Caro Tito, archiviata l’esperienza elettorale della “Terza Lista” (come ti ho descritto nella precedente “Lettera su Badolato n. 31” che hai pubblicata martedì 29 agosto 2017), già dalla terza decade di giugno 1975 mi sono dato tutto ad organizzare ed animare la quinta edizione dell’Agosto Universitario al solito Lido “Il Delfino” di Badolato Marina. Benché fosse il mese di agosto il centro delle manifestazioni, era ormai consuetudine fare qualcosa pure a luglio con gli studenti universitari che avevano già chiuso la sessione estiva degli esami. D’altra parte le nostre iniziative universitarie erano aperte a tutti, in particolar modo a coloro che erano soliti frequentare il Lido e le spiagge libere dei più immediati dintorni. Climaticamente e culturalmente l’estate 1975 è stata favolosa, però socialmente è stata alquanto turbolenta e difficile.
Infatti, le industrie (specie del nord Italia) erano in grave crisi e tanti operai andati in vacanza in luglio e in agosto non erano certi che (tornando a casa) avrebbero ritrovato il posto di lavoro. Ovviamente una simile situazione si ripercuoteva pure sull’estate badolatese che ogni anno era caratterizzata dalla presenza di molti concittadini venuti dai luoghi di lavoro per trascorrere le vacanze in famiglia. Ma il nostro mare era frequentato pure da lavoratori spesso anche esteri (come i tedeschi) amici di nostri emigrati.
Bisogna precisare che allora c’era pochissimo turismo “puro” (cioè fatto di persone che, “estranee” all’ambiente, sceglievano il nostro mare per conto proprio, a parte i camperisti girovaghi). Si soleva dire che era un “turismo di ritorno”. Invece, come sai, da anni già lavoravo e lottavo per un turismo il più ampio, il più internazionale e variegato possibile, puntando maggiormente sul più efficace “turismo culturale” .
L’edizione 1975 della “Festa degli Emigrati” (organizzata dall’UDI di Rina Trovato, moglie del rieletto sindaco Antonio Larocca) non poteva eludere tale grave problema della crisi economica e dell’insicurezza del posto di lavoro. Se ne parlò pure nel contesto di tale manifestazione, ma se ne parlava un po’ ovunque e nell’aria si respirava pessimismo ed una qualche tensione, cui contribuiva il maldestro attivismo di un nutrito gruppo di baldi giovani della sinistra comunista ed extra-parlamentare i quali (giunti da ogni parte d’Italia, soprattutto dal Nord) trascorrevano parecchie ore del giorno nel “Lido Due Ruote” (ad appena cento metri dal Lido Il Delfino dove si svolgeva l’Agosto Universitario). Negli anni settanta, a Badolato, il Lido Delfino era considerato il Lido dei borghesi e il Due Ruote il Lido dei progressisti (comunisti, ecc.).
Purtroppo quello che vivevamo allora (fine anni sessanta e anni settanta) era un periodo confuso e agitato socialmente e politicamente. A livello nazionale erano “anni di piombo”. Persone, famiglie, gruppi e luoghi erano classificati (quasi d’ufficio) o di destra o di sinistra. Non si poteva essere considerati diversamente! … O rossi o neri. La Democrazia Cristiana da coloro che redigevano tali classifiche (pur ritenendosi “bianca” cioè di centro) era indicata negativamente come “destra” e quindi “nera”. Gli indipendenti come me non erano concepibili e venivano criticati (spesso anche insultati) sia dagli uni che dagli altri e guardati con sospetto. L’imperativo era “o con me o contro di me”. Sarà questo anche un imperativo previsto dal Vangelo cristiano, ma la libertà o la estraneità dalle ideologie è pur sempre un diritto ed io mi sono sempre considerato (anche pubblicamente) uno “spirito libero” ed equidistante-equivicino a tutti fin dal 1965 (da tempi davvero anteriori ed insospettabili) quando sono diventato giornalista (con il prioritario diritto-dovere all’imparzialità e all’onestà intellettuale).
Ed ho rafforzato ancora di più queste mie convinzioni di libertà e di indipendenza nel 1967 dopo che avevo pubblicato il mio primo libro di poesie (poiché un “poeta” o un umanista così come un medico deve stare vicino a qualsiasi essere umano, indipendentemente da razza, colore, religione, convinzioni politiche e culturali, ceto, sesso, ecc.). Inoltre ero un convintissimo e riconosciuto assertore della Carta dei Diritti universali dell’uomo ed anche dell’Europa Unita. Infatti non ho mai discriminato alcuno, ma al contrario (come ho più volte ricordato) vedevo il bello ed in buono in tutti … il bello ed il buono da valorizzare per il bene di tutti. Indistintamente di tutti. Però … anche chi vuole stare in pace con tutti può essere attaccato da elementi “fondamentalisti” o semplicemente facinorosi o scorretti nelle regole di una vita pacata.
Forse (o più probabilmente) fomentati (a volte persino aizzati) da elementi del PCI che ancora non avevano digerito la presenza nella Terza Lista nelle Elezioni Comunali appena svolte, alcuni di questi giovani “super-comunisti” in vacanza a Badolato Marina si rivolgevano a me come “nemico del popolo e dei lavoratori”. Ma da chi erano stati informati su di me se non da elementi locali?!? … Questi giovani (saranno stati attorno a 10-15 di numero) erano capeggiati da un irsuto e muscoloso ragazzo dall’aria poco rassicurante (anzi, spesso irridente ed arrogante) che presto in paese, con il suo strano modo di agire, si guadagnò il titolo di “Ducetto rosso”.
In un pomeriggio di metà luglio, in una delle tante serene “tavole rotonde” dell’Agosto Universitario, il tema trattato era “La mancata solidarietà tra Nord e Sud” (non soltanto italiano, ovviamente). In particolare, chiesi ai presenti (in maggior parte studenti universitari) di discutere un argomento che mi stava molto a cuore e che portavo avanti dal 1972 (dai tempi, cioè, del tentativo di realizzare il consorzio della “Riviera degli Angeli”), ovvero la mancata solidarietà del Nord verso il Sud, specialmente nel turismo.
Come sai, ho sempre insistito con il Partito comunista badolatese (ma anche provinciale) e con la Democrazia Cristiana locale e con qualche rappresentante zonale di sindacati unitari nazionali (CGIL-CISL-UIL), sulla necessità che “compagni” (PCI-PSI) ed “amici” (DC-PRI ecc.) del Nord Italia venissero al Sud per istruirci su come era meglio fare turismo, promozione, agricoltura, artigianato e commercio. Ma sarebbe stato pure sufficiente che operatori turistici ed economici del Sud fossero andati al Nord ad apprendere meglio il loro successo. Non solo, ma chiedevo sempre come si potesse collaborare con aziende del Nord per alcuni prodotti meridionali di grande livello come vini, prosciutti ed altri salami, frutta, ecc. in modo tale da produrre qualità e lavoro pure qui da noi.
Insomma, cercavo di far scattare la solidarietà che a parole era abbondante (quasi mitica) tra Nord e Sud ma che nel concreto era del tutto assente. Uno slogan di quegli anni, scandito da striscioni e cortei, era proprio “Nord e Sud uniti nella lotta”. Ma era semplice enunciazione, al massimo “testimonianza” o “pio desiderio” … la verità é che ognuno deve cavarsela da solo e nessuno ti dà niente per niente, nemmeno la solidarietà. Se non hai il coraggio di risollevarti da solo o in unione con altri consimili, è più probabile che resti per terra!… Perciò i miei incitamenti erano quelli di unirsi per significare, avere e giocare un ruolo.
Ma ero ancora troppo giovane ed inesperto, forse pure troppo ingenuo ed illuso (“idealista” o “sognatore” o “utopista” mi chiamava qualcuno, percependomi tale) specialmente perché cercavo, appunto, di vedere il “bello” ed il “buono” in ognuno e in ogni cosa, mentre la realtà è ben diversa. Tuttavia, ero sempre animato da un forte desiderio di vedere il mio paese e l’interzona significare qualcosa socialmente ed economicamente. Amavo troppo questi luoghi e questa gente e mi arrovellavo il cervello per cercare vie d’uscita all’immobilismo, al dilettantismo, all’approssimazione e a tutto ciò che impediva il decollo di questa nostra zona jonica, in particolare il disfattismo e il “remare sempre contro” (il drastico comando era “o la faccio io una cosa o non la fa nessuno” che è poi il séguito dell’imperativo “o con me o contro di me”).
Anche per questo puntavo molto sulla sensibilizzazione che la Cultura poteva apportare, soprattutto guardando a chi era più avanti di noi ed aveva più esperienza e successo. Imparare dagli altri è pure un atto di umiltà, che forse non tutti erano e sono disposti ad esercitare, anche se muoiono di fame. Mentre io parlavo di necessaria lungimiranza, i miei interlocutori mi ridevano in faccia. E’ il “malorgoglio” il vero re delle persone, sia a livello individuale che associativo (specialmente quando esercitano un qualche potere).
Altro che “idealista” – “sognatore” – “utopista”! … io la fame, quella vera, l’ho vista per lunghi anni attorno a me così come ho visto una infinità di povertà (ma anche miseria) e di molteplici tribolazioni (non esclusa la mia famiglia). Pure per questo, tutto avrei potuto essere meno che “idealista” o “sognatore” o “utopista” (nel senso peggiorativo dei tre termini) dal momento che partivo dal basso, dal nudo e crudo, da Kardàra dove (alcuni dicevano) “Qui la fame parla con gli angeli” (Kka a fammi parra ku l’angali).
E questa fame, queste povertà (anche culturali, di prospettive) hanno cambiato la mia vita che (per responsabilità etica e civile) si è dedicata tutta al “sociale” (anche se avrei voluto darmi completamente agli studi filosofici più approfonditi e colti). Infatti, per essere più vicino al mio popolo, alla mia terra, alla mia gente ho voluto cambiare il piano di studi da filosofico a sociologico, proprio per capire ed avere più possibilità di aiutare il mio paese. Avrei potuto avere una vita internazionale (cosa che mi attirava ed esaltava molto), conoscere il mondo, ma paradossalmente sono rimasto al paese natìo proprio per aiutarlo il più possibile. Spero tanto di poter tornare a studiare (come ancora adesso bramo) in una seconda vita!
Forse proprio perché la mia natura personale mi portava ad essere uno “spirito libero” ed internazionale (“universale” amavo sentirmi, da qui gli “Euro Universal”), tutti i miei tentativi sono stati quelli di portare il mondo a Badolato e in Calabria! Amavo immensamente il mio paese (cosa che può far spavento a chi dal proprio paese cerca di prendere prendere prendere e … pretendere) e mi sono sempre detto affetto da inguaribile “calabresìte acuta” proprio come un amore-malattia verso la nostra Calabria. Ma, per fortuna, mentre scrivo e alla debita distanza di 42 anni, mi ritengo guarito dall’Amore per Badolato e Calabria!
Riguardo la Calabria, tra tante altre iniziative promosse sempre a mie spese, a distanza di 24 anni dal quel luglio 1975, nel 1999, ho proposto la valorizzazione di “Capo Sud” in quella zona della provincia di Reggio Calabria che, tra Brancaleone e Scilla, risultava essere la più a sud della penisola italiana e la terza punta più a sud del continente europeo. Se dovessi riempire di solo elenco tutte le proposte fatte e le iniziative intraprese (ripeto, sempre rigorosamente a mie spese) mi troverei davvero a riempire un intero grosso volume cartaceo. E quasi tutte le mie iniziative (dal “paese in vendita” a “Capo Sud”) indicavano ogni volta aperture e prospettive internazionali. Bramavo vedere Badolato e la Calabria inserite nei più ampi ed efficaci circuiti internazionali. Non era una mia velleità, ma una piena consapevolezza che questi nostri luoghi grondavano e grondano di ricchezze ambientali, storiche, culturali e “universali” (appunto) degne di essere partecipate a tutto il mondo! Volevo far “stupire il mondo” con Badolato e con la Calabria!
In fondo è la stessa cosa che sta facendo adesso, dal 1994 (ben 23 anni) l’amico Salvatore Mongiardo, il filosofo di Soverato (ma nativo di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio, antico casale di Badolato) che sta girando l’Italia per sollecitare calabresi e non-calabresi a scoprire sempre maggiormente i grandi e sempre più sorprendenti giacimenti culturali e valoriali che ci sono in Calabria … tanti e tali che potrebbero addirittura cambiare o salvare il mondo!…
Pure per questo mi trovo in piena sintonia con Salvatore e cerco di collaborare con lui per quanto mi è possibile. Lo chiamo “Profeta” pure perché, come un vero profeta, sta indicando la strada per essere e significare per noi stessi e per il mondo. Forse bisogna ribaltare un proverbio calabrese che afferma “chi non ha non è” e trasformarlo meglio in “chi non è non ha”. E’ l’eterno rebus tra l’essere e l’avere … “avere per essere o essere per avere” ? … così come “vivere per mangiare o mangiare per vivere” ?….
Ci sono stati e ci sono ancora tantissimi altri badolatesi e calabresi che vorrebbero i nostri luoghi aperti al mondo e taluni lavorano proprio per portare il mondo sui nostri mari e sui nostri monti calabri. In particolare ti vorrei ricordare il sempre effervescente e creativo Angelo Laganà di Roccella Jonica (RC) che con la sua meravigliosa, appassionata e travolgente musica ha girato mezzo mondo portando la Calabria in cima alle sue note musicali e al suo canto celebrativo. Ma anche il cantautore Claudio Sambiase milanese di Zagarise (CZ). Entrambi hanno composto una propria canzone per “Capo Sud”. Li ringrazio ancora!
Ma torniamo al luglio 1975. Mentre stavamo dialogando pacatamente al Lido Il Delfino su questi argomenti, il “Ducetto rosso” (accompagnato da qualche altro dei suoi) irrompe aggressivo nella sede di quella pacifica riunione sbraitando insulti di ogni genere contro di noi …. (“fascisti” – “sporchi borghesi” e ancora “nemici del popolo e dei lavoratori” giusto per riferire ciò che si può riferire, tralasciando il resto indicibile) … smuovendo le sedie in modo minaccioso, dando l’impressione di voler alzare le mani contro di noi. Meno male che il gestore del Lido è intervenuto in tempo, minacciando di chiamare i carabinieri.
Per tutto il mese di luglio il “Ducetto rosso” e il suo gruppo ci provocavano continuamente e in particolare ce l’avevano con me, accusato di aver messo a repentaglio la classe operaia badolatese con la mia Terza Lista. Era talmente esasperante la situazione che fui costretto a redigere a riguardo un documento “contro” di lui e per fare chiarezza sociale, stamparlo e distribuirlo in centinaia di copie ai bagnanti sulla spiaggia e alla gente che affollava i giorni della Festa della Madonna della Sanità al santuario e al borgo.
Fu così che qualcuno consigliò loro di calmarsi, poiché la cosa poteva degenerare anche perché alcuni semplici cittadini (taluni pure in mia difesa ma anche infastiditi dall’invadenza ed arroganza di questo gruppo esterno alla nostra comunità) avevano segnalato i fatti ai carabinieri i quali tenevano d’occhio e spesso tallonavano questo “Ducetto rosso” e i suoi fiancheggiatori. Costoro mi ricordavano gli scontri che, proprio in quegli anni, avvenivano all’Università di Roma (ma anche nel resto d’Italia) tra i cosiddetti “opposti estremismi” (comunisti e fascisti). Infatti, più volte i neo-fascisti irrompevano con spranghe e catene nelle aule dove facevamo lezione nella Facoltà di Filosofia, terrorizzandoci. Soltanto che io non ero l’altro “estremo” … ma un semplice cittadino che agiva senza violenza e democraticamente (dentro i confini della Costituzione, della legalità e del buon senso) e con un grande amore verso il mio paese!
In séguito, dopo l’Agosto Universitario del 1975, sulla mancata solidarietà tra Nord e Sud (sia da parte social-comunista che democristiana e governativa) ho ascoltato parecchi meridionalisti, alcuni dei quali accusavano taluni industriali del Nord di speculare sulla povertà del Sud (quasi sempre con la complicità di poteri locali) facendo finta di costruire capannoni e stabilimenti industriali per poi lasciarli inutilizzati (se e quando completati), dopo aver preso i lauti finanziamenti a fondo perduto della Cassa per il Mezzogiorno e di talune leggi fatte apposta per l’industrializzazione del Sud (o per gli industriali?). Infatti, si capiva che, sotto sotto e alla prova dei fatti, tali leggi ed interventi governativi (che ci facevano credere essere addirittura “straordinari” – quasi una concessione! – mentre invece avrebbero dovuto essere “ordinari”) erano più a favore degli industriali e degli speculatori del Centro-Nord, non esclusa la “bustarella” per i partiti (come poi è stato dimostrato in sede giudiziaria oltre che politica e giornalistica).
Altro che solidarietà!… Il Sud non soltanto veniva lasciato solo ma veniva ancora di più sfruttato e degradato specialmente con le cosiddette “cattedrali nel deserto” con le quali venivano intascati i molti miliardi stanziati dallo Stato senza mai utilizzare faraonici e pretenziosi stabilimenti industriali, lasciandoli arrugginire e provocando pure danni all’ambiente!… Cito soltanto tre casi che hanno riguardato proprio in quei primi anni settanta la nostra Calabria. Ma l’elenco dei misfatti accertati è davvero kilometrico!
Nel 1971 la S.I.R. (società italiana resine) ha costruito con i 230 miliardi di lire messi a disposizione dal cosiddetto “Pacchetto Colombo” uno stabilimento in territorio dell’odierna Lamezia Terme (CZ), mai andato in funzione e in disfacimento! … Nel 1974 ben 1300 miliardi di lire sono stati in parte spesi e in parte intascati dalla ex “Liquichimica” per lo stabilimento di Saline Joniche (RC) tra la strada statale 106 ed il mare con relativo porto; stabilimento e porto non hanno effettuato un solo giorno di lavoro e restano a testimoniare (come un “monumento” allo spreco ma anche come presa in giro alle popolazioni meridionali) proprio la mancata solidarietà tra Nord e Sud. E che dire della “telenovela” sul Quinto Centro Siderurgico?… è rimasta una Piana di Gioia Tauro (RC) devastata nei suoi ricchi uliveti e agrumeti in gran parte estirpati per far posto a questa ennesima cattedrale nel deserto che ha ingoiato miliardi e miliardi senza mai essere realizzato un solo metro quadrato di stabilimento, dopo aver distrutto tanta ottima agricoltura.
“Sud sedotto e abbandonato” tuonava Pasquale Saraceno in una conferenza cui ho partecipato e che ha avuto luogo nel 1981 nella sede di Napoli della SVIMEZ (associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno) da lui fondata nel 1946! Si rivolgeva a tutti indistintamente i partiti che avevano governato o fatto opposizione. Chi ha la mia età ricorderà sicuramente ancora questo bravo meridionalista che si batteva in ogni dove con grande passione non soltanto per il Sud Italia ma soprattutto per riequilibrare l’economia nazionale troppo ingiustamente preponderante a Nord. Nato da padre siciliano e madre campana a Morbegno (in provincia di Sondrio) il 14 giugno 1903 e deceduto in Roma il 13 maggio 1991, Pasquale Saraceno è stato uno dei pochi che ha lenìto la solitudine del Sud Italia (da quasi tutti devastato, derubato e sfruttato ininterrottamente ancora adesso fin dalla mala Unità d’Italia del 1861).
Personalmente, sono profondamente convinto (per tutto ciò che ho potuto finora capire) ed è mia chiara e sincera opinione che il Sud sia stato veramente tradito da tutti, pure dal Partito Comunista che in un primo tempo (nell’immediato secondo dopoguerra) aveva lottato bene (ma qualcuno è del parere che pure allora abbia “usato” il Sud per strategia e tattica politica allo scopo di prendere il potere nella neonata e fragile Repubblica). E, paradossalmente, il Sud è ancora adesso “tradito” persino dagli stessi meridionali (specie da quelli che, senza una briciola di consapevolezza, di storia e di orgoglio, sostengono addirittura partiti, come la Lega Nord, che apertamente e concretamente, per nascita e per statuto sono contro il Sud Italia). Forse il Sud non esiste più, essendo ormai quasi del tutto sparito dalle Agende del Potere e dei Cittadini!!!…
Ho amato tantissimo, ancora di più il nostro popolo meridionale, anche dopo aver concluso nel 1977 il mio studio badolatese con il “Suicidio del Sud”. Adesso, però, a distanza di quaranta anni, non ne sono più tanto sicuro, sfibrato da un intenso (e inutile) lavoro “meridionalista”, da impegni sociali e civili, da esortazioni e costose iniziative, incitamenti e progetti vanificati dagli stessi meridionali. Mi sembra proprio di aver perso i migliori anni della mia esistenza inseguendo i miraggi del mio paese natìo ed il mito del Sud (“miraggi” e “miti” come profetizzavo nei versi di “Gemme di Giovinezza” nel 1967). Così come Badolato, fra non molto anche il Sud sparirà dalla mia Agenda. Non ci credo assolutamente più!…
Già il 19 novembre 1979 (appena due anni dopo aver concluso la tesi di laurea con il “suicidio del Sud” da scongiurare con una “terapia d’urto”), preso da grande sconforto, scrivevo i versi che ti trascrivo qui di séguito per come estratti dalla racconta “30 annotazioni come i nostri 30 anni” (pubblicata nel libro “Prima del Silenzio” nel giugno 1995) numero 22 alla pagina 243. E oggi, estate 2017, mi sono definitivamente convinto che la situazione del Sud è talmente disperata che sarebbe inutile persino una “terapia d’urto”! Forse è proprio in lenta ma decisa fase terminale. A meno che non avvenga prima una vera e propria rivoluzione etico-culturale e poi politica. Ma la credi possibile? Ecco i versi scritti nel 1979 (38 anni fa).
Caro Tito, dicono alcuni nostri concittadini “Comu ni potìmu ricattàra cu tutti si latri chi gìrano mpunìti?” (Come ci possiamo salvare, riscattare con tutti questi ladri che girano impuniti?)… Già molti anni fa, da qualcun altro (che aveva partecipato alla Grande Guerra 1915-18) avevo sentito dire con tanta amarezza: “Quandu ni chiamaru u morimu pe’ Trentu e Triesti eramu bboni, mona on simu bboni cchyù” (quando ci hanno chiamati a morire per Trento e Trieste eravamo graditi, adesso non siamo più degni di essere noi aiutati). Per il Nord-Est italiano centinaia di migliaia sono stati i meridionali che sono morti e tante altre centinaia di migliaia quelli feriti e rimasti invalidi a vita. Solidarietà nazionale a senso unico?… Sud serbatoio di “carne da macello” e di lavoratori oppure “vuoto a perdere”?…
Caro Tito, come sempre il discorso sarebbe troppo lungo. Qui l’importante è averlo almeno accennato, pure come “input” ulteriore (perché, come si dice, la speranza è l’ultima a morire) o come semplice promemoria per l’Agenda delle nuove generazioni. La cosiddetta “Questione meridionale” ormai non è più di moda ma, a suo tempo, è stata affrontata da tanti suoi studiosi, però a noi stessi meridionali sembra che non importi proprio niente di rivendicare i sacri diritti del nostro popolo già derubato e tradito da Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele II (e da qualche complice cricca di traditori borbonici) come sostengono taluni storici bene informati. A quando, dunque, la riscossa del Sud?…
Ma, per paradosso e per beffa, il partito politico della Lega Nord ha lanciato e sta realizzando a modo suo (prima con enfasi e adesso alla chetichella con maggiori risultati) la “Questione settentrionale”. Sarà mai possibile che possano conciliarsi, in uno Stato unitario e democratico-solidale, le due “Questioni” (quella meridionale di più vera e più antica data e quella settentrionale più recente e artificiosa)?… Poiché, altrimenti, è meglio avere un Sud “indipendente” pur restando nel contesto dell’Unione Europea, come prevede pure il progetto dell’indipendenza della Catalogna dalla Spagna!… A parere mio, il Sud Italia ha perso pure la residua flebile voce poiché è stato fin troppo travolto e annientato dalla “Rivoluzione migrante” che durerà chissà per quanti decenni ancora. Ed il Sud sarà quello che ancora ne pagherà le maggiori conseguenze!
Il Sud è un immenso carcere. Non dà più conforto il mare, né i colori sanno più trasferirsi agli occhi con plauso. Eppure, oggi per riempire il vuoto di questa cella millenaria basterebbe una lettera. Un sorriso. Una telefonata. Ma qui in questo immenso carcere dove tutti sono e sanno essere carcerati e carcerieri, torturatori e vittime, niente e nessuno riesce ad alleviare la condanna di essere nato per caso nel Sud, quel luogo dove l’utero delle madri e questo immenso carcere sanno essere e sono la stessa cosa.Intanto ti propongo di “studiare” (come “Lettura parallela”) un prezioso articolo-commento su Pasquale Saraceno (fondatore SVIMEZ) scritto dalla prestigiosa penna dell’ottimo e compianto Gerardo Marotta (Napoli 1927 – 2017) quando era presidente dell’Istituto Italiano di Studi Filosofici. Tale articolo è stato ripubblicato il 24 dicembre 2016 dal sito http://appelloalpopolo.it/?p=26640 (da fonte www.iisf.it).
LETTURA PARALLELA
Pasquale Saraceno: Unità nazionale e Mezzogiorno
di GERARDO MAROTTA
Fu una costante del meridionalismo di Saraceno la ferma consapevolezza che la questione dell’unificazione economica dell’Italia fosse anche una questione di unificazione politica, perché l’obiettivo del superamento del divario tra il Nord e il Mezzogiorno chiamava in causa le responsabilità dello Stato e perché il permanere di quel divario poteva riflettersi negativamente sulla stessa unità nazionale, con conseguenze che a lungo andare potevano risultare esiziali anche dal punto di vista politico.
Questa consapevolezza colloca Saraceno nel solco di una lunga tradizione ideale che va al di là del pensiero meridionalistico “classico” e del dibattito sul Mezzogiorno che ebbe luogo nel secondo dopoguerra.
Infatti la tenace battaglia di Saraceno si accosta idealmente ai motivi ispiratori della Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce in cui il filosofo avvertiva, proprio a proposito della questione meridionale, che «bisogna con ogni cura guardarsi dal compiere un indebito trapasso dalla storia etica e politica alla storia economica e sociale e pretendere di ritrovare in questa il movimento storico e la virtù nazionale che si deve invece ritrovare e mostrare nell’altra».
Questa tradizione in cui si collocava Saraceno, la tradizione che concepiva il problema dell’unificazione economica del Paese come una questione etico-politica, è quella che lega il pensiero dei filosofi e dei riformatori napoletani del Settecento al Risorgimento italiano e arriva fino alla fondazione della Repubblica. Proprio Antonio Genovesi aveva aperto il cammino verso una concezione del primato dell’etica nell’economia, del pubblico sul privato, dell’interesse generale e del bene comune sugli interessi particolari.
E ancora, il richiamo ai filosofi e ai riformatori napoletani ci pare del tutto pertinente proprio per la forte attenzione che Saraceno ha dedicato al consolidamento dello Stato moderno in Italia e per la chiarezza con cui egli ha visto che questo consolidamento si realizza attraverso la lotta della giustizia e delle istituzioni contro gli interessi di quella «violenza privata» che Gaetano Filangieri e Francesco Mario Pagano individuarono come l’ostacolo da combattere per l’affermazione dello Stato moderno.
Croce la chiamava «eterna rapina», sulle orme di Silvio Spaventa, che aveva denunciato l’opera nefasta delle «forze neofeudali», quando, ministro del giovane Stato unitario, fu impegnato in una lotta senza quartiere per difendere il pubblico erario dall’assalto delle grandi imprese dei lavori pubblici: quelle società anonime concessionarie della costruzione delle reti ferroviarie, con alla testa il banchiere Rotschild e i politici toscani, che congiurarono con la Sinistra di Agostino Depretis e di Giovanni Nicotera per provocare nel 1876 la caduta del partito risorgimentale della Destra storica che aveva fondato lo Stato unitario e ne aveva elaborato le leggi fondamentali.
Quella battaglia culminò, nel secolo appena passato, prima nell’inchiesta Saredo e infine nell’inchiesta Scalfaro, ed è una lotta che continua ancora oggi senza tregua perché ancora oggi vengono continuamente sacrificate le leggi sulla contabilità dello Stato e calpestati gli interessi generali della nazione, con il rischio che venga irrimediabilmente compromessa la vita delle istituzioni repubblicane e affievolita nelle nuove generazioni la virtù nazionale.
La tradizione in cui si colloca Pasquale Saraceno è, dunque, quella che si fonda sulla separazione tra amministrazione e potere politico e sulla difesa e valorizzazione dello Stato unitario. Ciò può apparire in contrasto con la rivendicazione, che egli sempre sosterrà, e con grande vigore, della necessità di un intervento dello Stato nel Mezzogiorno che abbia un carattere straordinario.
L’intervento, afferma Saraceno, poiché deve affrontare problemi che sono solamente del Mezzogiorno, non sembra che «possa collocarsi nel quadro di un ordinamento uniforme per tutto il Paese: la diversità dei modelli di sviluppo postula la diversità degli ordinamenti» [Introduzione al Rapporto 1984]. E quindi «l’intervento straordinario è necessario fin quando l’economia italiana risulterà composta di due sistemi, caratterizzati da modelli di sviluppo diversi; ignorare e negare questo persistente dualismo significa conformare l’azione pubblica esclusivamente al modello del sub-sistema più forte, consumando così una sostanziale sopraffazione degli interessi del sub-sistema più debole».
Tuttavia, è importante rilevare che in questa stessa pagina in cui si rivendica la necessità di un intervento pubblico straordinario, commisurato alla specificità dei problemi che si presentano nel Mezzogiorno, il discorso si allarga subito e coerentemente alla politica economica dello Stato nel suo complesso e alla stessa unità nazionale. Infatti, «l’obiettivo dell’unificazione economica [….] non può essere affidato esclusivamente all’intervento straordinario, ma richiede che il vincolo meridionalistico sia presente nella determinazione delle politiche nazionali».
Si aggiunga – ed è il punto fondamentale – che Saraceno, sempre nella stessa pagina che abbiamo citato, afferma che la specificità «dell’ordinamento» dell’intervento statale nel Mezzogiorno «non è in contrasto con la concezione fortemente unitaria che ha sempre ispirato il meridionalismo. Si potrebbe anzi dire che la separazione degli ordinamenti, in quanto strumento dell’unificazione economica e sociale del Paese, è esattamente condizione per prevenire l’insorgenza di tentazioni e velleità di separatismo».
Qualche mese prima della pubblicazione del Rapporto 1984, e precisamente il 19 maggio dello stesso anno, durante una conferenza sul tema “Il nuovo meridionalismo”, tenuta a Napoli presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Saraceno aveva pronunciato parole analoghe, in cui si avvertiva la preoccupazione per i primi forsennati attacchi all’unità nazionale: «In sostanza l’intervento straordinario costituisce una forma di separazione in due parti della nostra economia, separazione temporanea che, circoscritta alla sola politica di sviluppo economico, può coesistere con il permanere dell’unità politica; anzi esso ha come obiettivo quello di rafforzare l’unità».
Saraceno è stato un grande statista e un grande patriota, ma si badi bene, uno statista e un patriota che non amava l’Italia in modo astratto e non riduceva i suoi problemi a problemi di tecnica economica, ritagliati al di fuori della storia e di una visione umanistica. Egli amava disperatamente la sua gente ed in questo sentimento vivevano aspetti diversi della sua forte e poliedrica personalità: l’uomo di Stato e il maestro di scienza economica, il tecnico dell’economia e il difensore dell’ambiente.
Le sue proposte nascevano da un’analisi appassionata ma rigorosa della realtà economica del Mezzogiorno e del Paese, dalla conoscenza puntuale delle tendenze “oggettive” dello sviluppo, dalla frequentazione delle teorie che circolavano nel dibattito teorico del dopoguerra. La sua convinzione che la base imprescindibile di uno sviluppo autonomo del Mezzogiorno fosse l’industrializzazione non gli impedì di considerare con attenzione le opportunità connesse allo sviluppo di un terziario moderno e avanzato, nonché il rapporto di interdipendenza tra sviluppo economico e assetto sociale e civile delle grandi aree urbane.
Nella sua visione il mercato resta una “oggettività” innegabile, ma per il Mezzogiorno esso non è sufficiente: è necessaria l’azione dello Stato, che non è solo la disponibilità di fondi aggiuntivi e l’adozione di procedure più agili di quelle dell’amministrazione ordinaria, ma è «l’idea di governare secondo un programma».
Perciò, per Saraceno «resta più che mai viva la lezione di quei grandi servitori dello Stato che nel dopoguerra formularono l’idea stessa di uno speciale apparato pubblico non burocratico, al quale facessero capo unitariamente le responsabilità di programmazione, progettazione e finanziamento pluriennale degli interventi aggiuntivi e intersettoriali volti allo sviluppo della società meridionale […] una struttura funzionale sottoposta al controllo del governo per quanto riguarda l’indicazione degli obiettivi e la vigilanza sul loro perseguimento, ma pienamente autonoma sul piano organizzativo, tecnico e operativo» [Introduzione al Rapporto 1987).
Nel quadro di una irrinunciabile funzione di indirizzo che è propria della politica, Saraceno rivendica l’autonomia delle tecniche economiche nella sfera che è di loro competenza. La tensione morale che anima Pasquale Saraceno, dunque, quella tensione all’universale che gli fa dire che l’essenza della questione meridionale è di natura etico-politica, non è sovrapposizione di un astratto moralismo alle ragioni dell’economia.
In lui il rigore morale fa tutt’uno col rigore scientifico e tecnico, per cui si può ben a ragione affermare che Saraceno è stato, con la sua riflessione e con la sua opera, un esempio vivente, oggi più che mai da additare alle giovani generazioni, di come possano e debbano andare insieme economia e etica, e non per mera giustapposizione, ma perché una riflessione en économiste che voglia essere seria e rigorosa presuppone l’impegno per il bene pubblico e nello stesso tempo conferisce concretezza e incisività a questo impegno.
Non stupisce, quindi, il fatto che nelle Introduzioni ai Rapporti si manifesti sempre più vigorosa, di anno in anno, l’indignazione di Saraceno per la distorsione crescente cui è sottoposta la spesa pubblica nel Mezzogiorno sotto la pressione di quelle forze che sono interessate più ad una ripartizione privatistica dei fondi pubblici che al loro impiego per un effettivo sviluppo economico.
La denuncia delle conseguenze di questa distorsione diventa sempre più forte. Non solo essa è in contrasto con l’obiettivo dello sviluppo economico del Mezzogiorno – non si stanca di ripetere Saraceno – ma soprattutto finisce per aggravarne il degrado morale e civile. Nel 1900 Francesco Saverio Nitti scriveva su “La Riforma Sociale”: «Il problema di Napoli non è dunque soltanto economico, ma sopra tutto morale : ed è l’ambiente morale che impedisce qualsiasi trasformazione economica».
Novanta anni dopo Saraceno scrive che la modernizzazione è solo apparente; con essa convivono fenomeni ereditati da «un lontano passato lazzaronesco e feudale»: sopraffazione e asservimento, commistione tra pubblico e privato, scambio di protezioni e fedeltà personali. «Questa convivenza di modernizzazione apparente e di residuati socio-culturali del passato – scrive Saraceno nell’Introduzione del 1990 – è il terreno comune di coltura dell’assistenzialismo, della corruzione e della piccola e grande criminalità».
Il tono si fa preoccupato ed accorato. La criminalità ha assunto dimensioni economiche così rilevanti e si manifesta in episodi così vistosi e terribili da determinare l’immagine che il Mezzogiorno propone di sé, oscurando l’impegno di quelli che, anche nel Mezzogiorno, partecipano alla vita economica, sociale e politica ispirandosi «ai principi della civile convivenza, dello Stato di diritto, del rispetto della morale e della legge».
Saraceno sottolinea la penosa condizione di isolamento in cui è costretto ad operare chi si ispira al bene pubblico e non all’interesse privato: un isolamento determinato dal potere di intimidazione e di corruzione della criminalità, dalla dissoluzione del meridionalismo politico, dalla paralisi decisionale e operativa dello Stato.
Ma il rapporto tra criminalità e politica è solo la punta più estrema e pericolosa della rete di rapporti che nel Mezzogiorno intercorrono tra gestione delle risorse pubbliche e interessi privatistici. Saraceno, che ha sempre insistito sulla necessità dell’intervento straordinario e ha sempre cercato di far capire che il vero problema è nell’uso che di questo strumento viene fatto, ha visto che col passare degli anni esso è diventato preda di famelici appetiti e fonte esso stesso di clientelismo e corruttela.
Intorno alla spesa pubblica nel Mezzogiorno, egli afferma, si è costituito un nuovo «blocco sociale», «molto più radicato e diffuso, e quindi molto più forte, del vecchio “blocco agrario”». È all’azione di questo blocco sociale che si deve il deperimento della politica meridionalistica, sostituita da interventi parziali per far fronte a questa o a quella emergenza «con il ricorso sempre più frequente a procedure e strumenti speciali e derogatori». In queste parole c’era la piena consapevolezza, come possiamo testimoniare, della rapina e del saccheggio della pubblica ricchezza da parte di forze neofeudali che nulla hanno a che fare con autentiche forze produttive, ma sono soltanto i residui «di un passato lazzaronesco e feudale» e di «residui socio-culturali».
Quando denunciava procedure e strumenti derogatori o l’uso distorto delle risorse, Saraceno si riferiva a quelle cattedrali nel deserto consapevolmente destinate alla rottamazione e che costarono al pubblico erario somme che avrebbero potuto salvare l’infanzia di interi paesi sottosviluppati, pensava a tutte quelle risorse impegnate in faraonici megaprogetti, pensava alle grandi dighe inutili, ai giganteschi ed inefficienti impianti di depurazione, alle rovinose cementificazioni di argini, agli infiniti lavori pubblici i cui progetti non furono mai valutati o rigorosamente valutati e spesso anche non approvati formalmente, ma eseguiti con la più spietata devastazione dell’ambiente e con spreco immenso di denaro pubblico.
La scandalosa vicenda del dopo terremoto aveva contribuito ad accentuare la vena di pessimismo presente nella riflessione dell’ultimo Saraceno. Tuttavia la conclusione alla quale egli perveniva era tutt’altro che il disarmo morale e la resa di fronte ad una ineluttabile degenerazione. Piuttosto, era improntata alla necessità di riconfermare il proprio impegno di lotta civile: «Ritornare ad una politica per il Mezzogiorno ispirata allo sviluppo e non all’assistenza, […] alla netta separazione anziché alla confusione tra potere politico e responsabilità gestionale, significherebbe battere il blocco sociale e dar vita alla formazione di un nuovo blocco sociale orientato al progresso» [Introduzione 1990].
Ecco che in questa affermazione emerge la ferrea volontà dell’uomo di Stato che pensa ad una vera e propria rivoluzione, in continuità con quella unitaria del Risorgimento, per eliminare dalla scena italiana quel «blocco sociale» che Giorgio Ruffolo ha definito «i nuovi briganti» e fare avanzare «il progresso economico e civile dell’intera Nazione. Nazione, la nostra, che, per dimensione demografica ed economica e per tradizione culturale, andrebbe iscritta nel novero delle grandi nazioni europee: solo che ne avesse, al pari delle altre, la volontà e l’orgoglio.»
Il lungo e doloroso travaglio di Pasquale Saraceno sui problemi della questione meridionale e tutta la sua amara esperienza sull’industrializzazione del Mezzogiorno collocano questa grande figura di uomo di Stato nel filone di pensiero dei filosofi e dei riformatori napoletani del Settecento. L’uno e gli altri sono uniti in una medesima sofferta esperienza, nella faticosa analisi della vera contraddizione, derivante dalla permanenza di pesanti residui feudali nel Mezzogiorno d’Italia.
Infatti, la contraddizione principale non era per Saraceno la contraddizione di classe. L’idea che questa fosse la contraddizione principale ha sviato intere generazioni e quasi tutti i partiti politici nella riflessione sulla questione meridionale e ciò spiega fino in fondo l’isolamento terribile al quale fu condannato Pasquale Saraceno: egli non poteva essere compreso con le lenti delle teorie politiche correnti a cavallo dei due secoli, né con la storia viziata di sociologia che ha fatto perdere il proprio tempo a tante menti brillanti per lunghi neghittosi anni.
Solo se si colloca Saraceno nel filone del pensiero dei filosofi e dei riformatori napoletani del Settecento e in particolare del pensiero di Gaetano Filangieri e di Francesco Mario Pagano e della loro teorizzazione, costruita sulle orme di Vico, della faticosa formazione e della faticosissima e drammaticissima affermazione dello Stato e della sua giurisdizione contro gli interessi soffocanti e implacabili della «violenza privata», solo in questo quadro si può comprendere l’immenso valore dell’impostazione teorica e della battaglia solitaria di Pasquale Saraceno contro quel «blocco sociale» che è la robustissima sopravvivenza dei «residui feudali» e della «violenza privata» che Benedetto Croce chiamava «eterna rapina».
L’originalità del pensiero di Saraceno sta nell’affermazione della natura neofeudale di questo «blocco sociale». Esso è la violenza degli interessi privati che continua quella «eterna rapina» che era la caratteristica delle forze feudali che si opponevano al sorgere dello Stato moderno nel Regno di Napoli. Quelle forze si trasformarono e si mimetizzarono sotto la forma di società anonime nello Stato unitario, andando all’assalto delle grandi opere pubbliche necessarie alla costruzione del nuovo Stato: strade, ponti, grandi vie di comunicazione, la rete ferroviaria.
Saraceno comprese che le famiglie della piccola borghesia e gli intellettuali che si rifiutavano con sdegno di entrare a far parte del gioco parassitario, o che non riuscivano a conquistare qualche posizione di privilegio nell’anarchia imposta dai nuovi predoni, venivano ridotti in una condizione precaria ai limiti della povertà. È comprensibile, quindi, la vena di pessimismo che pervade l’ultimo Saraceno. Si era al fallimento dell’intervento straordinario, e con esso sembrava fallire un intero progetto civile e lo Stato di diritto. Prevaleva il «blocco sociale» con tutto il suo scenario di orrori, mentre si profilava il nuovo scenario delle privatizzazioni che avrebbe visto la liquidazione dell’IRI e delle grandi aziende di Stato.
Vale la pena ricordare, a questo proposito, una lettera di Silvio Spaventa agli elettori del Collegio di Bergamo, raccolta da Benedetto Croce negli scritti del grande statista protagonista del Risorgimento italiano che, liberato dall’orrendo ergastolo di S. Stefano, aveva assunto funzioni di governo nello Stato italiano: «… Erra grandemente, a mio giudizio, chi vorrebbe togliere al governo l’amministrazione propria di alcuni grandi e generali interessi pubblici, dove la partecipazione più o meno insindacabile dei privati cittadini si risolve, sempre, nell’arricchire i pochi e nell’immiserire i più. Bisogna guardarsi dal culto di certi principi astratti, che riescono, in ultimo, a questa conseguenza; che, quando si tratta degli interessi di tutti, il governo non deve far niente; e quando poi si tratta degli interessi di pochi, esso è indotto a fare, a spese di tutti, ogni cosa. E di queste anomalie e incongruenze abbondano gli esempi».
Vogliamo infine ricordare che al centro del programma civile di Pasquale Saraceno c’era lo sviluppo della ricerca scientifica e la formazione culturale e civile delle nuove generazioni. Nell’attuazione di questo programma Saraceno coinvolge il Ministero per il Mezzogiorno, l’IRI – Istituto per la Ricostruzione Industriale. La ricerca e la formazione delle nuove generazioni sono la base principale di tutto il programma civile di Pasquale Saraceno e possiamo ben a ragione affermare che anche questa ansia e questa sollecitudine per i problemi dell’educazione lo legano alla tradizione che da Antonio Genovesi passa attraverso tutti i grandi pensatori meridionali.
Negli ultimi anni della sua vita, Saraceno si rivelava ancora più convinto che fosse necessaria un’azione rivoluzionaria dello Stato per la lotta contro il blocco sociale che si era costituito per l’accaparramento delle risorse pubbliche nel Mezzogiorno e che da esse aveva tratto alimento per crescere ed espandersi con la complicità e il concorso di grandi imprese provenienti da ogni parte del territorio nazionale.
Nella Introduzione al Rapporto 1991 – che egli non fece in tempo a redigere personalmente ma che giustamente gli si può attribuire perché vi si sente la viva presenza della sua lezione – si può leggere la preoccupazione per «l’appassire del sentimento dell’unità nazionale», per «il diffondersi, in luogo di quel sentimento, di un rumoroso populismo dialettale che reclama, in nome di interessi e culture locali, la liquidazione fallimentare della nostra storia unitaria» e, aggiungiamo noi, della virtù nazionale. Una denuncia dell’involgarimento della società civile, del degrado del costume e della morale, della perdita del sentimento dell’unità nazionale.
Anche per lui possono valere, nonostante l’indubbia diversità di indole e cultura delle due personalità, le parole che in occasione del convegno promosso a Bergamo nel 1990 dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, sul tema “Il dibattito sull’unità dello Stato nel Risorgimento italiano”, Giovanni Spadolini dedicava a Silvio Spaventa: fu un uomo che ebbe una fede assoluta in «quell’unità italiana che sembra oggi ridiscussa e oggetto di contestazioni o di dissacrazione da parte di chi giura sui simboli dei vecchi comuni travolti dall’unità; o rievoca un’Italia federale che come tale non è mai esistita e che il Risorgimento in ogni caso trascese nella creazione di un nesso spirituale e politico». – STOP –
Caro Tito, visto che profondità di pensiero e quante verità in questo pur breve scritto!? E’ indirizzato specialmente i giovani i quali lo dovrebbero leggere, rileggere, studiare ed approfondire. Nel darti appuntamento alla prossima “Lettera su Badolato n. 33”, ti ringrazio e ti saluto, raccomandandoti di ben godere (anche da parte mia) questi ultimi scampoli di bella stagione sul nostro magico Jonio. Ciao!
Le foto sono state prese dal web.
Domenico Lanciano Azzurro Infinito, sabato 02 settembre 2017 ore 23,43