Caro Tito, con la precedente lettera sulla mia infanzia, ti ho accennato alla “Gente di Kardàra” e a come è stata fondamentale per portarmi ad amare Badolato, specialmente il borgo come pietre e persone. E, ovviamente, a portarmi ad amare Badolato è stata pure la grande e diffusa presenza di persone care, in particolare la mia estesa parentela e situazioni che mi hanno aiutato a crescere e a diventare, piano piano, anno dopo anno, uomo. Adesso, proseguo il mio racconto, dicendoti degli anni della mia adolescenza che si è svolta a Badolato Marina e dintorni (dal 1962 al 1968), così come la mia infanzia si è svolta prevalentemente a Kardàra.
ANNO 1962
Quando mi sono trovato a frequentare la classe scolastica prima media a Catanzaro Lido (poiché ancora non c’era la Scuola Medica Unica in ogni paese) abitavo ancora al casello di Kardàra, per cui la mattina mi dovevo alzare presto per poter prendere in tempo il treno (formato da una o due cosiddette antiquate “littorine”) che, gremito di studenti, operai e impiegati pendolari, partiva alle ore 06,35 dalla stazione ferroviaria di Badolato (un chilometro e mezzo distante dal casello). Raggiungevo a piedi la stazione e a piedi tornavo a casa che erano passate le ore 14 il primo anno, mentre nei due anni seguenti (aumentate le ore di lezione) per due giorni alla settimana giungevo a casa attorno alle ore 17. Praticamente per 5 ore di lezione stavo lontano da casa quasi 11 ore!
Nell’ottobre 1961, alla prima classe fu assegnata, come insegnante di lettere (la quale aveva maggiori ore di lezione e, quindi, ci seguiva di più), la signora Anna Maria Longo (allora sposata con il medico Bova e per questo generalmente chiamata “professoressa Bova”). Con una Fiat 1100 chiara veniva ogni mattina da Catanzaro città, dove abitava. Era una donna sui trenta anni, abbastanza interessante come persona e fondamentale come insegnante (almeno per me che la seguivo molto, essendo nella mia natura cercare di assorbire il più possibile dagli adulti), pure per questo le ho dedicato un significativo spazio alle pagine 443-444 della “Storia dell’Intelligenza” (1992). Era incinta e, con il passare dei mesi, il suo pancione diventava sempre più grande. Ci insegnava Italiano, Storia, Educazione Civica, Geografia, tutte materie per le quali avevo una particolare passione. Il maggior merito che attribuisco a tale docente è stato quello di averci invitato a ragionare sulle cose sociali e a vedere criticamente tutto e tutti. In verità, avevo già iniziato a fare questo mettendo il mondo a confronto con la “Gente di Kardàra” che era diventata il mio metro di misura della realtà. La professoressa Bova ha rafforzato e ha reso più metodica e sistematica quella mia infantile ma determinante intuizione.
L’insegnamento che mi è piaciuto di più e che, ritengo, abbia avuto una qualche influenza sul mio futuro è stato quello di farci leggere e commentare (in classe o a casa) i giornali quotidiani e le riviste (la carta stampata, cioè) anche con l’adozione della lettura dei libri della Biblioteca scolastica interna, affidandoci narrativa personalizzata. Infatti, al mio compagno di banco Rosario Mirigliano (che allora studiava pianoforte, poi divenuto docente nei Conservatori e compositore) dava libri che parlavano di musica e di grandi autori musicali come Richard Wagner (1813-1883). Intuendo la mia vocazione sociale mi affidava libri del tipo “Le mille e una Italia” di Giovanni Arpino (Einaudi – Torino 1960). Eccellevo nella lettura e nel commento dei giornali e delle riviste, dei libri e persino delle trasmissioni televisive (ti ricordo che già ero un appassionato di televisione di cui seguivo più programmi possibili, sia per ragazzi che per adulti, oltre alla radio). Conservo ancora un quaderno con i ritagli dei giornali che più mi avevano colpito e sui quali relazionavo in classe.
Questo amore per la stampa (giornali, riviste, libri, radio e televisione) sarebbe cresciuto nel tempo. Ho potuto contare sulla eccezionale professoressa Bova soltanto per la prima media, poiché in seconda e terza media ho avuto docenti purtroppo complessivamente assai mediocri. L’insegnante di lettere della seconda media era almeno umile ma quella di terza media fu persino meschina umanamente e violenta psicologicamente, sicuramente inadatta all’insegnamento. La professoressa Bova era dichiaratamente comunista (mentre la famiglia del marito era della Democrazia Cristiana, di cui il cognato Francesco Bova fu deputato per più legislature e ovviamente il suo matrimonio, in seguito, pare sia finito in separazione e divorzio pure per forti divergenze politiche). Si ispirava al metodo pedagogico di don Lorenzo Milani (allora ancora nostro contemporaneo, nato a Firenze nel 1923 dove poi è morto, qualche anno dopo, nel 1967) il prete che amava i poveri e le periferie come la mia “Gente di Kardàra”. Oggi i poveri e le periferie sono al centro dell’attenzione di Papa Francesco (l’argentino Giorgio Bergoglio). Per questa stretta vicinanza ho cominciato ad amare e condividere la pedagogia sociale di questo “prete scomodo” proprio sui banchi della prima media, per merito della professoressa Bova. In fondo, la sua Barbiana era come la mia Kardàra!
Un altro evento ha segnato la mia vita, come un’amputazione dell’anima … l’emigrazione per il Sud Australia di mia sorella Rosa, nel gennaio 1962, per sposare Domenico Lazzaro partito anni prima dal limitrofo paese di Santa Caterina dello Jonio. Nel corso della mia infanzia avevo visto tante, troppe partenze stagionali e definitive di emigranti dalla stazione ferroviaria di Badolato. Quasi tutte erano strazianti e si consumavano tra lacrime, persino disperazione ed addii come fossero le morti-viventi poiché si ritenevano “partenze per sempre” e alcune lo furono veramente, mentre per altre (grazie alla tecnologia di navi più veloci e specialmente di aerei) ci furono confortanti ritorni.
Ricordo (come se fosse adesso) che, quando i treni cominciavano a muoversi lentamente, era tutto uno sventolio di fazzoletti bianchi, ultima energica espressione di sentimenti forti e radicati. Questi tristi spettacoli hanno straziato la mia infanzia e la mia adolescenza ed hanno aumentato il mio senso di rivolta e avversione sociale verso le istituzioni e le classi dirigenti. Quelli erano anni in cui, giorno dopo giorno, partivano pure tanti contadini di Kardàra per paesi lontani come l’Argentina, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia ma anche per le migrazioni stagionali in Svizzera e in Germania. Piano piano Kardàra si svuotava. Il primo spopolamento, infatti, è avvenuto nelle campagne … poi, piano piano, pure nelle case del borgo antico di Badolato. Avvenne così in Italia come nelle altre nazioni mediterranee, spogliando specialmente le dorsali montuose.
Nel settembre 1962 anche la mia famiglia lasciò il casello di Kardara per “inurbarsi”, andando ad abitare l’alloggio Ina-casa di Badolato Marina (già acquistato nel 1956). Così mi restava più comodo raggiungere la stazione ferroviaria (distante soltanto un terzo di prima, cinquecento metri contro millecinque) e, cosa ancora migliore, poter godere della possibilità permanente di socializzare con i miei coetanei e con gli abitanti della Marina (che in pratica erano famiglie scese da Badolato Superiore, ma di diversa origine, cioè non soltanto contadini ed operai come a Kardàra). Tuttavia, continuai a frequentare Kardàra (specialmente d’estate) poiché mio padre ha potuto tenere in affitto il casello ancora per qualche anno, fino alla pensione dalla Ferrovia dello Stato (avvenuta poi nel giugno 1967). Utilizzavamo il casello come punto di appoggio e come magazzino. Ogni tanto ci andavo pure per incontrare qualche amico rimasto e per vendere ancora panieri di pesche agli automobilisti di passaggio (ma in questa attività ero sempre più solo poiché i gruppi di bambini e ragazzi venditori si erano svuotati per emigrazione). Kardàra era diventata quasi un deserto da contrada pullulante di gente e di vitalità. E’ stato assai triste per me lasciare Kardàra (lasciavo tutto un mondo), però le nuove situazioni quotidiane della mia famiglia esigevano di abitare nella Marina dove c’erano tutte le comodità di allora (energia elettrica, acqua corrente, fognature cittadine, maggiore possibilità di cucinare a gas e non più a legna, vicinanza ai mezzi di trasporto, ecc.).
Era la primavera del 1962. Ricordo che, frequentando la scuola media, abitavamo ancora al casello, quando mio padre un sabato mi disse di terminare di fare i compiti poiché all’indomani, domenica, mi avrebbe portato con sé a Badolato Superiore per conoscere altre famiglie amiche con le quali avevamo legami di comparaggi (cioè intercorrevano vicendevoli figure di padrini e madrine di battesimo o di cresima). Cominciavo ad essere un ragazzo, non ero più bambino, e quindi, come tutti i ragazzi, ero tenuto a riconoscere e rispettare le persone e le famiglie che dovevano essere rispettate come parenti. Come si può capire, “il rispetto” era allora una cosa seria e assai codificato nei modi e nei comportamenti. I bambini non ne erano del tutto esentati (anche se l’educazione a riguardo era comunque precisa e stringente), ma superati i 10-11 anni (e si diventava ragazzi con maggiore “giudizio” cioè comprensione umana e sociale) gli obblighi di rispetto erano sempre più inderogabili e, a volte, anche esigenti nelle cerimonie e nelle formalità, nei rituali e nelle sacralità.
Vorrei rimarcare questo passaggio esistenziale poiché è importante pure per la psicologia individuale e familiare, ma soprattutto per la posizione e la considerazione sociale. Infatti, questo passaggio coincideva con l’avvio della maturità sessuale (mi spiegò poi mio padre) poiché avviene in età di “rigugghyu”. Cosa significa letteralmente e cosa indica questa parola dialettale “rigugghyu”?… significa letteralmente “ribollire” così come comincia a bollire e ribollire l’acqua in una pentola, ad esempio, e quindi per esteso quando sessualmente nel ragazzo o nella ragazza cominciano ad intravedersi interessi psico-sessuali per l’altro sesso. Ciò, ovviamente, non avviene per tutti alla medesima età anagrafica quanto piuttosto nell’età del cosiddetto “sviluppo” (psico-somatico). Nel mio caso, evidentemente, i segni e i sintomi di tale “sviluppo” si erano manifestati ed erano stati percepiti nell’età in cui effettivamente avevo cominciato ad avere le prime pur timide ma importanti esperienze psico-sessuali.
Per il senso dell’onore, del rispetto e della serietà esistente allora e per il miglior governo delle manifestazioni psico-sessuali era necessario ed indispensabile conoscere le famiglie cui bisognava attribuire maggior rispetto … pure per non rischiare di fare qualche passo falso (con qualche loro ragazza adolescente) e tale da provocare attriti più o meno forti tra famiglie, specialmente con quelle più amiche con le quali la frequenza era maggiore. Infatti, una volta, durante una vendemmia, ho avuto una forte tirata di orecchie (che ancora al pensarci mi fanno male) solo perché con una mia coetanea scherzavo in un modo che a suo padre era apparso sopra le righe ovvero sopra o fuori dai codici di comportamento normale tra ragazzi e ragazze. Eppure ricordo che il mio fu un comportamento del tutto innocente, anche se, scimmiottando alcuni personaggi televisivi, poteva essere sembrato “offensivo” verso l’onorabilità della mia coetanea che, oltretutto, era mia compagna di classe e quindi c’era una confidenza maggiore (e insieme facevamo molto più di questo, quando eravamo da soli).
Quella ricognizione fatta assieme a mio padre a Badolato Superiore nel conoscere gente nuova fu assai utile non soltanto per gli scopi per cui veniva fatta (riguardo le più corrette e rispettose relazioni sociali) ma anche e soprattutto perché venivo a conoscenza di personaggi e di situazioni assai interessanti per arricchire il mio mondo interiore e socio-culturale. Erano tutte persone assai gentili ed amabili. E questa conoscenza mi fece aumentare il mio amore per Badolato paese (pietre e gente). In particolare, visitammo un compare che era un grande invalido della prima guerra mondiale. Fu un incontro assai memorabile ed incisivo per me, pure perché il suo stato di invalidità molto grave e i suoi racconti coincidevano perfettamente con il grado di invalidità e con i racconti che mi faceva a Kardàra (durante le sue passeggiate estive con la carrozzella) l’avvocato Pultrone il quale, da ufficiale durante la prima guerra mondiale, ha riportato gravi ferite che lo costrinsero per il resto della sua pur lunga vita a stare sulla sedia a rotelle e ad essere costantemente accompagnato e accudito. Con questi due grandi invalidi mi si aprì un grande mondo di sofferenza per cui iniziai immediatamente a detestare la guerra (che magari le gesta eroiche dei racconti sentiti al focolare o visti in televisione potevano involontariamente esaltare). Detestavo la guerra così come detestavo l’indegna povertà della “Gente di Kardàra” che era costretta, per sfamarsi, ad emigrare lontano, disgregando le famiglie. Non ne ero ancora pienamente cosciente, ma intuivo, a pelle, che la guerra combattuta (con morti e feriti, invalidi e distruzioni) era la stessa della miseria e della povertà (che egualmente provocavano morti e feriti, invalidi e distruzioni materiali e morali).
L’anno 1962 ha un altro buon risultato per me, nel mese di maggio. La mia classe era situata al terzo piano di un vecchio edificio. Dal balcone si poteva vedere il mare sottostante. Il riverbero della luce del sole sulla sua superficie moltiplicava la luminosità dell’aula. Ricordo che sembrava già estate. Finestra e balcone dell’aula erano spalancati e si poteva ascoltare persino il pur leggero sciabordare dell’onda sul bagnasciuga. Il mare era calmo e di un azzurro intenso e dorato per la cascata di sole … un azzurro abbagliante! Tutto era troppo suggestivo ed ho proposto al mio compagno di banco Rosario Mirigliano di scrivere, ognuno per conto proprio, una poesia sul mare. Poi avremmo confrontato le immagini e le sensazioni che ci ispirava quella magica situazione. Era la mia prima poesia. Ricordo soltanto due versi “Una striscia di sabbia serra – il mare e la terra”. Mi porto ancora nell’animo l’immagine di quel mare che mi inondava di luce. Sono lieto di avere iniziato la mia scrittura poetica con un componimento dedicato al mare e alla luminosità del sole, due presenze principali della mia vita e del mio amore per Badolato e la costa jonica.
ANNO 1963
Dall’ottobre 1962 al maggio 1963 ho frequentato la classe seconda media, sempre a Catanzaro Lido. Come nelle scuole elementari e come in prima media ero, pure in seconda, tra i primi della classe. Mentre in prima media eccellevo nell’individuare, leggere e commentare gli articoli più interessanti sui giornali, in seconda media eccellevo nello studio della geografia, tanto è che ho scritto due volumi sulla geografia d’Italia, corredati di immagini riprese da altri libri e dalla pubblicità turistica, dalle cartoline e dalle riviste … un “collage” ed un lavoro che mi valsero un 9 anche se, in verità, l’insegnante avrebbe voluto darmi un dieci su dieci (cosa non approvata dagli altri insegnanti per non evidenziare una distanza troppo forte dai voti avuti dagli altri miei compagni di classe). Fui felice lo stesso, anche perché la geografia era una delle mie tante passioni, con la insaziabile sete di conoscenza che mi ritrovavo. In questo somigliavo a mio padre, il quale, come militare di leva (sulle navi come la Duilio) e come richiamato, aveva girato quasi tutte le città rivierasche e continentali d’Italia e poi, da pensionato, si era dato ai viaggi all’estero a trovare amici e parenti. Inoltre, era sempre intento a leggere (nei rari momenti di relax) una piccola enciclopedia geografica della Editrice De Agostini di Novara, che si era comprata per il tanto amore che aveva per i viaggi e la conoscenza di altri popoli.
La mia passione per le materie umanistiche cominciava ad essere più evidente durante questa seconda media, mentre per la matematica sembravo essere negato. Così, avevo bisogno di un sostegno che mi veniva fornito da mia sorella Vittoria, già diplomata dal 1958 ed ora alle prese con supplenze ed incarichi nella scuola elementare. Nella primavera del 1963 venne richiesta in sposa da un giovane del paese che, però, lavorava come chimico alla Breda di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. Matrimonio nella basilica di Loreto (nelle Marche) il 18 settembre dello stesso anno 1963 e trasferimento in Padania. Il primo giorno di scuola, primo ottobre 1963, fui preso dal panico e capii che Vittoria mi mancava tanto sia come sorella che come sostegno nel fare i compiti.
Senza dire niente alla mia famiglia presi il treno per Milano e da solo raggiunsi la casa di mia sorella e del marito sita in Via Sicilia 53 a Sesto San Giovanni. Fu un arrivo orribile dal punto di vista atmosferico. Avevo sentito parlare della nebbia di Milano, ma quella che mi era dato vedere in quei primi giorni di ottobre fu terribile. Non si vedeva a distanza di due metri!… Fu per me un incubo e un vero trauma climatico prendere il tram dalla stazione centrale di Milano fino al domicilio dei neo-sposi i quali si affrettarono a mandare un telegramma ai miei genitori per rassicurarli che ero con loro. Non c’era ancora telefono nelle case. Amai sempre di più il sole ed il clima sereno, mite e pulito del mio paese sul luminosissimo e nitido mare Jonio! … A volte, ci capita di scoprire le bellezze che abbiamo quando vediamo altre situazioni che ci permettono di paragonare a nostro favore i privilegi che godiamo ma della cui importanza non siamo pienamente consci. Viaggiare può servire (tra tanto altro) a farci capire meglio ciò che di bello o di butto abbiamo noi rispetto ad altre realtà umane e territoriali.
Questa prima, fondamentale e traumatica esperienza padana mi convinse che avrei dovuto confrontare la mia realtà personale e paesana con altre persone e altri paesi. Così, mi prefissi un programma di escursioni per visitare e conoscere il più possibile i paesi del mio territorio ma anche tutte le regioni italiane (la cui ricognizione ho poi completato nel 1974 con la Sardegna). In verità, già conoscevo molto da vicino Isca Marina (distante appena 2 km dal casello) dove mio padre ci portava per accompagnarlo a fare la spesa nel negozio di alimentari Berlingeri, a cucire i vestiti dal simpatico sarto Napoleone o a tagliare i capelli da Berlingeri figlio, ecc. ma ci andavamo pure più volte la settimana per rifornirci di acqua potabile. Poi ho conosciuto molto da vicino anche Santa Caterina Jonio Superiore per via dei doppi fidanzamenti di mio fratello Vincenzo e di mia sorella Rosa. Da chierichetto ho conosciuto molto da vicino le Marine di Monasterace, Guardavalle, Santa Caterina dello Jonio, Isca e Sant’Andrea Apostolo dello Jonio. Qualche paese delle nostre montagne e della diocesi avevo “intravisto” con le gite parrocchiali estive o accompagnando padre Silvano Lanaro che vi si recava a confessare le suore dei vari piccoli conventi. Dovevo visitare i paesi mai visti prima e confrontarli con Badolato Marina e Superiore.
Così, ho approfittato delle due differenti situazioni logistiche in cui erano posizionate le due biciclette di mio padre. Infatti, mio padre aveva una bicicletta per raggiungere la stazione ferroviaria di Badolato, dove prendeva il treno per Catanzaro Lido. Alla stazione ferroviaria di Catanzaro Lido aveva depositata una seconda bicicletta per raggiungere la sua sede di lavoro (il magazzino del 21° Tronco, sito a un chilometro e mezzo, nel rione Casciolino). Mi organizzai in modo tale (durante gli anni scolastici della scuola media e durante le loro vacanze estive) da prendere, quando era inutilizzata, a volte la bicicletta depositata alla stazione di Badolato o quella parcheggiata alla stazione di Catanzaro Lido.
Con quella di Badolato ho cominciato ad andare a visitare i paesi collinari di Riace Superiore (distanza da Badolato Marina circa 50 km andata e ritorno), Monasterace (40 km AR), Guardavalle (30), Isca (6), Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (18), San Sostene (20), Davoli (22), Satriano (30), Soverato (28), Petrizzi (36), Montepaone (38), Gasperina (40), Montauro (42), mentre raggiungevo con la bicicletta depositata a Catanzaro Lido le marine e i paesi collinari di Borgia (12), Squillace (16), Copanello (12), Stalettì (16). A Gasperina abitava il mio compagno di classe Salvatore Fulciniti. Nelle campagne di Borgia abitavano i miei compagni di scuola Rosario Mirigliano (con il quale condividevo il banco in classe ed ero solito fare insieme i compiti nella sua casa della Roccelletta) e i suoi tre cugini Zaccone (Tommasina, Remo e Mimmo), mentre abitavano più distanti il compagno di classe Leonardo Zangàri e la coetanea compagna di scuola Rosetta Chiarella. In precedenza ero già stato nel paese di Stalettì poiché mia sorella Vittoria era stata direttrice di quell’asilo diocesano. A Pietragrande abitavano i tre fratelli Squillacioti (altri miei compagni di scuola e di viaggio in treno) e già il primo marzo di ogni anno iniziavamo la stagione balneare nei pressi della bellissima scogliera, divenuta grande attrazione con il turismo di massa qualche anno dopo.
Tutte queste escursioni (che preferivo fare da solo per una maggiore libertà ed autonomia di viaggio) mi hanno arricchito enormemente e mi hanno dato la sensazione che Badolato Superiore, pur essendo uno dei più poveri di queste zone e anche il più malconcio dal punto di vista urbanistico ed edilizio, era comunque e sicuramente il paese di maggiore fascino e suggestione, ancora di più persino di Squillace che allora era sede di Diocesi e conservava una struttura urbana assai bella ed appariscente, mentre Sant’Andrea Superiore aveva una posizione panoramica sullo Jonio ancora più sontuosa e spettacolare dei pur magnifici borghi di Montepaone e Montauro. Insomma, da Riace a Catanzaro la costa jonica era davvero assai stupenda e diventerà da allora sempre di mio maggiore interesse fino alla dichiarazione d’amore contenuta della mia proposta di un Consorzio turistico denominato “Riviera degli Angeli” (di cui dirò meglio trattando dell’anno 1972).
L’anno 1963 ha significato per me pure l’inizio di una fraterna amicizia con Vincenzo Guarna, studente di cinque anni più anziano di me, da poco sceso ad abitare con i genitori e una sorella in Via Nazionale 29-H di Badolato Marina in uno degli appartamenti costruiti per i terremotati dell’11 maggio 1947. Tra l’altro ho seguìto la sua attività di corrispondente delle due pagine calabresi del quotidiano romano “Il Tempo” tanto da diventare due anni dopo, nell’aprile 1965, suo vice corrispondente. Un altro importante significato ha per me tale anno per via del primo innamoramento verso una coetanea e frequentatrice come me della stessa parrocchia. Pur non essendo ricambiato, tale innamoramento ha sviluppato in me sentimenti di amore talmente assoluto da convincermi ad aspettare la donna della mia vita nella più completa devozione e castità per donarmi a lei nel modo più puro e totale. Ero felice nell’assumere e nel vivere tale situazione che ha una sua giustificazione nel clima di spiritualità esistente in quegli anni, pure a livelli di ambienti socio-culturali cattolici, specialmente per chi, come me, partecipava da protagonista alle attività associative e religiose dell’Azione Cattolica. Tale vissuto è continuato molto serenamente ed armoniosamente fino ai miei 17-18 anni, quando poi ha cominciato a prevalere quel senso critico verso tutto e tutti che (assopitosi – quasi narcotizzato – per qualche tempo sotto l’influsso cattolico) è riesploso nel pieno della mia adolescenza, sempre tenendo presente come unità di misura la mia “Gente di Kardàra” (come dirò meglio più avanti scrivendo dell’anno 1968).
Non posso non dire di un episodio che ha contribuito ad aprirmi gli occhi in modo formidabile. Mio padre, dopo il grave infortunio del 1956 accadutogli sul lavoro in ferrovia, fu destinato ai servizi sedentari presso un deposito del 21° Tronco nel rione Casciolino di Catanzaro Lido, distante un kilometro e mezzo dalla stazione ferroviaria. Anche io, come detto, viaggiavo per frequentare la scuola media di Catanzaro Lido e, la mattina, salivamo sulla stessa “littorina”. Durante la seconda e terza media, per due giorni alla settimana, quando l’orario di scuola superava le 4 ore, ero costretto ad aspettare il treno delle 16,30. Ne approfittavo per andare da mio padre, il quale mi faceva trovare sempre il mio piatto preferito, gli spaghetti al sugo rosso assai aromatizzato.
La prima volta che andai a trovarlo e sono entrato nel deposito dove aveva un piccolo ufficio, ho sentito un odore molto acre di carburanti e solventi. Chiesi a mio padre come riusciva a sopportare quell’odore così penetrante da dare fastidio alla respirazione. Mi rispose che restava nel deposito soltanto quando c’era cattivo tempo, pioveva o tirava la tramontana … altrimenti preferiva stare all’aperto e si era dimostrato disponibile a curare l’orto del suo capo ufficio, un sorvegliante friulano che ammirava tanto mio padre per l’impegno e la disciplina nel lavoro, per la correttezza ed onestà (trattandosi della gestione di un deposito di attrezzature varie utili per la manutenzione della strada ferrata per parecchi chilometri, appunto per l’intero 21° Tronco). I due divennero grandi amici e si scambiavano visite di cortesia (tante volte, dopo il pensionamento, mio padre andava in Friuli ad aiutarlo nella vendemmia o in altri lavori di campagna). Tuttora penso che a causare il tumore che ce lo ha portato via (ad appena 80 anni, ancora in forte vigore psico-fisico) sia stato provocato dall’ambiente altamente inquinato di quel deposito.
Mio padre approfittò di quella mia osservazione sull’odore del deposito per evidenziarmi un proverbio (lui mi educava con i proverbi, ma soprattutto con l’esempio). Mi disse: “Se tu entri in una qualsiasi stanza, quella stanza presenta un odore più o meno forte, a volte pure una puzza (anche la più insopportabile). Se l’odore di quella stanza non ti piace o ritieni che quella puzza sia intollerabile, allora hai pochissimo tempo per decidere se entrare o se uscirtene. Se non decidi subito, dopo un po’ non sentirai più né il piccolo odore né la puzza più nauseante. Ci farai l’abitudine e non l’avvertirai più”. Morale della favola … la vita è fatta anche di sottrazione! Bisogna sottrarsi in tempo da una qualsiasi brutta situazione, altrimenti ci si può assuefare in modo tale da non sentire più fastidio. La mia vita “ribelle” era già fatta di “sottrazione” (e di fughe) da situazioni che ritenevo ingiuste o intollerabili. Così ho sempre fatto in seguito (come ad esempio l’abbandono della scuola dei Salesiani di Soverato nel dicembre 1968, quando lo stare lì era divenuto per me insopportabile). La favoletta sulla puzza è ancora e sempre valida per me che, almeno finora, continuo ad avere fin troppa voglia di respirare aria pura e sana (fisica e spirituale, morale e civile) … oltre tutto sono pure “claustrofobico” e, quindi, allergico ai luoghi chiusi fisici e mentali.
ANNO 1964
L’anno scolastico 1963-64 (terza media) è stato un anno disastroso per me, principalmente perché avevo insegnanti che facevano letteralmente pena. Già in seconda media erano tutti assai mediocri (poco poco si salvava la docente di lettere che almeno era umile e si faceva umanamente volere bene, si impegnava nonostante fosse piuttosto scarsa). Il professore di francese era un avvocato troppo nevrotico che si mordeva sempre le mani, ci sgridava per un nonnulla ed era fin troppo irascibile (era diventato un incubo). In quegli anni una legge dello Stato aveva permesso a tanti avvocati disoccupati di poter insegnare (troppo malamente, salvo rare eccezioni) la lingua francese nelle scuole pubbliche. Inoltre, non avendo una palestra propria, per tutti gli anni della scuola media, passavamo l’ora di educazione fisica quasi sempre in classe a fare quasi niente (nemmeno una buona teoria). Di insegnanti bravi e seri ricordo soltanto tre donne negli anni della scuola media a Catanzaro Lido: la Bova (di cui ho già detto), la professoressa di matematica Foti di Reggio Calabria e quella di disegno.
Tutti gli altri avrebbero fatto meglio, per onestà verso lo Stato e per rispetto a noi alunni, a non salire in cattedra. Ciò era valido pure per l’insegnante di religione, il pacioccone parroco di Catanzaro Lido il quale non faceva altro che incuterci paure d’ogni genere, comprese quelle per il sesso adolescenziale verso il quale alcuni miei compagni di classe erano addirittura terrorizzati. Da quasi tutti gli insegnanti subivamo continuamente violenze psicologiche, più o meno gravi. Giunto al terzo anno di tale scuola media non ne potevo più né del trattamento né della inadeguatezza degli insegnanti subìti nei primi due anni (fatte salve le eccezioni evidenziate). Così, nella terza media, ribelle come sempre sono stato contro quelle che mi sembravano (ed erano) ingiustizie, contestavo gli insegnanti più carenti, prima tra tutti la docente di lettere, che era una giovane troppo saccente e aggressiva e, quindi, intollerabile. Risultato scolastico finale?… Rimandato in tre materie e bocciato a settembre. Ovviamente non a causa del profitto (ero tra i primi della classe) ma per la condotta. L’abominevole “mediocrità” che incontravo nella scuola e nella vita divenne poi il centro della raccolta di poesie “Gemme di Giovinezza” (1967).
Questa situazione della scuola media (anni 1961-65) si è poi ripetuta tale e quale prima all’Istituto Salesiano di Soverato (1965-1968) e poi a Locri, frequentando la seconda liceale nel 1969. Evidentemente era impossibile per me resistere alla “puzza” scolastica dalla quale rifuggivo. La favoletta sulla “puzza” raccontatami da mio padre funzionava, ma a carissimo prezzo, purtroppo per me, debole e indifeso, figlio del popolo e ribelle, sempre assetato di conoscenza, di dignità e di giustizia! Dignità esistenziale che poi ho reclamato pure per Badolato e per gli altri paesi spopolati nel 1986 con la mia “micro-rivoluzione” del “paese in vendita”. Il filo rosso della mia vita è un rosario di reclami per la dignità individuale e collettiva, mia personale e del popolo (ancora oggi, anno 2016, sempre ovunque e comunque). E’ più forte di me!
Dagli anni 1963 in poi (da quando in pratica mi sono trasferito a Badolato Marina), per controbilanciare le forti carenze dei docenti scolastici cercavo di frequentare sempre più, assieme ad altri miei coetanei, Antonio Gesualdo (Badolato 1936) un giovane ma eruditissimo maestro elementare che ci trattava da adulti, ci parlava dei suoi viaggi culturali in tutta Europa e di tantissimi altri esaltanti argomenti. Qualsiasi cosa gli chiedevamo, egli rispondeva soddisfacendo a pieno le nostre domande. Penso ancora adesso che Gesualdo sia stato e continui ad essere uno degli uomini più eruditi d’Italia. Lo incontravamo nella sua casa genitoriale di Badolato Superiore dove abitava oppure facendo lunghe e vigorose passeggiate per le campagne badolatesi (alcune delle quali scoprivamo ed apprezzavamo per la prima volta proprio grazie a lui che ce le spiegava e ce le faceva amare). A volte percorrevamo, ascoltandolo o dialogando, la strada asfaltata che da Badolato Superiore porta a Santa Caterina Superiore, ammirando i suggestivi panorami verso il mare e verso la montagna. Era una gioia ascoltare quello che chiamavamo il “professore Gesualdo”, il quale aveva l’aria di un antico filosofo peripatetico e noi eravamo i suoi allievi. Spesso lo invitavo a pranzo a casa mia e i miei genitori lo ammiravano tanto, rispettandolo anche secondo il proverio “Vai con chi è meglio di te e forniscigli le spese” (il che denota la massima considerazione). Ad Antonio Gesualdo ho dedicato finora parecchie importanti pagine nei miei scritti (anche giornalistici): in particolare, nel 1992 l’ho inserito nella mia “Storia dell’Intelligenza” alle pagine 445-446 e nel 2005-2007 gli ho riservato significati o ampi spazi nei sette volumi del “Libro-Monumento per i miei Genitori”.
Iniziavano così, con questo personaggio davvero straordinario, una lunga amicizia ed una fruttuosa e reciproca collaborazione socio-culturale, purtroppo concluse nel 2012 (non certo a causa mia). Ma per oltre 48 anni siamo stati l’un l’altro utile e valido punto di riferimento. Ritengo che io sia stato il suo “allievo” e “collaboratore-promotore” più longevo, più tenace, fedele, generoso e devoto. Antonio Gesualdo ha contribuito notevolmente a rafforzare il mio amore per Badolato Paese. E per questo e per tanto altro gli ho sempre dimostrato grandemente la mia riconoscenza e gratitudine. Sicuramente, più avanti, accennerò ad alcune iniziative intraprese insieme a favore di Badolato borgo, come l’Università dei Popoli (un’associazione cucita su misura proprio per lui nell’anno 2000) di cui è stato “Rettore” per 12 anni (cioè, fino alla conclusione della nostra amicizia).
Oltre ad attaccarmi di più alla televisione e al cinema, alla lettura di libri e riviste, ho avuto altri modi per colmare le deficienze dei miei insegnanti, ricercando da me stesso gli interessi socio-culturali cui dedicarmi con molta passione, come ad esempio… fare la racconta delle pietre più belle del territorio badolatese. Infatti, il mio amore per Badolato (aumentato pure a motivo delle passeggiate con Gesualdo ed altri amici miei coetanei) mi portava ad ammirare persino le rocce delle colline, i sassi del mare. Spesso, rifacevo da solo gli itinerari percorsi con Gesualdo e il gruppo dei miei compagni per poter meglio dedicare tempo ed attenzione alle maggiori e migliori caratteristiche delle campagne (di cui ammiravo l’eccellente lavoro dei contadini). Prendevo, di tanto in tanto, piccole pietre (specialmente quelle luccicanti) e le portavo a casa, custodendole in alcune scatole che mettevo sotto il mio letto. Già allora, all’età di 14 anni, pensavo che avrei potuto fare un Museo di rocce e pietre variegate e multicolori. I sassi presi sulla spiaggia o sulla battigia del mare erano quelli che mi attraevano di più. Ero talmente fiero ed orgoglioso del mio territorio jonico (litorale, collinare e montano) che lo avrei mostrato a tutto il mondo! A cominciare dalle pietre!… Quando si ama tanto, forse troppo, il proprio paese si è portati a ritenerlo “l’ombelico del mondo”. Il proprio paese diventa così tanto sacro come la propria mamma o la propria donna e, come queste, lo si ritiene il più bello del mondo. Ogni cosa, persino foglia o erba, è meravigliosa!
Purtroppo, dopo qualche mese ho dovuto buttare tutto perché a mia madre non piaceva vedere tutte quelle scatole ripiene di pietre sotto il letto a motivo che erano un ricettacolo non solo di polvere. Aveva ragione mia madre, ma restava assai grande la mia passione per quella raccolta che intendevo esibire da qualche parte almeno con una Mostra per far vedere e far capire quanto erano belle e variegate le pietre del nostro paese. A proposito di pietre, allora girava una frase che avrebbe detto Nicola Caporale un insegnante-scrittore il quale, trasferitosi a Firenze per motivi letterari, è poi tornato a Badolato dove “persino le pietre amava e gli parlavano”. Poi, nel 1973 ho iniziato a frequentare tale scrittore che mi ha onorato della sua bella amicizia fino al 1994, anno della sua scomparsa a 88 anni. Dirò pure di lui, al momento giusto, pure perché ha avuto un ruolo assai importante per rafforzare ancora meglio e di più il mio amore per Badolato (pietre e gente).
Continua il più possibile anche nel 1964 la ricerca delle occasioni per seguire i programmi televisivi. La mia famiglia non aveva ancora acquistato un apparecchio televisivo nel settembre 1962 quando ci trasferimmo definitivamente dal casello di Kardàra (dove non avevamo corrente elettrica) all’alloggio Ina-casa di Badolato Marina, dove già avevamo due elettrodomestici, comprati alcuni anni prima: una radio e un frigorifero (entrambi di marca Siemens, made in Germany). Tuttavia, facevo buon uso dell’ospitalità di amici e specialmente della sempre gentilissima famiglia di mia zia Domenica Lanciano, sorella minore di mio padre, sposata con Andrea Piperissa. C’era pur sempre la televisione della canonica, quella della sezione comunista e quella dei due bar allora esistenti che frequentavo di tanto in tanto per non disturbare le famiglie.
Essendo stato rimandato in tre materie nel maggio 1964, la mia famiglia pensò bene di mandarmi a Sesto San Giovanni (Milano) da mia sorella Vittoria, la quale avrebbe potuto prepararmi per il cosiddetto “esame di riparazione” a settembre. Ho, quindi, trascorso due mesi e mezzo (luglio, agosto e metà settembre) a casa sua ed ho avuto la possibilità di girare per questa città molto industriale e nella vicina Milano, ma anche in altre città dell’interland milanese come Monza e Cinisello Balsamo. Tutto nuovo, bello e interessante per me che finora, fuori dalla mia Calabria, avevo “intravisto” soltanto il centro storico di Roma e quello di Bologna. Ho potuto vedere come vivevano alcune famiglie di emigrati calabresi (ceto operaio e impiegatizio) in questa parte di nord Italia apparentemente molto progredita. Ho pure avuto la possibilità di constatare taluni usi e costumi della popolazione, dei commercianti, dei grandi magazzini, degli uffici, delle parrocchie e di altri ambienti cittadini. Purtroppo, ho constatato, con molto dolore, anche cartelli del tipo “NON SI AFFITTA A MERIDIONALI”.
Respinto agli esami di riparazione, sono stato costretto, il primo ottobre 1964, a frequentare, da ripetente, la terza media nella consueta scuola di Catanzaro Lido. Ci voleva pure questa esperienza!… un anno perso, principalmente per l’inadeguatezza umana, professionale e psicologica di quasi tutti gli insegnanti che non erano adatti o capaci a bene istruire o ad aiutare la mia adolescenza. Avevo sempre dimostrato di essere tra i primi della classe, ma la mia effervescenza e la mia esagerata voglia di apprendere (spesso al di là dei languidi e stentati programmi scolastici) si sono frantumate contro lo scoglio di una Scuola che non era all’altezza dei tempi né delle nuove generazioni. Pur umilmente, non posso nascondere quelle mie difficoltà. Avevo già acquisito altri importanti (e per me migliori) punti di riferimento culturale e psico-pedagogico (con le forti esperienze di vita di persone adulte come i grandi invalidi di guerra oppure altamente istruite come il prof. Antonio Gesualdo). Avevo già avuto esperienze psico-sessuali ed avevo un considerevole bagaglio multi-mediatico (cinema, televisione, fotografia, giornali, associazionismo, e quant’altro avevo mentalmente macinato e appreso fin da bambino). La scuola che frequentavo mi andava troppo stretta e ne provavo tanto strazio. Purtroppo, pure gli insegnanti di questa altra terza media facevano pena oltre ogni immaginazione!… Fu, poi, questo sofferto motivo dell’insufficienza generale della scuola pubblica a spingermi a tentare la frequenza della scuola privata dei Salesiani di Soverato quando si trattò di scegliere il Ginnasio-Liceo, dopo la scuola media nell’ottobre 1965. Allora i Salesiani avevano fama di grandi insegnanti ed educatori. L’aristocrazia e la ricca borghesia affidavano a costoro i propri figli. E i loro ex-allievi erano tutti assai importanti nella vita.
Questo anno perso (nel ripetere la terza media) mi faceva tornare alla mente un altro anno perso per colpa della segretaria della scuola elementare di Badolato Marina, la quale, adottando trattamenti discriminanti, non ha voluto iscrivermi alla prima classe elementare nell’anno scolastico 1956-57 mentre ha iscritto due bambine nate, come me, nello stesso anno 1950, ma in famiglie di ceto ritenuto “superiore” al mio (operaio-contadino). Non che, alla fin fine e a ben vedere, questi due anni persi abbiano avuto un determinante peso (almeno sulla lunga distanza della vita e dell’esistenza) … però, al momento, sono state umiliazioni sociali assai pesanti e ne provavo troppo dolore per la mia famiglia più che per me. Ho cominciato prestissimo a rendermi conto che esisteva una “scuola di classe” (come era in uso dire in determinati ambienti progressisti, allora a me totalmente ignoti) … esisteva una scuola che divideva e selezionava come espressione di quella “società di classe” che punisce l’essere poveri e senza santi protettori. Credimi Tito, ho tenuto conto pure di questo quando si è trattato di pensare a “Badolato paese in vendita”.
Di tutti gli avvenimenti sociali che mi hanno avvicinato sempre più a Badolato Paese, uno in particolare mi ha visto partecipare alle forti e grandi emozioni di tutto il mio popolo: la vicenda dell’incendio e della riedizione della statua della Madonna della Sanità (1963-1964). Come ho accennato, ogni anno ero solito salire da Kardàra sulla collina di Santo Isidoro dove sorgeva (e sorge ancora in zona panoramica sul Golfo di Squillace) il santuario basiliano che, antico di oltre mille anni, ne custodiva la statua (opera di artista napoletano di fine Ottocento). Tale statua rappresentava la Madonna seduta su una nuvola. Teneva in braccio il Bambinello suo figlio il quale tendeva sguardo e manina verso un malato supplicante ai loro piedi. Finora era l’unico gruppo scultoreo, questa di una Madonna della Salute, in cui avevo notato esserci un malato nell’atto di tendere una mano verso Madonna e Gesù Bambino. L’ultima domenica dell’agosto 1963, subito dopo la conclusione della Festa, un incendio ha semi-distrutto il santuario e incenerito questa statua lignea ottocentesca. L’arciprete Antonio Peronace è riuscito in pochi mesi a suscitare tale e tanto entusiasmo in Badolato e nei paesi vicini che la statua, riedita dagli scultori Perathoner di Ortisei (Bolzano), fu pronta per la benedizione del Papa Paolo VI nella basilica di San Pietro la mattina del mercoledì 29 aprile 1964. Partecipai al pellegrinaggio in Vaticano per tale occasione suggestiva e rara quanto storica per noi badolatesi.
La festa della Madonna della Sanità è molto cara al mio cuore, non soltanto perché mi ricorda meravigliosi giorni della mia infanzia, ma anche perché penso teneramente alle ragazze e alle donne di Kardàra che si davano maggiormente da fare a vendere pesche ed altri prodotti agricoli per potersi comprare o far cucire una veste nuova proprio per la Festa della Sanità dell’ultima domenica di agosto. Magari andavano scalze, ma tenevano tanto ad avere un vestitino nuovo per onorare la Madonna e se stesse. “Vestita come una regina ma scalza come la gallina” era il ritornello di quei giorni, poiché non tutte potevano permettersi un paio di scarpe (nemmeno di bassa marca e qualità).
ANNO 1965
L’anno 1965 è stato assai ricco di eventi che mi hanno legato ancora di più a Badolato. Infatti, nel mese di aprile, quasi in contemporanea, mi sono giunte le tessere di Corrispondente titolare del quotidiano romano “Il Messaggero” e di Vice-Corrispondente dell’altro quotidiano romano “Il Tempo”. Entrambi avevano due pagine di “Cronaca della Calabria” ma talune notizie da me inviate sono state pubblicate sulle pagine nazionali, con mia grande gioia.
Ecco, la gioia provata nel vedere pubblicati i primi articoli è la stessa gioia che provo ancora adesso nel vedermi pubblicati miei comunicati-stampa da qualsiasi giornale cartaceo o internet. Mi meraviglio io stesso di come e quanto sia rimasta inalterata una simile gioia, proprio come fosse la prima volta con le medesime emozioni … segno, probabilmente, che è rimasta in me quella purezza di intenzioni e di passione che mettevo nel fare questo tipo di lavoro volontario, mai retribuito da allora ad oggi, a beneficio del territorio nel cui contesto mi sono trovato o mi trovo ad agire. Infatti, questi giornali si sono sempre limitati a rimborsarmi unicamente la spesa dei francobolli per la spedizione “fuori sacco” degli articoli … affidati direttamente al vagone postale del treno serale per Roma Termini. Conservo ancora fogli e buste “fuori sacco” (appunto) con cui noi corrispondenti locali dovevamo spedire le nostre note giornalistiche. Sicuramente, a 15 anni appena compiuti da un mese, sarò stato uno dei corrispondenti-stampa più giovani d’Italia. La Vice-Corrispondenza de “Il Tempo” mi era stata affidata dall’amico Vincenzo Guarna, mentre la Corrispondenza de “Il Messaggero” era stata agevolata da un altro caro amico e coetaneo badolatese, Piero Caporale.
Tenevo tanto a questa mia attività giornalistica che scrivevo a penna in un apposito registro il testo dell’articolo inviato e, accanto, incollavo il ritaglio originale dell’articolo pubblicato. Facevo con molta diligenza questa operazione di documentazione per più di un motivo.
Primo, ho sempre cercato di conservare il più possibile i “documenti della mia esistenza” (dai quaderni e dai libri di scuola ai miei umilissimi giocattoli e ad altra oggettistica per me assai significativa). Se adesso ho circa 50 metri cubi di documentazione personale e sociale è proprio perché ho cercato di conservare (a futura memoria) le tracce più importanti della mia vita vissuta. Ho iniziato a conservare fin da bambino e conservo pure adesso tale documentazione con la speranza che ci possa essere in futuro una istituzione che la possa valorizzare come documentazione storica della mia epoca e come testimonianza esistenziale di un “aspirante intellettuale” di origini operaie-contadine, a cavallo tra 20° e 21° secolo. Sono lieto di avere avuto fin da bambino una simile lungimirante intuizione! Sperando che sia utile a qualcosa e non vada persa dopo la mia morte poiché è principalmente questa la mia eredità sociale!
Secondo, intuivo allora e ne ho certezza adesso che l’attività giornalistica può contribuire a suscitare un qualche progresso in una comunità e in un territorio dove si diffondono le idee e le proposte, le segnalazioni. Infatti, lavoravo ovviamente i fatti di cronaca, ma la mia attività giornalistica principale e preferenziale si è rivolta fin dall’inizio al miglioramento delle situazioni esistenti.
Terzo, mi accorgevo sempre più, giorno dopo giorno, che ero felice quando il nome di Badolato era presente nelle due pagine di “Cronaca della Calabria” in mezzo ad articoli che trattavano di altri paesi. Già da allora iniziavo a capire che un paese esiste socialmente (di solito e soprattutto) se ha un posto sui giornali, alla radio, nelle manifestazioni pubbliche che abbiano un’eco presso i forestieri, quelli degli altri paesi, specialmente con le buone notizie. Pure per tale motivo cercavo di inviare ai miei giornali di riferimento notizie positive, dal momento che, purtroppo, la cosiddetta “cronaca nera” non mancava. Tale tema della “visibilità” ha, quindi, cominciato a occupare le mie prime riflessioni e la mia azione giornalistica come servizio reso al mio paese e come incentivo a fare bene e meglio poiché si era sotto gli occhi di tutti ed era necessario farsi onore!
Amavo tanto già allora il mio paese che desideravo vederlo rifulgere nelle cose belle, pure attraverso la visibilità giornalistica, nel contesto regionale. Gioivo davvero tanto quando, in mezzo a tanta cronaca nera, Badolato veniva riportato per fatti positivi. Perciò, cercavo di proporre ai due quotidiani romani (e poi ad altra stampa calabrese) articoli utili al suo prestigio interzonale. Volevo che Badolato stupisse specialmente i paesi vicini. E’ nata proprio nel 1965 l’idea che “bisognava stupire il mondo”. Idea che ho sviluppato meglio negli anni seguenti e che sollecito pure adesso qui in Alto Molise. “Stupire il mondo” (ovviamente nelle cose belle e stupende, appunto) è stato un mio imperativo esistenziale fin da questi anni della mia adolescenza. C’è traccia pure in alcuni versi che andavo scrivendo proprio in questi anni, coincidenti con la mia attività giornalistica e che poi ho raccolto in “Gemme di Giovinezza” (opuscolo stampato il 13 dicembre 1967).
A tale proposito, un esempio assai forte sono i versi della poesia “Dare” (appartenente alla silloge “I giorni che mi appartengono”) che qui riporto di continuo: “Date, date voce i secoli, voi che restate muti. Date, date nome agli eventi, voi che soffrite ai margini della vita. Date, date eco alla vostra esistenza, voi persi nel’orizzonte sparso di nebbia antica”.
Adesso non ricordo la data precisa. Forse sarà stata la primavera del 1964 o del 1965, non ho sottomano il documento. Ricordo che frequentavo la terza media (quella normale o da ripetente?). Fatto sta che ho realizzato un giornalino scolastico, stampato poi in tipografia e distribuito ovunque avessi potuto, in cambio di qualche spicciolo (dato in libera offerta) per pagare almeno le spese. In quegli anni era consuetudine assai diffusa fare e stampare dei giornalini di classe o di istituto. In verità era più una prassi negli istituti superiori, mentre era assai raro nelle scuole medie. Così la mia vocazione per il giornalismo e per la comunicazione sociale veniva fuori sempre più.
Nell’agosto 1965 ho vissuto una delle più importanti esperienze le quali, più di altre (che pure sono state forti, come ho già avuto modo di evidenziare), mi hanno confermato il fatto che non potevo stare troppo lontano da Badolato, dalla sua luce, dal suo mare, dalle sue montagne mediterranee, dai miei amici, dai miei parenti, dalla mia famiglia, da tutti i miei altri affetti. Un mio cugino artista di Soverato, Giuseppe Cunsolo (marito della mia simpaticissima cugina Peppina Lanciano figlia di zio Vincenzo) era in partenza per la Svizzera dove lavorava. Gli chiesi se potevo viaggiare con lui per andare a trovare ad Uster (cantone di Zurigo) mio fratello Antonio e la moglie Ines. Acconsentì e, con il permesso dei miei genitori, andai per la prima volta in Svizzera. Sarà stato un caso ma, passato il confine italiano a Chiasso, si vedevano soltanto nebbie e nuvole, pioggia sottile. Improvvisamente il sole è scomparso dalla mia vista e sarebbe rimasto assente per una settimana!… Mi sembrava assurdo … visto e considerato che eravamo in estate e, addirittura, in agosto che avrebbe dovuto essere il mese più caldo e assolato della stagione delle vacanze.
Questo mio primo viaggio in Svizzera dell’agosto 1965 (ci sarei poi tornato con mio padre nell’agosto 1967) fu un vero trauma non solo climatico. Infatti, non potei vedere il sole per una settimana, ma soltanto cielo coperto, nebbiolina e pioggerellina insistente. Ma a parte questo, ebbi enorme dispiacere e grande dolore nel vedere i cartelli “VIETATO ENTRARE A ITALIANI E CANI” alle porte di alcuni locali pubblici (come i bar). Un dolore rinnovato, poiché come ho già detto (nell’anno 1964), avevo visto cartelli contro i meridionali a Milano, Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo. Inoltre, a Uster, Wetzikon e Dubendorf (tre cittadine vicine tra loro dove c’erano emigrati badolatesi) ho visto la condizione dei lavoratori italiani e di altre nazioni … tanto che ho scritto proprio in quei giorni svizzeri la poesia che inizia con questo verso “Non trattate come cani da cortile gli italiani!”. Mi rattristai talmente tanto che scappai da Uster e dalla Svizzera senza dire niente a mio fratello e a mia cognata. Lasciai loro un biglietto sul tavolo e presi il primo treno per l’Italia. Caso volle che proprio alla frontiera italiana, a Chiasso, riapparve il sole!… Il sole! Finalmente il sole!
L’esperienza milanese contro i lavoratori meridionali (sofferta nell’estate 1964) e questa svizzera contro i lavoratori italiani emigrati (agosto 1965) sono servite molto per convincermi, in seguito, che era necessario dotare i nostri emigrati di mezzi culturali più adatti per essere maggiormente orgogliosi e fieri delle loro origini, senza sentirsi inferiori a nessuno … in qualsiasi paese o nazione si trovassero a lavorare e ad abitare. In particolare, volevo dare agli emigrati calabresi l’orgoglio di poter dire “L’Italia è nata in Calabria” … evidenziando loro che il nome Italia era nato (non certo a caso) in Calabria e così, contestualmente, anche la “prima Italia” di re Italo (già quasi 3500 anni fa). “L’antica Calabria – si diceva negli anni della mia adolescenza – aveva già la toga quando gli altri avevano ancora la coda”.
In particolare, nella settimana che sono stato in Svizzera, ho avuto la possibilità di andare alla stazione ferroviaria di Wetzikon (cittadina dove lavoravano alcune centinaia di badolatesi, che poi ho definito “la seconda Badolato”) e di vedere che la mia gente si incontrava (con qualsiasi condizione atmosferica) sotto un grande albero di castagno (a castagnàra) non avendo allora un centro di aggregazione al coperto. Di loro non si interessavano le istituzioni locali, né c’era ospitalità in qualche bar-ristorante ricreativo privato o pubblico, né la comunità degli emigrati (badolatese, calabrese, italiana) aveva ancora forza e capacità di affittare o acquistare dei locali dove riunirsi e coordinarsi socialmente (cosa che avverrà anni dopo con la FARCES, Federazione delle Associazioni Regionali dei Calabresi Emigrati in Svizzera). Soprattutto questo fatto che i badolatesi (abitanti in Wetzikon e dintorni) non avessero nel 1965 un centro di aggregazione ha ispirato poi nel 1982 la richiesta al Comune di Wetzikon di un Gemellaggio con il Comune di Badolato e in seguito di rivendicare locali di aggregazione (ma anche di preghiera) per i cosiddetti immigrati extracomunitari che lavoravano in Italia. Ampia è, a riguardo, la documentazione dei miei appelli e interventi sulla stampa.
Promosso a giugno, da ripetente, e presa così la licenza della scuola media, nel settembre 1965 mi sono iscritto alla prima classe del Ginnasio-Liceo dei preti Salesiani di Soverato. Due mie sorelle, Vittoria e Concetta, si erano già diplomate maestre elementari dalle suore Salesiane della medesima cittadina, distante 13 km da Badolato Marina. La speranza era che la scuola salesiana fosse più seria di quella pubblica, pure perché da loro non era ammesso lo sciopero e quindi c’era una maggiore continuità d’insegnamento. Come poi ho potuto toccare con mano, nemmeno i Salesiani erano diversi dalla scuola pubblica quanto a mediocrità di insegnanti (salvo poche ottime eccezioni). Anzi, taluni erano così scarsi e meschini che facevano doppiamente pena, come insegnanti e come sacerdoti. Infatti, da buon ribelle quale sono sempre stato, ho abbandonato la scuola salesiana nel dicembre 1968 (come descrivo alle pagine 350-353 del secondo volume del “Libro-Monumento per i miei Genitori”).
L’Istituto salesiano veniva frequentato sia da studenti interni (che vivevano in quel convitto-collegio, provenienti da varie parti della Calabria) che da studenti esterni (che, come me, abitavano nel raggio di qualche decina di chilometri). A quel tempo, in tale istituto c’erano i tre anni di scuola media, i due anni di ginnasio e i tre di liceo. Quasi tutti gli studenti appartenevano a famiglie di professionisti, di benestanti e di veramente ricchi. Molto pochi quelli che, come me, eravamo figli di famiglie operaie. Ricordo che, nell’autunno 1965, frequentando il quarto ginnasio (equivalente al primo superiore), mi sono lasciato vincere dalla commozione ed ho pianto di rabbia in classe, durante la trattazione della condizione contadina nel sud Italia e, in particolare, in Calabria. Avevo evidenziato come e quanto venissero sfruttati i miei contadini di Kardàra e quanto poco venissero pagati dai commercianti i loro prodotti che poi, al dettaglio, avevano prezzi troppo esorbitanti in proporzione al prezzo di partenza. Ancora una volta la mia “Gente di Kardàra” era al centro della mia vita anche se me ne ero allontanato fisicamente e logisticamente, ma di appena un chilometro.
ANNO 1966
I miei contatti con Badolato Paese erano sempre frequenti, sia perché lì abitavano ancora le famiglie di tre miei zii (Andrea, Francesco e Concetta) e sia perché, tramite l’Azione Cattolica, c’erano diverse occasioni di incontro con i giovani del borgo antico, ancora abbastanza popolato negli anni sessanta. Ma sono stati proprio i primi anni sessanta che diedero il via al primo piano di fabbricazione per l’edificazione di case private nella Marina. Così parecchie famiglie avevano cominciato a costruire il proprio “palazzo” (mediamente 4 piani con appartamenti, garages, magazzini, e cantine per sé stessi e per i figli) proprio a partire dall’Ina-casa dove abitavo fino al torrente Barone, in quella zona che viene ancora indicata come “il Ghetto” per via di palazzoni ammassati senza alcun criterio di estetica e di dignità urbanistica. Ma, per noi vecchi e nuovi marinòti, Badolato Superiore restava pur sempre una grande attrattiva per le tante feste religiose e per altre antiche tradizioni popolari. E poi c’erano ancora gli uffici comunali dove andavamo spesso per chiedere ed ottenere il rilascio di certificati e per altre incombenze burocratiche.
Dopo il mio definitivo trasferimento da Kardàra all’Ina-casa, nel settembre 1962, specialmente frequentando la parrocchia dei Santissimi Angeli Custodi, ho avuto modo di riprendere l’amicizia con compagni della scuola materna e della scuola elementare, come Giuseppe Naimo e Pietro Criniti, oppure nuovi amici appena scesi ad abitare in Marina dal borgo collinare, ma anche di legare maggiormente con ragazze e ragazzi vicini di casa come Domenico Rovito, Maria Caterina e Rosantonella Anoja, Antonio Squillacioti, Raffaele Lanciano, mentre era quasi quotidiano e assai gioioso lo scambio di visite con le famiglie dei miei zii Domenico e Domenica (fratello e sorella di mio padre) e di zia Rosa Menniti (sorella di mia madre) che abitavano vicinissimi nello stesso rione della Maiolina. Questo era il piccolo-grande mondo della mia adolescenza.
Ma, pur abitando in Badolato Marina e pur frequentando Badolato Superiore, non dimenticavo la mia Kardàra, dove ancora tenevamo in affitto dalle Ferrovie il casello natìo. Lo tenevamo come magazzino e per altri disimpegni. Ogni tanto, quando avevo bisogno di qualche soldo, andavo a Kardàra a vendere panieri di pesche agli automobilisti, cosa che ho fatto fino all’estate 1967 quando, dopo il suo pensionamento, mio padre dovette lasciare il casello (e le pertinenze dei terreni e del casello vecchio), abitato poi da una famiglia badolatese nostra amica.
Nell’estate 1966 ho scritto i seguenti versi proprio a Kardàra e per la Gente di Kardàra. Ritengo utile riportare per intero questa poesia, intitolata proprio “La mia terra”, pure perché è una foto di quegli anni cinquanta e sessanta della mia infanzia e della mia adolescenza. Poi, anche la mia Kardàra sarebbe stata fagocitata dal discutibile progresso (specialmente urbanistico e consumistico).
LA MIA TERRA
Visi logorati
occhi vivi che aspettano.
Fronte aspersa di sudore
petti robusti e ignudi
come le forti braccia
che vangano
la terra, l’arsa terra.
Donne
dai capelli neri
col volto pallido
che conosce il dolore e la fatica.
Madri
dal solco
guardano pietose
i piccoli nati che,
deposti sopra un panno,
giocano con le zolle.
Fanciulle
che l’età sognante
riveste del pudore
ereditato dalle madri.
Pastori
col vincastro brulicano
con le greggi sull’odorosa collina.
Pescatori
d’affanni che chiedono
vita a quel mare che regala la morte.
Dal sole
capirai che è la mia terra, la nostra.
Nell’autunno 1966 mio padre acquistò un televisore da 21 pollici (ovviamente in bianco e nero, poiché allora c’era solo quello, dal momento che il colore è giunto in Italia il primo febbraio 1977, con molto ritardo rispetto alle altre nazioni). Finalmente avrei potuto seguire i tanti programmi che desideravo, specialmente quelli giornalistici di approfondimento come “TV7” o le tribune politiche, ma anche i documentari, i film e, perché no?, pure gli spettacoli di varietà. Televisivamente (così come culturalmente) sono sempre stato un “onnivoro” (per usare un termine inadatto ma assai efficace) poiché la mia fame e la mia sete di conoscenza del mondo era infinita come infinito è il mondo stesso (e l’universo). Sono sempre stato convinto che, a volte, si possa trovare qualcosa di prezioso persino nei cosiddetti “programmi-spazzatura” … basta sforzarsi di vedere dentro i fatti e le persone (intelligenza significa, appunto, vedere dentro). Certo una buona selezione aiuta, ma non bisogna disdegnare niente e nessuno (se si ha tempo, voglia e pazienza) poiché la “pepita d’oro” (culturale) si può nascondere là dove meno te l’aspetti. E la conoscenza è come una ricerca dell’oro. Tuttora mi considero un cercatore d’oro (umanista). Perciò, per quanto possibile e compatibile con i miei doveri familiari e scolastici, riuscivo spesso a seguire i programmi TV fino alla loro chiusura (solitamente attorno alla mezzanotte), rosicchiando un po’ di sonno alle mie notti, visto e considerato che la sveglia suonava già alle ore 5 per permettermi di prendere autobus o treno per andare in tempo a scuola.
Non mi è mai pesato togliere qualche ora alla notte e al sonno, motivato come ero ad apprendere cose e conoscenze che non mi venivano fornite da alcuno (né famiglia, né amici, né scuola, né chiesa o altre istituzioni o presenze sociali). Ancora adesso le migliori idee mi svegliano in piena notte (come in questo momento che sto scrivendo dalla ore 03,56) ! Mi giovavo davvero assai di ogni programma televisivo (in particolare quelli d’indirizzo sociale, giornalistico, culturale e politico), specialmente perché usavo il famoso “metodo critico” suggeritomi in prima media dalla professoressa Anna Maria Longo Bova e poi rafforzatomi grazie all’amicizia con il prof. Antonio Gesualdo e, più o meno, da altri amici o conoscenti dall’acuta intelligenza, di cui facevo tesoro. Con tale metodo mi sono sempre trovato bene ed ho avuto, alla lunga, grandi riscontri e gratificazioni. Tra l’altro, il metodo critico (che seleziona, raffronta, verifica, crea collegamenti d’ogni genere tra fatti e persone) spinge ad essere lungimiranti. E della lungimiranza (per quanto assai relativa rispetto al tutto) ho fatto, piano piano, una importante virtù della mia vita (anche se, poi, la lungimiranza è disattivata e resa inutile da un contesto estremamente illogico e contrario). Insomma, tra scuola, parrocchia, cinema, televisione ed altre opportunità cognitive e ricognitive il mio cuore e il mio cervello hanno sempre lavorato a pieno regime, sempre ovunque e comunque. Ieri come oggi e, spero, pure domani.
ANNO 1967
Considero l’anno 1967 uno dei più importanti ed intensi della mia vita, pure per i rapporti con Badolato (Paese e Marina) verso il quale l’innamoramento era ormai totale, tanto che gli ho dedicato una canzone messa in musica da Giuseppe Naimo (1950-2014) detto Peppi o Pepé, divenuto fraterno ed inseparabile amico ma già amico d’infanzia, d’asilo e di scuola elementare. Con la sua famiglia intercorrevano alcuni comparaggi di grande affetto e rispetto. La nonna paterna (detta comare Lijoa) era una delle più importanti depositarie della cultura locale (specialmente racconti “cunticehy” e canzoni popolari, ma anche proverbi ed altre narrazioni). A Badolato era una vera e propria “istituzione” (pure perché “passava il malocchio”) e la più autentica e incantevole “scuola” per noi bambini (ma anche adolescenti). Questo suo nipote Peppi aveva ereditato la sua affabulazione carismatica e ci beava, ci travasava quanto aveva appreso dalla sua preziosissima nonna. Io ed altri amici non ci stancavamo mai di ascoltare Peppi o sua nonna, cui chiedevamo di ripetere all’infinito brevi o lungi racconti in stretto dialetto badolatese. Riconosco ad entrambi l’aver contribuito a farmi amare grandemente la letteratura popolare badolatese, di cui sono divenuto tenace collezionista (proprio perché era l’anima più autentica e più vera della mia gente, del mio popolo) … letteratura che già comunque avevo appreso a Kàrdara sia dalla mia famiglia e sia dai kardaròti provenienti da Badolato Superiore. Ma il modo di raccontare di comare Lijoa e di compare Peppi era tanto impareggiabile, suadente e suggestivo (in una parola “carismatico”) che mi appassionavo sempre di più a questo affascinante mondo popolare.
Aumentava pure così il mio già grande amore per il popolo di Badolato (il mio popolo, la mia cultura natìa). Nel 1967 ero così tanto preso e affascinato da tutto ciò che era popolo, storia, territorio e tradizioni badolatesi che ho scritto quasi un “inno” per Badolato, i cui versi sono stati musicati proprio da Peppi Naimo, il quale aveva ben interpretato (attraverso le note melodiose, il ritmo e la gioiosotà) il senso e il valore di questa poesia dedicata al nostro paese. Purtroppo, adesso ricordo soltanto i primi versi della canzone dal motivo assai arioso e lieto, frizzante e felice. Non dispero di poter trovare, prima o poi, tra i miei documenti in perenne deposito (per difficoltà logistiche) quella che ritengo essere, probabilmente, la prima canzone (parole e musica) dedicata a Badolato. Ed eccone l’apertura con il ritornello:
BADOLATO
Io che ho girato tutto il mondo
mi sono fermato qui su questa spiaggia.
C’è un grande mare azzurro e l’infinito
diffonde la sua luce in tutta pace.
Ritornello (con coro ed eco):
Badolato, Badolato, paese d’amore,
piccino così …
Badolato, Badolato, paese carino,
felice così…
Tramite Pepé Naimo ho conosciuto i fratelli Franco e Vincenzo Serrao (figli dell’ostetrica comunale Teresa Amelia Pirrò originaria di Petrizzi, comune sopra Soverato, e di Elia, originario di Filadelfia di Calabria, allora nella nostra stessa provincia di Catanzaro ora in provincia di Vibo Valentia). Con loro e con Enzo Spasari, altro notevole amico d’infanzia, ho fondato il complesso musicale “Gli Euro 4” nella primavera del 1967. Il nostro debutto è avvenuto in montagna, a 1100 metri, ad Elce della Vecchia, una frazione del Comune di Guardavalle ma assai vicino a Badolato. In questo caratteristico villaggio (sito sulla strada per Brognaturo) e in quello più a valle, detto Pietracupa (tra i boschi delle Serre Joniche), hanno insegnato diverse generazioni di maestri e maestre badolatesi (tra cui mia sorella Concetta nel 1970). Ho voluto fortemente che facessimo tale nostro primo spettacolo ad Elce della Vecchia soprattutto perché questa comunità mi ricordava la mia “Gente di Kardàra” … infatti erano quasi tutti contadini, boscaioli e operai forestali e non avevano né un bar né altra struttura di aggregazione (la chiesetta verrà costruita anni dopo). Erano estrema periferia montana. Ad Elce della Vecchia, poi, avrei trascorso assai lietamente i mesi di luglio e di agosto del 1987 e 1988 per dare sollievo all’asma di mia madre, nonostante fossi in pieno periodo della vicenda del “paese in vendita”.
Scolasticamente, il 1967 ha significato l’ottimo insegnamento del docente di italiano, un prete salesiano sui 40-45 anni che, davvero onesto intellettualmente e dotato di grande passione per la cultura e per la vita, collimava con la mia grandissima, immensa voglia di apprendere e di vivere (tanto che, ribadisco, proprio a 17 anni cominciavo a scrivere Vita con la W in “W la Wita”!). Mi ricordava la mia professoressa di prima media, per intensità pedagogica e culturale anche ben oltre il programma didattico. Questo tipo di insegnanti mi esaltava e mi dava la possibilità di spaziare e di crescere scolasticamente e interiormente a vista d’occhio, moltiplicando la mia creatività e la mia voglia di studiare. Purtroppo, salvo qualche eccezione, pure gli insegnanti salesiani erano piuttosto scarsi come quelli della scuola pubblica. Probabilmente, in generale, era quello il livello medio della scuola italiana, poiché poi nel 1969 anche al pur prestigioso Liceo Classico di Locri la situazione non era affatto diversa e l’ambiente dei docenti era fin troppo saccente e irritante per produrre in noi alunni realmente buoni risultati (salvo, sempre, qualche eccezione!).
Nella bacheca scolastica dell’Istituto Salesiano di Soverato, ho avuto modo di leggere, nel marzo 1967, l’annuncio del concorso di poesia bandito dal Rotary Club di Catanzaro. Partecipai e ottenni il secondo posto con la poesia “La mia terra” trascritta poco fa. Alla premiazione era presente il giornalista Giuseppe D’Agostino (direttore del quindicinale “Il popolo calabrese”) il quale mi invitò a pubblicare a stampa (a mie spese) una raccolta di poesie. Risposi di sì e immediatamente mi diedi da fare per selezionare un centinaio di componimenti scritti dal 1965 al 1967 da affidare al prof. Antonio Gesualdo che avrebbe dovuto effettuare un’ulteriore selezione e scrivere la prefazione. Così il 13 dicembre 1967 (giorno dedicato a Santa Lucia, simbolo di luce e della Lucia-donnaluce dei miei versi amorosi) la tipografia MIT di Cosenza impresse le cinquecento copie di “Gemme di Giovinezza” il mio primo libro di poesie. Pagai le 500 copie stampate con i soldi ricavati dall’annuale borsa di studio che avevo vinto tramite un concorso scritto. Dalla scuola media fino all’università, attraverso borse di studio e presalari, mi sono pagato gli studi per buona parte (almeno per il 40%). Comunque, mi rifeci ampiamente dei soldi spesi per l’opuscolo di poesie, poiché sono riuscito a venderlo (a 500 lire a copia) a quasi tutti i miei compagni dell’Istituto Salesiano, ad altri amici, nonché a parenti e ad estimatori adulti. La dedica scritta per ognuno di loro è da considerarsi una poesia personalizzata. Di alcune conservo la trascrizione o la minuta.
Parteciparono al medesimo concorso di poesia a Catanzaro i miei amici Rosario Mirigliano (detto Sarino, compagno di banco alle medie) e Antonio Spagnuolo (detto Tonino), che frequentavano il Liceo Scientifico nel capoluogo. Tonino si classificò terzo e Sarino ebbe un diploma di merito. Tale concorso fu l’occasione per vivere l’intera estate del 1967 (da giugno a settembre) all’insegna delle letture dei grandi poeti, in particolare degli ermetici italiani come Giuseppe Ungaretti, Mario Luzi, Salvatore Quasimodo. Ma protagonisti di questa estate furono anche il cileno Pablo Neruda, gli spagnoli Lope de Vega (1562-1635) e Garcia Lorca (del cui teatro restai affascinato) e di tantissimi altri Autori esteri, specialmente francesi (come Charles Baudelaire o Jacques Prévert, ecc.) e americani (come Edgar Lee Master o Bob Dylan, ecc). Personalmente, proprio in quel periodo, acquistai parecchi volumi dell’Enciclopedia della Letteratura Universale, cominciandone lo studio.
Quella del 1967 fu veramente una grande estate poetica e felice. Esaltante. Alla quale partecipavano pure Rosella D’Agostino (fidanzata di Sarino), Rosetta Chiarella (sua cugina) ed altre ragazze. Sarino, Tonino ed io fondammo “La triade” (un’associazione poetico-culturale che avrebbe dovuto, nel mio slancio idealistico-amicale, proseguire anche negli anni seguenti come patto di esistenza e di vita). In pratica, eravamo spesso a casa di Sarino, alla Roccelletta di Borgia detta anche “Roccelletta del Vescovo di Squillace” (dove, tra tanto altro, visitavamo i ruderi della città greco-romana appena affioranti e della basilica bizantina) e passavano le serate sul lungomare di Catanzaro Lido con la gioventù di quella cittadina e dei dintorni. Nonostante fossi felicemente ed utilmente attratto da questa compagnia, non trascuravo gli amici e le parrocchie di Badolato Marina e Superiore e, per quanto possibile, anche la mia Kardàra.
Infatti, per la prima volta nella mia vita, nel luglio 1967 mi sono misurato con l’organizzazione di eventi sociali di una certa importanza. Mentre prima, dentro l’associazionismo cattolico in àmbito parrocchiale, mi ero limitato ad organizzare attività ludico-pedagogiche per i ragazzi miei coetanei o più giovani, questa volta ho sentito il desiderio di organizzare una specie di “Olimpiadi badolatese” nel contesto della festa dei Santissimi Angeli Custodi, titolari della nostra chiesa di Badolato Marina. Tale festa inizialmente, dal 1956, fu realizzata il 2 ottobre, giorno dedicato proprio agli Angeli Custodi. Poi, con il permesso del Vescovo, venne deciso di festeggiare in piena estate, pure per permettere agli emigrati e ai turisti di partecipare ai sacri riti e alle manifestazioni civili. Ed io, come supporto e come estensione dei manifestazioni civili, ho organizzato gare sportive di ogni genere, le prime in assoluto realizzate a Badolato Marina, a parte il gioco del calcio che ha sempre avuto un discorso a sé stante. Per prima cosa ho cercato di coinvolgere Badolato Superiore con la partenza di una gara podistica verso Badolato Marina. Poi, una gara di pesca subacquea e, quindi, altri sport d’ispirazione olimpica. Come puoi notare, caro Tito, Badolato Superiore è stato sempre (e da sempre) presente nelle mie iniziative. Riguardo la gara podistica, in seguito, nel 1984 ho organizzato in Alto Molise la “Maratona Sannitica” che ha avuto 4 edizioni di carattere interregionale (5 regioni) ed è stata imitata in zona con qualcuna delle caratteristiche prese dal mio più articolato progetto. Sono lieto che poi, a metà degli anni Ottanta, è nata a Badolato Marina la “Strabadolato” (una gara podistica agonistica e amatoriale con circuito interno), ma il mio desiderio era quello di rendere protagonista anche il borgo di Badolato Superiore.
L’estate esaltante 1967 è proseguita con il mio primo pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Lourdes (sui Pirenei francesi), effettuato in “treno bianco” da Napoli con l’associazione AMAMI. Vi partecipai come barelliere e, quindi, a stretto contatto con i malati sia sul treno che a Lourdes. Pure di questa preziosa esperienza si possono trovare testimonianze poetiche in “Gemme di Giovinezza”. L’estate 1967 fu per me, in pratica, una stagione altamente spiritualista, poiché mi sono abbondantemente nutrito di poesie e di altri ideali umanisti, di spiritualità cristiana e di valori ecumenici ed universali. Infatti, tra tanto altro, nel settembre 1967, per interessamento di padre Nicola Criniti (un prete diocesano originario della vicina Santa Caterina dello Jonio, appena passato nelle fila dei Frati Francescani Minori Conventuali), assieme ai 4 amici degli “Euro 4”, ho avuto la preziosissima occasione di trascorrere un giorno ed una notte con i Certosini proprio dentro la Certosa di Serra San Bruno (a 40 km da Badolato, sulle montagne delle Serre Joniche). Un’esperienza esaltante, pure questa, di cui in “Gemme di Giovinezza” c’è la testimonianza di alcune delle poesie scritte in quella magica e devota “Notte in Certosa” (dedicata ad Annick Adam una ragazza francese ammalata di tubercolosi, incontrata a Lourdes).
In particolare, caro Tito, voglio soffermarmi sui seguenti versi (tratti dalla prima poesia di “Notte in Certosa”) … “Ritornerò – per fecondare – in questo infinito – il metro – del mio deserto”. Ecco, questo è il principale progetto-programma della mia vita … “fecondare in questo infinito il metro del mio deserto”. E la scrittura, assieme a tutte le mie ricorrenti e caparbie iniziative sociali, fa parte di questo tentativo, di questa volontà, di questo mio impegno e lavoro per “fecondare il metro del mio deserto”. Badolato (in particolare la “Gente di Kardàra” locale e universale) rientra in modo prioritario in questo mio progetto di vita.
Qualche giorno dopo essere tornato da Lourdes, ho accompagnato mio padre nel suo viaggio in Svizzera per andare a trovare mio fratello Antonio e la moglie Ines. Per me era la seconda volta che visitavo gli stessi luoghi che mi avevano fatto scappare, dopo una settimana di permanenza, nell’agosto 1965. Questa volta il clima era leggermente migliore e permise a me e mio padre di stare un giorno e una notte a Berna e uno a Basilea, dopo essere stati a Uster e Wetzikon, dove abbiamo incontrato pure quasi tutti i parenti, amici e compaesani badolatesi che lavoravano in quella zona.
Da tale esperienza è nata la silloge di versi “Viaggio in Svizzera” che ho inserito in conclusione all’opuscolo “Gemme di Giovinezza” con 4 poesie. Protagonista di questi componimenti è ancora una volta il clima così tanto differente da quello jonico di Badolato. Ancora una volta (come nell’agosto 1965) mi mancava enormemente il sole, tanto che ho scritto … “Ho immenso bisogno di luce, di luce….” oppure “Nella mia terra, nella mia terra penetra la luce e rimane. Morirò trafitto da raggi di sole ma non soccomberò in queste ombre tremanti e infreddolite”. Ed era ancora agosto, agosto 1967. E ancora ho scritto: “Ho lasciato tutto, tutto tutto per questa terra che mi offre i tuoi occhi e la mia luce viva”. Versi scritti a Uster e a Brugg e, questi ultimi, nel viaggio di ritorno verso Badolato, dove mi aspettava la vera estate meridionale e mediterranea … la mia luce viva!… Nel 1967 non riuscivo a concepire la mia vita lontano da Badolato, dal suo sole, dal suo mare, dalla sua gente! Ma la luce desiderata era anche e soprattutto spirituale, culturale, universale!
L’anno 1967 significò anche per Badolato l’installazione generalizzata (nelle famiglie, negli uffici e ovunque fosse stato possibile) degli apparecchi telefonici, attraverso cui, in teleselezione, si poteva parlare immediatamente (senza passare dal centralino come prima) con qualsiasi altro utente italiano ed estero. Un’opportunità straordinaria per tutti e specialmente per uno come me che aveva fatto della “comunicazione sociale” un mezzo indispensabile per crescere e per produrre culturalmente. Il numero della mia famiglia era 0967-81051.
Ricordo che le festività di tutto il 1967 furono da me dedicate, nelle parrocchie di Badolato e anche fuori comune, al commento delle risoluzioni del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo (1962-1965) che si era concluso da poco, ma anche all’attuazione dei nuovi riti (come la messa in italiano e modalità connesse). Uno dei principali testi di studio era intitolato “La chiesa, anima del mondo”. Tuttavia, proprio studiando e facendo conferenze sui risultati e i valori del Concilio e misurandoli con la “Gente di Kardàra” badolatese ed universale, mi sono accorto di alcune troppo forti contraddizioni ideologiche e sociali della Chiesa Cattolica, come di altre religioni.
Poi, l’attenzione si spostò, per consonanza socio-culturale, su taluni temi politici evidenziati dai partiti del cosiddetto “arco costituzionale” e specialmente dai nuovi movimenti i quali, collaterali alla Chiesa cattolica o in antitesi ad essa, diventavano sempre più importanti nel dibattito proveniente pure dall’estero, anche a causa della sanguinosa e straziante guerra del Vietnam (1961-1975) e, specialmente, a causa della guerra arabo-israeliana dei 6 giorni (5-10 giugno 1967) durante cui ho scritto la poesia n. 7 (silloge intitolata “Tocchi”) presente in “Gemme di Giovinezza” (1967) e la canzone “Lacrime e sangue” musicata da Peppi Naimo. Dopo un periodo di relativa quiete, tornavo ad impadronirmi di quel “metodo critico a 360 gradi” cui ero stato introdotto assai utilmente in prima media dall’ottima professoressa Anna Maria Longo Bova (ma già le situazioni di Kardàra e la frequenza della parrocchia e della pretura mi avevano allertato fin dalla mia prima infanzia). Cosicché si stava ricaricando il mio “ribellismo” che è poi esploso assai clamorosamente, cambiando completamente la mia vita, nel dicembre 1968.
ANNO 1968
Ogni anno della propria vita è importante, pure perché ha sempre qualcosa di determinante per la propria crescita. Ma l’anno 1968 è stato per me particolarmente importante poiché è risultato poi assai decisivo, non soltanto perché naturale “sparti-epoca” e “sparti-acque” tra adolescenza e giovinezza ma, soprattutto, perché nel dicembre ho effettuato scelte che hanno ispirato o condizionato (dipende dei punti di vista) il resto della mia vita. La prima classe del liceo, frequentata all’Istituto Salesiano di Soverato, dall’ottobre 1967 al maggio 1968 era risultata assai deludente, pur essendo stato promosso e pur mantenendo le mie tradizionali posizioni dal terzo al quinto posto nell’albo d’onore della scuola (non sono mai sceso sotto il quinto posto su una media di 30 alunni). Come nei tre anni precedenti, avevo ottenuto la promozione senza eccessivo impegno da parte mia, poiché ho sempre voluto ritagliarmi irripetibili spazi di esistenza e di vita, non avendo mai voluto essere uno sgobbone. Di solito, comunque, l’impegno degli alunni è sempre proporzionale all’impegno dei docenti e, a dire il vero fino in fondo, gli insegnanti salesiani (non meno e non più degli altri conosciuti e subìti nella scuola pubblica) erano, specialmente, in questo anno scolastico 1967-68 troppo scadenti (a parte il professore di greco il quale, pur conoscendo la materia, dissipava la sua bravura adottando un metodo inadeguato a farci appassionare). Personalmente, do tutto me stesso nelle cose che mi appassionano e nelle quali trovo almeno una motivazione utile o esaltante. Ma (sempre salvo eccezioni) nella mia lunga esperienza scolastica, i primi a non essere motivati sono stati gli insegnanti … cosicché chi, come me, era più volenteroso ed amante degli studi e della vita, era costretto a trovare fuori dalle aule e dalle cattedre le cose più interessanti per la vita e per la conoscenza.
Quello della fede nella propria vita e nella propria professione o missione sociale è un problema fin troppo serio. Ad esempio, mi diceva un vescovo che, spesso, i primi a non avere fede sono proprio i sacerdoti e i religiosi in genere (sempre salvo eccezioni). Involontariamente, questo santo vescovo aveva risposto ad mio quesito interiore e, quindi, avvalorato la stima che ho per i missionari. Infatti, per fare il missionario è necessario avere molta fede o tanta motivazione, dal momento che si affrontano sacrifici enormi e, a volte, si rischia o addirittura si perde la vita (diventando “martiri”). Missionari, in questo mondo, non sono soltanto i religiosi ma tutti coloro che sposano una causa (anche laica), uno scopo il più possibile nobile e utile a favore degli altri e, in definitiva, dell’intera Umanità (cioè coloro che hanno, appunto, una “missione” da portare avanti). A modo loro, i miei genitori erano due missionari al casello di Kardàra, che era un vero porto di mare dove quotidianamente in tanti venivano a bussare per innumerevoli esigenze … tanto è (come narro e dimostro nel secondo dei volumi del “Libro-Monumento per i miei Genitori”) la mia famiglia donava, in pratica, agli altri almeno metà delle sue risorse economiche, psicologiche, umane ed esistenziali. Dico di mio padre che egli è stato un eccellente “comunista apostolico” … là dove il termine “apostolico” sta ad indicare proprio uno stato permanente di dedizione missionaria ed umanitaria agli altri.
Il comunismo apostolico rifulge in modo eccezionale e mostra maggiore valore specialmente di fronte alla realtà di tantissimi suoi compagni di fede comunista che sono riusciti, con i decenni, non soltanto a tradire gli iniziali ideali e l’eredità delle epiche lotte del dopoguerra … ma persino a portare il Comune di Badolato a tanti dissesti finanziari e addirittura il Consiglio comunale di Badolato ed essere “chiuso per mafia”.
Sono, quindi, nato in una famiglia in cui “il dono” era una condizione permanente e quotidiana. Nel donare, vedevo e percepivo che i miei Genitori erano felici, nonostante tanti, troppi sacrifici (e, a volte, autentici martirii). Così ho ereditato da loro (ma anche dall’intera mia parentela) la predisposizione e la disponibilità a donare, senza nulla aspettarsi … anzi, spesso, si riceve male per aver fatto del bene (ma esiste la compensazione spirituale, di cui dirò più avanti). La mia famiglia (intesa come quella genitoriale e quella dei parenti più stretti), attingendo sia all’esperienza e sia ai proverbi (che sono stati la mia prima più solida e valida educazione), ribadiva spesso che la propria coscienza è il maggiore e migliore premio e ricompensa per il bene fatto, anche se si subisce irriconoscenza e ingratitudine. Ricorrente era l’adagio “Fai bene e scordati, fai male e guardati!”. Quindi, fin dalla mia infanzia il dono e la condivisione sono diventati pure il mio modo di vivere. Ecco pure il perché di quella frase messa in versi … “fecondare in questo infinito il metro del mio deserto” … che è come dire … “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Bisognava risolvere il dilemma del “chi fosse il mio prossimo” … così ho risolto con un’altra frase evidenziata in versi … “E’ il nostro cammino – che ci unisce o ci divide” (“Gemme di Giovinezza” poesia n. 3 si “Tocchi”) … come a dire che il prossimo è chi incontri nel cammino, nell’itinerario della vita. La vita ci assegna un cammino o il cammino si sceglie la vita?… Un po’ e un po’ … forse entrambe le cose. Nel cammino della mia vita ho incontrato per nascita la “Gente di Kardàra” reale e simbolica e Badolato reale e simbolico. Entrambi prototipi del mio cammino. Cammino, itinerario. Ecco, il mio “iter” (in latino significa cammino, viaggio, itinerario, percorso, progetto, missione, impegno, ecc. ecc.) sarebbe stato l’essenza della mia vita-Wita. Ho scoperto il mio “iter” nel corso del 1968. E “iter” da allora chiamo e definisco tutto ciò che tale cammino ha prodotto e continua a produrre. “Iter” è la mia eredità personale e sociale. “Iter” ha qui, proprio in questo anno 1968, le mie più convinte radici “ispiratrici” e “programmatiche” basate sull’amore sociale, sull’altruismo, sulla onesta responsabilità verso la comunità di appartenenza.
A rafforzare questo tipo di educazione e “vocazione” familiare al “dono” continuo e alla conseguente “frugalità” o “povertà personale” c’è stata poi anche l’educazione cattolica in contemporanea con la cultura umanistica. In questa “cultura umanistica” inserisco il clima delle idealità giovanili che recepivano assai i suggestivi messaggi dei grandi personaggi storici, come ad esempio, quello inviato a tutto il mondo il 20 gennaio 1961 durante il discorso di insediamento alla Casa Bianca dal presidente degli Stati Uniti d’America, John Fitzgerald Kennedy … “Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country” – “Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”). Questa è, ancora adesso, ritenuta una delle più celebri frasi del ventesimo secolo ma anche di tutta la civiltà umana poiché è, storicamente, il fondamento di quella lungimirante “Nuova frontiera” enunciata da questo che fu il 35mo Presidente degli Stati Uniti d’America, martirizzato (prima del fratello Bob) proprio per questa sua volontà di cambiare il mondo con l’amore sociale (dopo tutto era pur sempre d’ispirazione cattolica). Una “Nuova frontiera” che, in gran parte, potrebbe essere ancora valida (specialmente alla luce dei fatti intervenuti da allora in poi). Questa frase fa tremare ancora oggi, proprio perché oggi più di prima, le persone rincorrono il profitto persino con guadagni illeciti e con la cleptocrazia (creando conflitti in tante parti del mondo) invece di adottare la più utile condivisione (che avvicina e cerca di armonizzare). Oggi più di prima, la corsa è chiedersi “cosa può fare a me o darmi il mio paese”… invece di darsi da fare per organizzarsi a dare qualcosa di sé alla propria comunità per cercare di essere tutti un po’ in pace e sereni. Almeno ci fosse un equilibrio tra dare e avere!!! … Invece no, la smania di potere e di arricchimento di taluni è inarrestabile e destabilizzante, a costo di delinquere e di far pagare ad altri il proprio egoismo in innumerevoli modi, spesso anche mortali e distruttivi.
Ecco, per capire meglio la vicenda di “Badolato paese in vendita” è necessario sapere questi antefatti e tali motivazione di base della mia vita-Wita e del mio “iter-cammino” personale e sociale. Mi sono chiesto sempre (ma specialmente quando si è trattato di scegliere la tesi di laurea e quindi il conseguente futuro professionale) … “cosa posso dare al mio paese, alla mia gente?” … Ed ogni giorno mi chiedo cosa posso dare oggi alla mia comunità?… Così, giorno dopo giorno, a ben esaminare i fatti e non solo le intenzioni, mi ritrovo adesso, in fase di bilancio esistenziale, con una “Wita-Dono” … un dono che continua anche dopo la mia morte con quella che chiamo già la mia eredità sociale, poiché tutto ho fatto per il bene comune. Ciò è una realtà incontestabile, dal momento che soltanto chi non vuol vedere non vede che mi sono speso continuamente per quella “Gente di Kardàra” concreta e ideale, badolatese ed universale.
Per poter riuscire ad essere costanti ed efficaci (il più possibile) in una simile “missione” è necessario avere tanta tenacia, forza e tensione morale e civile. Dove attingere tale forza, specialmente quando si è stanchi ed avviliti, perseguitati e martirizzati?… Principalmente nei valori permanenti ed universali in cui si crede e ci si basa, nonostante tutto. E poi “riuscire” è un imperativo permanente ed irrinunciabile. Ed è proprio nel marzo 1968 che il termine-imperativo “RIUSCIRE” mi è stato donato dalla ragazza per la quale ho avuto fin dal 1963 una impressionante “cotta” (un tipico innamoramento adolescenziale di quell’epoca). Solitamente gli innamoramenti adolescenziali, proprio perché innamoramenti e per di più adolescenziali, non tengono conto della realtà ammissibile, soprattutto perché la persona amata è un pretesto per scoprire e amare l’amore stesso non sempre e non tanto per convolare a nozze. Così, dopo avermi detto che non era possibile il mio lungo e folle amore, questa ragazza (bravissima e di eccelse virtù), forse per consolarmi e farmi accettare l’esito doloroso, mi diede un libro (prima edizione italiana presso la SEI di Torino, 1962) intitolato proprio “RIUSCIRE” di un cattolico francese (Michel Quoist, Le Havre 1921 – 1997).
Mi fece tanto effetto e mi fu talmente utile questa semplice parola-imperativo “RIUSCIRE” che la tengo sempre presente (spesso anche scritta a caratteri cubitali nel mio studio) e mi aiuta a superare tante difficoltà. E’ il prezioso dono, il lascito morale del mio primo vero innamoramento. In fondo, per compensazione, è stata ripagata, così, la mia lunga sofferenza amorosa, che, guarda caso, coincide con il mio intero percorso adolescenziale. Quasi sicuramente, infatti, la fine di questa illusione amorosa (per rientrare nella realtà dei miei anni e della mia vita) mi aiutò a concludere nel migliore dei modi una delicatissima età di passaggio per introdurmi nella più consapevole età giovanile, ricca di ben altri entusiasmi esistenziali e di ben altri e più concreti amori.
E questo di “Riuscire” è il più importante episodio della mia vita personale e sentimentale che mi aiutò a chiudere nel migliore dei modi allora possibili con l’adolescenza, nel marzo 1968. L’altro episodio, ascrivibile alla mia vita sociale, è avvenuto nel dicembre 1968 ed è consistito nella mia “rottura” con i Salesiani ed il mondo cattolico in genere. Con tale episodio (socialmente eclatante e determinante) ritengo si sia conclusa definitivamente la mia adolescenza più in generale. Con il mio carattere fondamentalmente “ribelle” in presenza di ingiustizie, non potevo più sopportare (dopo tre lunghi anni di comportamenti inadeguati riguardo il modo di educare e di insegnare da parte dei Salesiani) gli atteggiamenti troppo supponenti e, a ben vedere, irrispettosi verso noi ragazzi frequentanti quell’istituto. I malumori erano tanti e diffusi in quasi tutti gli studenti. Così come stava succedendo in tutto il mondo (specie in Occidente), i giovani erano inquieti, specialmente perché gli adulti (immersi nei loro affari, più o meno loschi, e forti delle loro incrollabili convinzioni) non volevano o non riuscivano a capire come stavamo crescendo e il rispetto che ci era dovuto. Non era più tempo di discipline ottocentesche e di metodi psico-pedagogici e didattici ormai troppo obsoleti. La società a noi ragazzi andava stretta già di per sé stessa … figuriamoci quanto era inadeguato il mondo cattolico, specialmente quello più retrogrado che non era riuscito a capire e a recepire nemmeno le aperture e le nuove direttive del Concilio Ecumenico Vaticano II. In particolare, l’attrito con il mio sprezzante docente di italiano (che era pure il preside del Liceo) raggiunse dimensioni insostenibili per entrambi.
Ma non erano tanto i dissidi scolastici che hanno prodotto la rottura (inedita per il clamore suscitato e, poi, per le conseguenze avvenute dopo la mia vicenda in quell’istituto), quanto il mio non voler tradire la “Gente di Kardàra” geografica e universale, cioè i poveri e gli sfruttati. Come spiego nei dettagli da pagina 350 a pagina 353 del secondo volume del “Libro-Monumento per i miei Genitori” i Salesiani erano noti pure perché, generalmente, formano nelle loro scuole buona parte delle classi dirigenti del Paese dove operano. Nel corso dei decenni, l’Istituto Salesiano di Soverato aveva fornito alla società civile e alla politica calabrese personaggi e personalità in ogni settore delle professioni e delle istituzioni (persino ex allievi diventati ministri dello Stato). Così, il nuovo Direttore dell’Istituto (figura diversa dal Preside della Scuola) si era messo in testa di realizzare e curare un “vivaio” di allievi più adatti a diventare “classe dirigente”. Fui convocato pure io per questa squadra “speciale”. Durante tutto l’anno scolastico del primo liceo 1967-68, più volte alla settimana tale Direttore ci impartiva lezioni adatte alle “truppe d’assalto” al campo sociale e alle istituzioni. Dopo le prime volte, cominciavo a capire il tenore dei discorsi che non erano certamente dalla parte del popolo, della gente comune e, in particolare, delle classi più povere e disagiate (quelle che a me premevano di più da sempre) … in una parola … non era contemplata la mia “Gente di Kardàra”.
Come ho più volte detto e come ancora evidenzierò. Il mio metro di misura esistenziale è sempre stata la “Gente di Kardàra”. Non potevo, quindi, non avanzare dubbi sull’impostazione dei discorsi preparatori del Direttore. Questi, che era assai furbo, aveva capito che ero il più motivato e promettente del gruppo e, quindi, cercava di rabbonirmi facendomi intravedere l’elezione a deputato, se soltanto avessi avuto la pazienza di attendere i modi e i tempi perché tale traguardo si sarebbe certamente realizzato con l’appoggio clericale. Pur scalpitando, rimasi nel gruppo speciale del Direttore fino alla conclusione dell’anno scolastico. Oltre tutto, il Direttore, per lusingarmi e legarmi al suo progetto, nel maggio 1968 (prima delle vacanze estive) mi organizzò alla grande la presentazione del libro di poesie “Gemme di Giovinezza” riempiendo letteralmente di gente l’ampio cortile dell’istituto e facendo intervenire il meglio dei rappresentanti del comprensorio e, addirittura, il deputato Giuseppe Reale da Reggio Calabria, una punta di diamante della Democrazia Cristiana meridionale, il quale ebbe elevate parole di elogio per la mia Poesia. Quando, due anni dopo (nell’autunno 1970), per me si trattò di andare all’Università di Roma, un altro sacerdote avrebbe voluto mandarmi ad abitare proprio nel centro “3C” mantenuto per pochi selezionati studenti (sicuramente curati per essere classe dirigente democristiana) proprio dal deputato Giuseppe Reale.
Alla ripresa di ottobre del nuovo anno scolastico 1968-69 (per me in classe seconda liceale, equivalente al quarto anno superiore), ho continuato a frequentare il “gruppo speciale” ma sempre in modo critico, evidenziando nei miei interventi la condizione di operai, contadini, emigrati (i cui figli, in buona parte, crescevano disagiatamente presso parenti o nonni, senza i genitori costretti a stare all’estero per un pezzo di pane e dignità). Ma non erano gradite le mie osservazioni e le richieste su cosa fare a favore di questi diseredati, privilegiati persino dal Vangelo che gli stessi sacerdoti salesiani pur predicavano. Insomma, per aver difeso la “Gente di Kardàra” e per i non più da me tollerabili comportamenti spocchiosi del preside-docente, a metà dicembre 1968 decisi di lasciare i Salesiani per frequentare il Liceo Classico Statale di Locri. Il Direttore chiamò mio padre (allora, pur avendo compiuto i 18 anni nel marzo 1968, non ero ancora maggiorenne, secondo le leggi allora vigenti). Nel suo ufficio parlò continuamente dalle ore 9 alle ore 12 passate per convincere me e per indurre mio padre a non farmi abbandonare la scuola salesiana (sapeva benissimo che io non ero un allievo qualsiasi e che altri avrebbero potuto lasciare, come in effetti è avvenuto). Mio padre ascoltò attentamente il Direttore e alla fine lo gelò con una semplice frase “Signor Direttore, mio figlio ormai è grande, ha fatto 18 anni, può decidere da solo”.
Il Direttore continuò a promettermi mare e monti, persino l’elezione assicurata a deputato, ma io ho ribadito la mia irremovibile volontà di andarmene a Locri. Allora il Direttore (che nelle tre ore spese a convincerci aveva sempre parlato un italiano dolce e suadente) si mise letteralmente a sbraitare in lingua napoletana (e con la bava alla bocca sputacchiante) promettendomi tuoni e fulmini sul mio futuro e la bocciatura assicurata anche a Locri (come poi puntualmente fu, pure essendo lì il secondo della classe). In breve, considero questo episodio la fine della mia adolescenza e la prima vera entrata nel bieco mondo degli adulti, ma anche nel magico ed esaltante mondo della mia giovinezza e della mia vittoriosa dignità. Mio padre, così, mi aveva fatto il più bel regalo per i miei 18 anni e per l’entrata “ufficiale” nella mia giovinezza, rispettando la mia persona e la mia età dinanzi al Direttore, cioè davanti ad una istituzione assai potente e vendicativa.
Ho tantissimo ammirato mio padre (grande comunista apostolico!) per il suo grande valore complessivo, uomo e padre (pur con i suoi difetti, del tutto e prettamente umani, pochi in confronto ad altri uomini e padri). Ma quella volta ha superato se stesso e ha dimostrato e dichiarato la sua più completa e convinta fiducia in me (cosa che ha aggiunto dignità e valore alla mia persona così tanto ingiustamente “aggredita” da un rappresentante delle istituzioni e per di più … sacerdote). Giusto per far capire … dopo essere andato via dai Salesiani, altri tre miei compagni di scuola hanno abbandonato quell’istituto … istituto che, in seguito, è cambiato proprio come noi studenti avevamo indicato con le nostre lamentele e proteste prima e con le nostre proposte dopo (specialmente degli allievi interni). La mia motivata protesta aveva assunto (pure per gli atteggiamenti dei salesiani) una visibilità maggiore e quindi aveva avuto maggior valore contestativo. Perciò, la mia “rottura” fu più clamorosa e non è stata del tutto inutile per le future generazioni di allievi interni ed esterni. Ne sono ancora fiero, nonostante l’abbia pagata assai cara, come solitamente si pagano assai pesantemente tutte le lotte che poi producono esiti migliori per la vita di qualcuno che viene dopo.
Ho scritto nel 1995 (tra tante altre considerazioni) alla pagina 28 del libro “Prima del Silenzio”: “… oggi posso ben dire (con ampia facoltà di prova e dimostrazione) che io in questa esistenza sono e mi sento un sopravvissuto dalla scuola e dalle altre istituzioni. E vedo, constato, so che quasi tutti, in pratica, si sentono un po’ (chi più chi meno) dei sopravvissuti sociali, a cominciare dalla scuola: a parte, ovviamente, qualche rara eccezione, e, comunque, più a causa dei metodi, della mentalità e dell’impostazione che per gli operatori in sé e per sé”.
Poiché, anche da questo secondo capitolo esce ancora e sempre da protagonista l’amore per la mia “Gente di Kardàra” e per ciò che rappresenta il più vero e sofferto paese Badolato, prototipo dei Badolato di tutto il mondo, non mi dilungo su altri eventi che pur mi legano al mio tenace lavoro per rendere onore alla migliore immagine di Badolato attraverso iniziative tendenti a dargli lustro, visibilità e notorietà. Tra le tante iniziative dell’anno 1968, quella del complesso musicale “Euro Universal” (ex Euro 4) è stata, senza dubbio alcuno, la principale. Nella Pasqua del 1968, padre Nicola Criniti (come era suo solito anche in estate e a Natale) veniva a Badolato Marina da Roma (dove studiava all’Università) a dare una mano a padre Silvano Lanaro in parrocchia. Ogni volta ci portava belle novità e anche qualche suo collega, proveniente da una nazione estera. Il più simpatico di tutti era padre Galdino Monteiro di Goa (ex colonia portoghese incastonata nell’India). Questa volta padre Nicola ci disse della “Messa beat” (cioè musiche eseguite in chiesa da un complesso pop) e ci propose di adottarla e di eseguirla nella chiesa di Badolato Marina. C’è un proverbio in uso a Badolato “Vai alla sorgente delle cose”. Così andai a Roma a conoscere di persona Marcello Giombini, il musicista che aveva composto tale “Messa beat”. Passai un intero pomeriggio a casa sua, conversando pure con la moglie ed alcuni loro amici. Mi diede gli spartiti e i dischi della “Messa Alleluja” e mi aiutò ad acquistare a buon prezzo alcuni strumenti musicali che mancavano al mio complesso “Euro Universal” cui si erano aggiunti due nuovi componenti badolatesi nostri coetanei (Pasquale Andreacchio neo-marinòto e Nazzareno Audino di Badolato Superiore). Per tutta l’estate 1968, ogni domenica abbiamo eseguito la “Messa beat” attirando persone anche dai paesi vicini. Raramente la chiesa era così stracolma di gente come quando suonavamo tale “Messa beat”.
Poi, sempre padre Nicola Criniti (1939 – 2006) propose di prepararci per andare ad Assisi il 4 ottobre 1968, in occasione della offerta dell’olio d’oliva alla tomba di San Francesco da parte della Calabria. Avremmo potuto eseguire la “Messa beat” e tenere un piccolo spettacolo musicale sia al Sacro Convento di Assisi che, dopo due giorni il 6 ottobre, pure al Seraphicum, la facoltà teologica francescana sita in Roma (zona Eur-Laurentina). Ci preparammo bene e riuscimmo ad avere un prestito per sostenere le spese di viaggio, mentre avremmo pernottato e mangiato nei conventi francescani. Fu un successo e per noi fu un’esperienza esaltante. Sul palco di Assisi, ai piedi della basilica, indossammo le nostre “divise” che insieme formavano i 7 colori dell’arcobaleno e i colori della pace (anche francescana). Ci riprese, anche se in bianco e nero, la televisione (era la Rai con il commento del noto giornalista-conduttore Tito Stagno, nato a Cagliari nel 1930). Dopo tale viaggio, noi gli Euro Universal abbiamo composto una propria “Messa beat” e un repertorio di musiche e canzoni natalizie utilizzando pure quelle belle composizioni di padre Silvano Lanaro che hanno sempre deliziato tante funzioni religiose. (continua)
Caro Tito,
questa volta, come “lettura parallela” e come “doppia operazione culturale” voglio evidenziare “Badolato. Un borgo dell’anima” cioè testo e foto di una escursione realizzata a Badolato Superiore il 21 settembre 2013. Chi volesse leggere e vedere in originale vada al seguente indirizzo web https://narrazionimeridiane.wordpress.com/2013/09/21/badolato-un-borgo-dell-anima/.
Che Badolato sia “borgo dell’anima” per noi badolatesi (e per me in particolare) mi sembra del tutto ovvio. Sapere che possa essere “borgo dell’anima” pure per chi lo visita per la prima volta e lo ama immediatamente è cosa che mi rende felice ancora di più. Ringrazio davvero tanto le “Narrazioni meridiane” che ci partecipano questo loro prezioso documento d’amore verso Badolato. Ecco qui di sèguito il testo, mentre le foto sono riconoscibili perché ritraggono panorami ed angoli del borgo antico.
BADOLATO. UN BORGO DELL’ANIMA
(Narrazioni Meridiane – 21 settembre 2013)
Lasciata la SS 106 e superate le “case di De Gasperi” che nel ’51 segnarono, di fatto, la nascita di Badolato Marina a seguito di una minacciosa alluvione, bisognerà attendere qualche curva ancora per scorgere l’inconfondibile sagoma “a presepe” di questo paese fra le Serre e lo Ionio.
E l’impatto è notevole.
Sarà per le sue case incredibilmente ammassate ed un pò sbiadite. Sarà per la cuspide svettante della chiesa matrice che pare un castello tanto è alta e dominante. Sarà per la religiosa solitudine della bella chiesa dell’Immacolata con i suoi tetti di tegole, separata dal nucleo urbano e posta su una collinetta fra due opposte valli. Sarà per tutto questo che giunti in piazza Castello – lì dove fino alla fine degli anni ’60 un castello, ormai un ammasso indistinto di pietre e terra, esisteva per davvero – già ci pare di aver percorso non una, ma due, tante strade.
Sono i percorsi del tempo che va a ritroso. Sono i nostri passi che risuonano nitidi fra le viuzze e i gradoni su cui si affacciano le vuote porte difese da specchi e bottiglie d’acqua. Per allontanare i gatti.
Ma Badolato e i badolatesi non hanno mai allontanato nessuno. Anzi.
Memorabile fu lo sbarco del 26 dicembre del 1997, quando oltre 850 fra kurdi, palestinesi egiziani ed armeni, salparono dalla nave Ararat in cerca di dignità e di futuro. Del resto Ararat, la vetta più alta di Turchia, in turco significa “montagna del dolore”. Mentre per gli armeni esso è un “luogo creato da Dio”.
Come dovette apparire loro, per altri ed umani versi, questo borgo sperduto e disabitato. Ma capace di consegnare le chiavi di ottanta delle sue case nel giro di pochi giorni. Ed ecco che il 21 marzo i curdi, fedeli all’Islam, possono festeggiare l’inizio del loro anno in un ex monastero cristiano. Tanto che nel 2006 Badolato riceve una menzione d’onore dall’ONU nell’ambito del “World Habitat Award”.
Oggi gli abitanti del centro storico sono poco più di trecento. Anche gli uomini venuti dal mare, come i figli di questa terra assolata, hanno scelto di ripartire verso un destino più concreto.
Ma Badolato non si arrende.
Così capita che, seduti davanti ad un bar della piazza a sorseggiare una birra, si possano udire parole in danese, americano, francese, svizzero. O nell’italiano del nord marchiato a sangue dal respiro del Sud che ritorna. Sono i nuovi residenti.
Segno che Badolato è ancora capace di accogliere. (fine)
Caro Tito,
ancora grazie per la gentile attenzione e tanta cordialità,
Domenico Lanciano
(Agnone del Molise, giovedì 14 gennaio 2016 ore 18,18)
Attenzione! – Il testo e le foto presenti in questa Lettera n. 5 su Badolato sono stati presi dal web. Gli Autori che non desiderano vedere apparire in tale contesto le loro opere, possono segnalarlo a info@costajonicaweb.it e le rimuoveremo immediatamente. Grazie!