L’Università delle Generazioni è lieta di presentare l’interessante e divertente racconto del dottore Salvatore Mongiardo di Soverato (ben conosciuto dai nostri lettori). In queste tre pagine, narra di sei fratelli fabbri, suoi antenati, i quali nel 1830 si disseminarono per alcuni paesi del basso Jonio e delle Serre, da San Sostene e Placanica, tra le attuali province di Catanzaro, Vibo e Reggio Calabria. In particolare, si sofferma sui fabbri suoi più diretti ascendenti, specialmente sul suo simpatico ed estroverso bisnonno Vincenzo nel contesto della comunità di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio. Un prezioso e gradevole “documento” familiare ed insieme storico, antropologico e sociologico.
L’Università delle Generazioni, ringraziando per la gentile attenzione, coglie l’occasione per augurare a tutti un SERENO NATALE 2017 E UN OTTIMO ANNO 2018.
Mastro Vincenzo
Egli era il nonno di mio padre, chiamato invece mastro Vincenzino perché aveva iniziato a lavorare nella bottega quando aveva solo quattordici anni. Tutti i maschi della famiglia di mio padre erano fabbri, forgiari, forse perché discendenti da armaioli dei crociati che si erano stabiliti in Calabria dopo la mancata sesta crociata sotto Federico II. L’imperatore, difatti, la rese inutile mettendosi d’accordo nel 1229 con il sultano d’Egitto Al-Kamil, che gli diede Gerusalemme con un semplice accordo di pace. Non fu come quello che sta succedendo oggi per il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele.
L’ipotesi dell’origine crociata della mia famiglia paterna sembra confermata dal cognome Mongiardo, che deriverebbe dal francese Montjoiy, monte di gioia, il mons iubili Jerusalem, al quale erano diretti. In francese quella parola suonava mongiuà ed era levata dai crociati come invocazione quando piantavano le tende per ricordare la loro destinazione finale, Gerusalemme. Il paese di Mongiana e la sua famosa ferriera borbonica, la quale in realtà produceva unicamente armi, potrebbero avere la stessa origine.
Intorno al 1830 sei fratelli Mongiardo, tutti fabbri di San Sostene nella Calabria Jonica, si davano da fare per sistemarsi nei paesi vicini di Spadola, Argusto e altrove. A uno dei fratelli, Salvatore, toccò di andare più lontano a Placanica, alle spalle di Stilo, che non aveva nessun fabbro. Col suo arrivò si risollevò quel paese che finalmente aveva un forgiaro capace di fare ferri d’asino, accette, zappe, falci e quant’altro necessario per la campagna o la casa.
Dopo qualche anno di permanenza a Placanica, quel Salvatore manifestò l’intenzione di tornarsene a San Sostene a prender moglie. La notizia fece il giro di Placanica e gli abitanti si spaventarono all’idea di non avere più il fabbro. Si rivolsero allora al parroco supplicandolo di convincere Salvatore a rimanere. Così una mattina il parroco andò alla forgia, situata sulla piazza, e gli disse:
O mastro, perché volete andare via a cercare moglie? Non vi piacerebbe sposare quella bella giovane che si affaccia al balcone di fronte?
E il fabbro rispose:
No, quella è gente buona, non vorrà me che lavoro sporco da mattina a sera!
In effetti, la giovane donna, Teresa Spanò, era di famiglia baronale decaduta e, per la consuetudine del tempo, non poteva fare nessun lavoro manuale perché sarebbe stato un disonore. Allora le donne della nobiltà decaduta passavano la vita tra fame e sete perché non potevano nemmeno andare a prendere l’acqua alla fontana.
Il matrimonio fu celebrato e nel 1842 a Placanica nacque loro un figlio, il nostro Vincenzo, mio bisnonno. Durante la mia infanzia, sentivo in paese molte storie che lo indicavano come persona allegra, amante della compagnia, dei giochi di parole e delle feste. E si ricordavano molti detti, che io riporto più avanti come lui li pronunciava, cioè nel dialetto di San Sostene, da dove proveniva.
Nel 1861 avvenne l’unità d’Italia e nel 1862, con la prima leva militare del Regno, Vincenzo fu chiamato alle armi. Partecipò nel 1866 alla terza guerra d’indipendenza contro l’Austria, e venne in contatto con i Cacciatori delle Alpi
comandati da Garibaldi. A questo diceva di aver salato la vita colpendolo al petto con la sciabola di piatto, buttandolo a terra e gridandogli: Arrìpati, Genarale, ca la paddha arriva! Difatti, aveva visto un cannoncino nemico che stava per sparare al Generale, e la palla passò senza ferirlo. Per la sua partecipazione a quella campagna militare gli fu dato un diploma e una pensione di otto soldi al mese, quanto gli bastava per comprarsi i sigari.
Tornato in Calabria, si stabilì a Sant’Andrea come primo forgiaro del paese. Aveva occhi chiari e portava la mezza barba. Prese in moglie Elisabetta Cosentino, un’albina dal grande seno. A parte la fucina, si diede da fare anche con lei, ed ebbero diversi figli morti bambini, che ho visto annotati nel registro parrocchiale tra gli anni 1870-80. Sopravvissero solo due maschi, Salvatore, mio nonno, e suo fratello Bruno. Vincenzo rimase vedovo di Elisabetta e, secondo l’uso dell’epoca, sposò la cognata nubile, molto scura di carnagione, contrariamente alla sorella morta che era albina.
Abitavano in quella stradina che da Malaira va verso la Rughicedda, la parte più antica del paese con case così piccole che sembrano fatte per i nani. La sua forgia era a sinistra guardando la Farmacia Dominijanni.
Cominciava a lavorare alle quattro di mattina e spesso andava a trovarlo una vicina un poco originale, perciò chiamata a Paccia ‘e Felici, molto scrupolosa nell’osservanza dell’astinenza e del digiuno prescritti dalla chiesa. Lei gli diceva:
Mastru Vicìanzu, mi mangiai na suppressata – altre volte una ricotta – ficia peccatu e sugnu dannata! La risposta immancabile era: Portala a mìa ca non mi dannu!
Erano molto apprezzati i suoi travestimenti in maschera per il Carnevale, quando il martedì grasso andava per il paese a recitare filastrocche e strambotti per prendere in giro i paesani. Un anno si vestì da Arlecchino con le carte da gioco appiccicate addosso, si coprì con un lenzuolo che apriva mostrandosi e dicendo: Sono un giocatore e ho sempre vinto, guardate come son dipinto! Era forse una satira contro qualche accanito giocatore che aveva perso a carte.
Avvenne che un anno, proprio alla vigilia di Carnevale, morisse sua suocera, madre delle sue due mogli. Mastro Vincenzo era combattuto tra la veglia funebre con la morta in casa, e la voglia di partecipare al carnevale. Ma era cosa molto sconveniente fare una pubblica carnevalata. Allora si coprì con un lenzuolo e andava per le case senza dire nulla, solo facendo smorfie. Lo seguiva la seconda moglie, la nera, che lo invitava: Scialaràtu, vìani ara casa u ciangi a mama! Sciagurato, vieni a casa a piangere mia mamma! E lui rispondeva: Vattìnda, sinnò ciangi tu! Vattene, se no piangi tu! Dopo molte insistenze della moglie, spazientito la picchiò e lei si mise a piangere. Allora lui disse: U vidisti ca mo ciangi? Hai visto che ora piangi?
Mastro Vincenzo si lamentava della prima e della seconda moglie con una frase rimasta proverbiale: La prima tantu janca e non vidìa, la sicunda tantu nigra e sgalipata. La prima moglie, era quasi cieca, come spesso succede alle albine; la seconda era nera, ma maldestra: il risultato era che rompevano ogni cosa.
Una mattina venne in paese il Sottodio, uno di Badolato così nominato, che aveva il lampo turchino, espressione misteriosa che si riferisce forse a un fulmine
che lo aveva colpito o forse al fatto che si ubriacava fino a vedere blu. Il Sottodio girava per i paesi vendendo statuine di santi e crocefissi. Il figlio minore di Mastro Vincenzo, Bruno, ragazzino che doveva azionare il mantice della fucina nella forgia, chiedeva al padre: Tata, m’accattàti u crocifissu? Dopo molte insistenze, il padre stese le mani sulla porta come fossero inchiodate, e disse: E cui esta cchiù crocifissu di mìa? Col figlio Bruno non s’intendeva molto, perché quello non voleva azionare, minara, il mantice della fucina. Il padre gli diceva: Mina, mina! Ma Bruno non menava, e allora il padre gli disse: Mini tu o minu io? Bruno, che non aveva capito le sue intenzioni, disse: Minati vui! E così il padre lo menò di santa ragione!
In paese era grande avvenimento la sacra rappresentazione della Pigliata, la Cattura e Passione di Cristo, alla quale partecipavano molti attori che facevano le prove nella chiesa del protettore. Durante una prova, Mastro Vincenzo si trovava a lato di Longino, il soldato cieco che aveva aperto il costato di Cristo con la lancia, acquistando la vista per il sangue che gli era schizzato sugli occhi. Nella prova Longino buttò la lancia che teneva in mano gridando: Vedo, vedo! La lancia batté sul viso di Mastro Vincenzo che disse: O santu Dio, a tìa ti detta la vista e tu la cacci a mìa?
Le case di allora terminavano con il tetto di tegole, i coppi di argilla cotta, che ogni tanto col vento e la pioggia si spostavano e dovevano essere risistemate. Per quel lavoro si sceglievano dei ragazzini perché pesavano poco e non rompevano le tegole camminandoci sopra durante il lavoro. Mastro Vincenzo scelse un ragazzino magro, perciò chiamato Achillino, che gli ruppe comunque molte tegole. Allora egli disse: Primu vidìa la luna, mo si vìdanu la luna, lu sula e li stiddhi. Attraverso le tegole rotte vedeva tutto il firmamento.
Mastro Vincenzo morì all’età di settantasei anni nel 1918, sconsolato nel sapere suo figlio Salvatore era al fronte della Prima Guerra Mondiale. Non la smetteva di lamentarsi per il telegramma di Garibaldi, quello del famoso Obbedisco, col quale rinunziava a continuare la conquista del Trentino. Diceva: Se Garibaldi non mandava quel telegramma, mio figlio non doveva partire in guerra!
Il figlio, mio nonno Salvatore, tornò malato per la polmonite che gli congelò la spalla sul Monte Grappa, dove era responsabile della teleferica che forniva i soldati italiani di armi e cibo. Riprese il pesante lavoro della forgia, ma spesso non era pagato nemmeno in natura, la gente si limitava a dirgli grazie perché era generoso e di buon carattere. Più di una volta tornò a casa, dove bolliva la pentola dell’acqua, e la moglie si aspettava qualcosa da cuocere per la famiglia. Lui si avvicinava alla pentola, faceva finta di togliere dalla tasca delle cose che versava nella pentola e diceva: Oggi mangiamo le grazie che mi hanno dato.
Morì nel 1922, quattro anni dopo suo padre, per l’infermità presa al fronte e fu ringraziato pubblicamente con la chiusura di scuole e negozi. Al funerale il popolo lo portò in processione per il paese come un santo.
Salvatore Mongiardo
(Soverato di Calabria, mercoledì 13 dicembre 2017)
Molto bello e divertente