
ed io a lui mi detti,
senza tralasciar cosa,
e gli promisi allor d’esser sua sposa.
28
L’anima mia si è data,
tutti i miei beni sono a suo servizio;
non pasco più la greggia,
non ho più altra cura,
ché solo nell’ amore è mia premura.
29
Se da oggi nel prato
non sarò più né vista né trovata,
dite che son smarrita,
che, essendo innamorata,
mi son persa volendo e ho guadagnato.
30
Di smeraldi e di fiori
nella frescura del mattino scelti,
intesserem ghirlande,
nell’amor tuo fiorite,
e con un mio capello intrecciate.
31
Da quel solo capello
che ondeggiar sul mio collo tu guardasti,
sul mio collo mirasti,
preso tu rimanesti,
da un occhio mio piagare ti lasciasti.
32
Quando tu mi miravi,
lor grazia in me imprimevan gli occhi tuoi;
di più quindi mi amavi,
perciò in te meritavan
gli occhi miei adorar quanto vedean.
33
Non voler disprezzarmi,
se di colore bruno mi hai trovata
ormai puoi ben mirarmi
dopo avermi guardata,
e grazia e beltà in me aver lasciata.
34 Lo Sposo
La bianca colombella
col ramoscello all’arca è ritornata;
e già la tortorella
il suo compagno amato
lungo il verde ruscello ha ritrovato.
35
Nel deserto viveva,
e nel deserto ha fatto già il suo nido,
nel deserto la guida
da solo il suo Diletto,
nel deserto anch’ei d’amor ferito.
36 La Sposa
Godiam l’un l’altro, Amato,
in tua beltà a contemplarci andiamo
sul monte e la collina,
dove acqua pura sgorga;
dove è più folto dentro penetriamo.
37
E quindi alle profonde
caverne della pietra ce ne andremo,
che sono ben celate,
colà noi entreremo,
di melagrana il succo gusteremo.
38
Colà mi mostrerai
quanto da te voleva l’alma mia
e tosto mi darai
colà tu, vita mia,
quello che l’altro giorno mi donasti.
39
Dell’aura lo spirare,
del soave usignolo il dolce canto,
il bosco e la sua grazia
nella notte serena,
con fiamma che consuma e non dà pena.
40
Nessuno la mirava…
neppure Aminadab compariva…
l’assedio ormai sostava…
e la cavalleria
alla vista delle acque discendeva…
Questa versione del Cantico Spirituale, tratta dal sito sotto indicato, contiene anche le Annotazioni di mano del Santo. Vale la pena leggerle:
http://www.monasterovirtuale.it/giovanni-della-croce-cantico-spirituale-manoscrittob.html
Riflessioni
La possibile ispirazione del Poeta tramite l’opera del Santo mi sembra argomento di poca importanza, se visto come curiosità letteraria. Mentre mi appare, invece, cosa di grande importanza se esaminiamo le motivazioni, i legami, i destini, le aspettative e i contenuti di vita dei Nostri, che si illuminano di nuova luce confrontandoli l’uno con l’altro. Queste mie riflessioni vorrebbero uscire dalla letteratura – anche se io sono scrittore e poeta – per scandagliare due grandi anime molto vicine tra loro, che solo a prima vista appaiono distanti nel tempo, nella geografia e nello stile di vita, ma che svettano nella lirica raggiungendo cime di sovrumana bellezza. In particolare:
1. I Nostri erano coltissimi. Leopardi si sa, il Santo aveva frequentato l’Università di Salamanca, quanto di meglio c’era nella Spagna dell’epoca.
2. Erano due matti, cioè non riuscivano a vivere secondo le convenzioni del loro tempo. Il Santo addirittura passò nove mesi di prigione conventuale dalla quale evase.
3. Ebbero entrambi salute malferma e morirono giovani, il Poeta a 39, il Santo a 49 anni.
4. Entrambi amavano moltissimo la natura in tutte le sue manifestazioni: terra, sole, luna, firmamento, mare, acque, selve, monti, vento, fiori, campagne, alberi, animali.
5. Nessuno dei due conobbe una donna in carne e ossa: il Santo fu molto legato spiritualmente a Santa Teresa d’Ávila, il Poeta agli amori letterari di Silvia e Nerina.
6. Per il Poeta la Natura è lo stesso che Dio, come scrisse nello Zibaldone (pag. 361 Ed. Einaudi) ed esclude un Dio Persona. Cantando la Natura, egli canta Dio non persona. Il Santo, invece, vede la sua anima come la Sposa in cerca dello Sposo Cristo, che è Dio.
7. Il Poeta nell’Infinito immagina interminati spazi, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo. Egli finge, cioè modella come il Dio figulus, il vasaio della Bibbia, immensità sovrumane che domina grazie al suo canto solitario senza nessun’altra persona. Il Santo, nelle strofe 14 e 15 del Cantico, vede lo Sposo bello come montagne, valli, isole, fiumi venti, aurora. Ma alla fine esclama nella sua opera la Notte oscura: Oh notte più dell’alba compiacente, che riunisti l’Amato con l’Amata, Amata nell’amato trasformata. Avviene per il Santo la fusione calda di due persone, cosa che al Poeta non succede mai.
8. Il dolore dell’esistenza, che il Poeta lamenta, è alla fine la sua unica ragione di vita: senza quel dolore egli non potrebbe vivere perché non avrebbe qualcosa di enorme con cui misurarsi e cantare. Non può e non vuole distaccarsene. La sua convinzione che la natura, bella ma matrigna che a comun danno impera, potrebbe derivare dal sua rapporto insanabile con la madre, che fu bella e altera, ma non lo amò.
9. Il dolore della vita è alla base di tutta la filosofia del Poeta: Arcano è tutto fuor che il nostro dolor, scrive nell’Ultimo Canto di Saffo. Il dolore c’è, domina la vita e la rovina irrimediabilmente. Ma egli rifiuta ogni speranza, ogni possibilità di redenzione in questa o nella vita dopo la morte. Conseguentemente, risolve il problema del dolore come Budda, che non è mai menzionato nello Zibaldone. Budda disse: La vita è dolore e per eliminarlo devi staccarti dal desiderio. Similmente il Poeta scrisse nella poesia A se stesso: …il desiderio è spento.
10. Il Santo cerca la sofferenza attraverso penitenze, digiuni e distacco dalle creature come combustibile per alimentare il fuoco mistico e portare a temperatura di fusione l’unione con lo Sposo, che è sempre tale, sia per i monaci che per le monache: è compagno sponsale oltre ogni diversità di sesso, elemento che si riscontra già nei mistici medievali.
11. Il rifiuto di ogni forma di redenzione o salvezza offerta dalla religione, potrebbe derivare nel Poeta dalla sua condizione giovanile di chierico. Egli difatti visse dai dodici ai venti anni con veste nera di prete e portò la tonsura fattagli dal vescovo Bellini. E’ una situazione quasi sconosciuta della sua formazione culturale. Avendo io frequentato i seminari di Calabria, conosco quanto devastante può essere stata quella condizione, addolcita per il Poeta dalla sua permanenza nella casa paterna. D’altra parte, nella sua condizione di chierico, tutta la famiglia da lui si aspettava un comportamento diverso, pio, timorato, religioso, in preghiera e mortificazione, mai gioioso o libero. Alla fine la sua ribellione e l’abbandono di casa e chiericato aggravò irrimediabilmente la rottura con la madre, intrisa di pratica religiosa fino al midollo. Anche se in fin di vita egli ricevette i sacramenti cattolici, egli visse lontano dalla tradizione religiosa. Un’indicazione in tal senso potrebbe essere il suo clamoroso rifiuto della prestigiosissima carica di Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, che gli avrebbe dato benessere e lustro… ma, egli avrebbe dovuto indossare la mantelletta, un abito ecclesiastico previsto per quella carica.
12. Seguendo uno schema tradizionale di giudizio, si potrebbe dire che il Poeta, nel rifiuto della tradizione religiosa e di ogni possibilità di salvezza, ha vissuto male. Mentre il Santo, pur innovando l’Ordine dei Carmelitani Scalzi e seguendo la mistica cattolica, visse e morì convinto di raggiungere il suo Sposo alimentando così ogni giorno l’attesa e la speranza. A me sembra tuttavia, che una spiegazione convincente e unificante possa venire dalla mia Teoria Emozionale o di Dio visto come Massima Emozione. A questo fine allego il mio scritto Chi è Dio, nel quale la teoria è esposta. Di Leopardi parlo nelle pagine 5 e 6.
Queste sono alcune mie considerazioni buttate alla rinfusa. Credo che l’argomento potrebbe sollecitare dotti ed esperti ad allargare il dibattito alla sfera antropologica di due grandi anime che in comune ebbero una totale mancanza di ipocrisia e il coraggio di vivere la vita come vollero a dispetto di ogni circostanza.
Auguro pertanto che Casa Leopardi possa promuovere un convegno in merito, coinvolgendo i compagni invisibili del Poeta, quei Carmelitani Scalzi che di mistica e alta poesia sono forse tra gli ultimi custodi.
Segnalo pure che la strofa 11 del Cantico Spirituale è ripresa letteralmente in una canzone dell’indimenticabile Giuni Russo, che fu estimatrice del Santo e volle essere sepolta a Milano con le Carmelitane Scalze. Giuni Russo, La sua figura:
Sai che la sofferenza
D’amore non si cura
se non con la presenza della sua figura.
Chi è Dio o la Teoria Emozionale:
https://drive.google.com/file/d/1xnjmq9mFCu9u8FdoGn4wShPRXjsgNNJW/view?usp=sharing
Salvatore Mongiardo
Soverato di Calabria, 2 aprile 2018
LETTURA PARALLELA
IL PASSERO SOLITARIO
D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Foto dal web.