Parliamo delle caratteristiche dei comprimari dell’educazione affettiva: del padre e della madre, iniziando da quella che dovrebbe essere la regina e principale protagonista del mondo affettivo: la donna – madre.
In questo periodo storico del mondo occidentale è difficile parlare di donna – madre, in quanto questa dizione così diffusa ed importante in tutti i secoli ed in tutti i popoli, tanto da essere vista come elemento sacro e divino ( la Dea Madre per millenni è stata oggetto di venerazione in molte civiltà), viene oggi superficialmente ed erroneamente giudicata come una definizione limitante e parziale della funzione femminile.
Sempre più vengono sopravvalutate ed esaltate le qualità professionali e le “conquiste” sociali: “donna – pilota”, “donna – magistrato”, “donna – architetto”, per carità, vanno benissimo, “donna – madre” no. Questo termine fa pensare a pappine da cucinare, a sederini da pulire, a lavatrici da riempire e panni da stirare.
In definitiva, si mette sempre più l’accento sulle caratteristiche e realtà di tipo occupazionale e produttivo, svalutando nel contempo il ruolo educativo e di cura. Tuttavia, come definire una donna che si assume questo compito particolare se non chiamandola con il dolce nome di madre? D’altra parte, come vedremo, il suo compito è molto più impegnativo, vario e fondamentale che preparare pappine e pulire sederini.
Caratteristiche della donna-madre.
Affinché il progetto dell’educazione affettivo-relazionale venga realizzato correttamente e pienamente è indispensabile che questa donna possieda delle particolari qualità. Winnicott chiama questo tipo di madre “madre normalmente devota”. Mentre al contrario non deve avere caratteristiche che potrebbero rendere difficile, se non impossibile, lo sviluppo armonico del bambino.
Per quanto riguarda le capacità, durante l’attesa è necessario che la donna abbia già sviluppato tutte quelle qualità femminili che le permetteranno di vivere la gravidanza con istintiva partecipazione di evento naturale e carnale. Una visione troppo razionale le impedirebbe quel contatto empatico indispensabile nei primi mesi di vita del bambino. Purtroppo, questo atteggiamento istintuale contrasta nettamente con i bisogni di efficientismo professionale che si richiedono alle donne inserite nell’ambito lavorativo.
Alla donna in gravidanza la società offre, almeno apparentemente, un’assistenza proprio come madre mediante i congedi parentali. In realtà questa protezione non solo non è completa ma soprattutto non è duttile e adattabile alle situazioni ed esigenze sia della madre che del bambino.
Se è vero che il rischio di parto prematuro aumenta negli ultimi mesi, è anche vero che non vi sono due gravidanze uguali e che ogni donna vive questo evento fondamentale della sua vita, sia dal punto di vista psicologico che fisico, in modo particolare. La madre, pertanto, dovrebbe avere il diritto di lavorare se e quando avverte che il lavoro è perfettamente compatibile con il benessere suo e del bambino, nelle ore e nei momenti nei quali si sente di potersi impegnare. Così com’era d’altronde nelle società preindustriali di tipo agricolo, che privilegiavano il ruolo materno e affettivo rispetto a quello lavorativo e produttivo.
Per quanto riguarda poi il periodo successivo alla gravidanza, mentre per la donna sono in genere sufficienti due – tre mesi per riacquistare buone capacità fisiche, per soddisfare efficacemente le esigenze psicologiche, intellettive e di cura del nuovo nato, pochi mesi di congedo parentale obbligatorio non sono affatto sufficienti. Se si dovessero tenere in debita considerazione questi bisogni il congedo parentale dovrebbe durare obbligatoriamente non due- tre mesi ma almeno tre anni, in quanto è nei primi tre anni che il bambino ha bisogno di particolari attenzioni e cure materne.
Il periodo del nido, che è il periodo più delicato ed importante nello sviluppo psicoaffettivo dell’essere umano, come di tutti gli animali superiori, nel quale la figura materna è fondamentale, copre, infatti, questo lasso di tempo. Ma è anche di due – tre anni il periodo nel quale la madre immergendosi totalmente nel suo ruolo può acquisire quelle particolari attitudini che noi chiamiamo materne, che le serviranno per tutta la vita e che potrà trasmettere alla discendenza come valore e cultura di base specifica.
Sappiamo però che questi bisogni si scontrano ed entrano in conflitto con le necessità gestionali delle ditte e degli enti o servizi che assumono donne lavoratrici in quanto, ogni ditta o ente che assume una donna, vorrebbe che questa desse il massimo delle sue capacità e tutto il suo tempo allo sviluppo della ditta o dell’ente, senza lunghi periodi di congedo parentale.
Quando un bambino viene al mondo passa da un ambiente morbido e caldo, (cosa c’è di più morbido e caldo del liquido amniotico del ventre materno?), al freddo e duro lettino della sala parto. Passa da un ambiente nel quale i suoni sono soffusi e dolci, scanditi dal battito rassicurante del cuore della madre, al rumoroso ambiente esterno. Passa, da una situazione in cui tutti i suoi bisogni sono automaticamente soddisfatti mediante gli afflussi del cordone ombelicale, alla necessità di respirare e nutrirsi per poter vivere.
Per non parlare del momento della nascita. Evento traumatico per la madre ma soprattutto per il bambino, il quale viene pressato, spremuto e costretto nel canale da parto, a volte per parecchie ore, prima di poter venire alla luce.
Il nuovo essere umano che si affaccia alla vita, riesce a superare questo trauma e questo evento fisicamente e psicologicamente stressante che lo potrebbe spingere a chiudersi in se stesso per sfuggire ad un mondo interpretato come traumatico e aggressivo, nel momento in cui si accorge, attraverso le braccia che lo portano al petto e mediante la dolcezza delle carezze di chi lo circonda, che il mondo fuori di lui non ha solo valenze negative ma anche positive.
Positive sono, infatti, le sensazioni che avverte quando la madre l’accoglie, e lo culla, lo stringe al seno e lo allatta mentre il proprio Io costruisce e forma l’Io del bambino e con questo si sintonizza.
Il bambino accetta che esiste un luogo fuori di lui e vi si apre per il modo con cui su di lui la madre posa il suo tenero sguardo e con lui comunica. Ed è per il senso di sicurezza e di accoglienza festosa e per le cure materne “abbastanza buone” che il bambino sviluppa l’innata tendenza verso l’integrazione con la realtà interna ed esterna.
Ed è da una buona integrazione con la madre che il bambino distingue il sé dall’altro, dall’esterno, e può costruire una membrana delimitante, così da poter dire: “Io sono”, mentre, infine, è dopo aver acquisito una sua individualità che può veramente far parte di un gruppo.
All’interno di questo sé possono essere raccolte memorie ed esperienze e può essere edificata la struttura infinitamente complessa che è propria dell’essere umano.
La sua globale crescita emozionale ed affettiva è, quindi, direttamente influenzata positivamente o negativamente dal modo con il quale la madre sa accogliere, giocare, comunicare, curare e soddisfare i suoi bisogni. Per fare ciò, per comprendere e per rispondere meglio alle necessità del bambino, la madre, come dice Winnicott, si fa piccola e fragile come il suo piccolo. Ma affinché questo farsi piccola e fragile non comprometta il suo Io e quello del bambino, la persona che assume questi atteggiamenti e comportamenti deve possedere una notevole solidità e maturità di base e deve avere accanto a sé un uomo ed una rete familiare ed affettiva che l’aiuti e la sostenga. Quando ciò non avviene, quando la madre si ritrova sola o troppo fragile, si presentano per lei e per la sua creatura dei gravi pericoli. I rischi per la madre sono abbastanza noti: depressione post partum, ansia, inquietudine, difficoltà ad entrare in relazione con il nuovo nato. I rischi per il bambino sono altrettanto gravi e numerosi e vanno dal rischio di essere trascurato sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista psicologico a quello di essere abbandonato o addirittura ucciso. Questi rischi vengono descritti dai mass media come momenti di follia, mentre in realtà sono la conseguenza di una serie di comportamenti sociali incongrui che non hanno dato alla donna i necessari apporti affinché questa potesse vivere bene questa fondamentale esperienza.
In sintesi, anche se a livello genetico vi sono tutti i presupposti per una buona costruzione del sé, nulla è scontato.
Ritornando all’esempio della costruzione della casa, fino a quando un buon muratore non ha materialmente costruito fondamenta, pilastri, pareti, la casa non c’è. Fino a quando non ha costruito le finestre che permettano di far entrare la luce dentro la casa e nello stesso tempo di guardare all’esterno di essa e fino a quando non ha costruito una porta che permetta di uscire da quella casa per incontrare gli altri e comunicare e interagire con loro, la porta e la finestra non ci saranno, anche se nel progetto era previsto che vi fossero. Pertanto, fino a quando qualcuno non costruisce un Io autonomo, la persona non c’è. Fino a quando qualcuno non costruisce le capacità sociali e relazionali, queste mancheranno o non si svilupperanno pienamente.
Ma chi può essere questo qualcuno? Chi sono gli specialisti capaci fare ciò?
Un essere umano certamente, perché l’umanità nasce dal contatto con altra umanità. Ma non è sufficiente. Questo essere umano deve avere capacità e preparazione necessarie per fare questo lavoro e la piena disponibilità e adattabilità a questo compito. Non sappiamo cosa avverrà nel futuro, ma fino ad oggi i migliori specialisti nella costruzione di un essere umano si sono dimostrati, tranne rare eccezioni, i suoi genitori, e di questi, nei primi anni di vita, soprattutto le donne-madri.
Emidio Tribulato