Caro Tito, nel novembre 1984 ho pubblicato nel numero fondativo della rivista “Eros alta cultura erotika” la prima puntata del “Diario di Mollichina” ovvero le lettere quotidiane di due neo-genitori alla loro bimba che sarebbe nata da lì a qualche mese. L’arrivo di questa nuova creatura andava salutata anche da altri familiari, per cui tale diario si arricchiva man mano delle emozioni e dei sentimenti espressi da nonni, zii, amici, cuginetti. Bisognava dare alla nascitura la sensazione e la sicurezza che fosse stata attesa ed amata da tutti fin dal primo momento del concepimento e che il suo arrivo costituiva una gioia immensa. Tra l’altro, l’intenzione lungimirante del diario era proprio quella di infondere in “Mollichina” una stabilità e una sicurezza amorosa, psicologica, emotiva, sentimentale e valoriale per il resto della sua vita. Ed aiutarla nei momenti di smarrimento che avrebbe immancabilmente vissuto in futuro.
E così è stato, in buona parte. Infatti, ho intervistato “Mollichina” quando aveva appena superato i 18 anni ed aveva letto il Diario genitoriale e le lettere di nonni, zii, cugini ed amici. Mi ha confermato che tutto questo amore e questo affetto le sono giovati moltissimo, specialmente nelle crisi adolescenziali. E lei stessa già scriveva un diario pensando al figlio che avrebbe avuto da lì a qualche anno, quando sarebbe stata mamma, a sua volta. Anzi, convinta che le lettere potessero essere un mezzo ed un elemento d’amore che resta nel tempo, Mollichina scriveva spesso lettere ai propri genitori, cosicché non soltanto c’era questo scambio confidenziale, ma realizzavano (forse inconsapevolmente) il documento prezioso della loro storia d’amore genitori-figli e viceversa … un documento che avrebbero ritrovato nel corso dei decenni e lasciato in eredità ai loro figli e nipoti a testimonianza di una tradizione familiare fatta di sentimenti e di valori, di legàmi forti ed indissolubili. Comunque sarebbero poi andate le cose della vita.
1 – DONI DI BABBO NATALE E BEFANA
Ho sempre raccomandato a tutti i genitori di scrivere diari e lettere d’amore ai propri figli già dal momento stesso in cui pensavano di averli. Non c’è migliore dono, per un figlio (come mi ha confermato la stessa Mollichina), che avere scritto nero su bianco (assieme a foto, video e oggettistica varia) la manifestazione frequente, spesso giorno per giorno, dei sentimenti genitoriali e familiari. Infatti, siamo più propensi a regalare oggetti e non sentimenti. Quindi, meglio regalare una pagina di diario, una lettera e non magari soltanto giocattoli. Così come è meglio dedicare del tempo vissuto con figli e nipoti piuttosto che numerosi oggetti anche se utili. Dare l’uno e l’altro sarebbe l’ideale. Una lettera equivale ad una passeggiata ai giardinetti fatta con un figlio o un nipote. Quale genitore o nonno negherebbe mezz’ora di passeggiatina ad un figlio o nipote?…
Si potrebbe invertire la tendenza. Solitamente sono i bambini che scrivono a Babbo Natale e alla Befana per la richiesta di doni. Perché, oltre ai doni, Babbo Natale e la Befana, non regalano ai bambini lettere sentimentali e pedagogiche?… Bisognerebbe provare, per vedere (di nascosto) l’effetto che fa. Sarebbe come consigliare ai bambini il meglio (da parte di un’entità esterna, come Babbo Natale e Befana detentori di doni e regali premianti del comportamento annuale). Bisognerebbe spiegare, ad esempio, perché si porta loro il “carbone” o la “cioccolata”… proprio per migliorare il comportamento ed i valori, l’educazione sentimentale, il calore e la solidarietà familiare.
2 – LA LETTERA-DONO DI DOMENICO BARBARO AL NIPOTINO
Natale è il giorno della bontà e della gentilezza … il più indicato per manifestare i propri buoni sentimenti e di donare qualcosa di sé stessi … non soltanto regali ma anche valori e indicazioni esistenziali che, tramite una lettera, possano restare, pure a promemoria, per il resto della vita. Una lettera è pur sempre un atto di amore profondo e imperituro, che vale al di là della stessa esistenza di chi ha scritto o di chi ha letto. Restano documenti di vita e di società che qualche Archivio di Stato farebbe bene a conservare e valorizzare, così come già fanno alcuni Archivi diaristici nazionali, come quello di Pieve Santo Stefano (Arezzo) forse il primo ideato e realizzato in Italia. La Storia non è fatta soltanto di azioni più o meno eclatanti politiche e sociali, ma è fatta anche di vita quotidiana e di sentimenti silenziosi e tenaci che perdurano e formano le famiglie (cellula e base di qualsiasi comunità).
Così, in questo Natale 2022, il medico psichiatra Domenico Barbaro (nativo di Platì – RC – e residente da decenni in Isernia, nel Molise) ha donato una lettera al nipotino (in realtà ne ha ben quattro, al momento). La riporto qui di sèguito, sia come documento familiare e sia come spunto e spinta a tutti i nonni di scrivere una lettera ai propri nipoti come eredità sentimentale, etica, valoriale e storica. Una lettera-prototipo. Sono sicuro che, negli anni, i nipoti si attaccheranno a questa lettera per rafforzare la loro presenza nel mondo. Mi verrebbe voglia di definirla “lettera-biberon” con cui nutrirsi, specialmente negli immancabili momenti di crisi. L’amore, in fondo, nutre bene a qualsiasi età. Ecco allora la “lettera-biberon” di Domenico Barbaro: LETTER DI UN NONNO AL PROPRIO NIPOTE (Isernia – Natale 2022) che occupa tutto il seguente paragrafo 3.
3 – LETTERA DI UN NONNO AL PROPRIO NIPOTE
Mio caro nipote, nel momento in cui mi accingo a scriverti questa lettera mi rendo conto di vedere e considerare in te tutti i nipoti del mondo, come anche in me, del resto, sento rivivere tutti i nonni del mondo. E trovo profondamente importante, oggi più di ieri, che i nonni costruiscano uno spazio dialogante con i nipoti, per il semplice fatto che nell’avvicendamento generazionale molte cose di ciò che sono le radici, l’orizzonte di provenienza, la propria storia, sono inevitabilmente ed irrimediabilmente destinate a perdersi.
È dunque per me un debito, una incombenza da assolvere nei tuoi confronti, prima che sopraggiunga il tramonto della vita e i pensieri offuscandosi possano far naufragare per sempre la mente, e con essa le ricchezze ideali del passato, con il loro carico emozionale, che avevo conservate per te.
Sono intanto molto preoccupato che la comunicazione oggi stia divenendo qualcosa di incomprensibile e di pericoloso, almeno ai miei occhi. Mi accorgo che essa tende a sopprimere la fisicità degli incontri, a costruire nuove sintassi, e in maniera insidiosa a delegare in forma quasi esclusiva all’etere la trasmissione dei saperi. I rischi sono enormi. La realtà virtuale viene deteriorata e mistificata da assiomi falsi, da concezioni ambivalenti, da strambe teorie in perfetta assonanza con vacillanti illusioni. Viene anche spogliata da tensioni emotive congrue, da sentimenti ed empatia. Molte cose davvero importanti si perdono così nei fondali non più esplorabili della memoria e i messaggi che giungono dal passato subiscono la sorte dei messaggi dell’attualità. Siamo al “mordi e fuggi” della comunicazione che non trattiene nulla dei ricordi e che guarda sempre avanti senza mai voltarsi indietro. Smemorati e ansiosi, depressi e smaniosi come siamo. Così si finisce con il perdere irrimediabilmente quel passato, quelle radici che sole ci possano consentire di costruire efficacemente e correttamente il futuro.
Ed è per questo che sento di voler lasciare a te con questa mia lettera un’eredità non di beni materiali che si usurano nel tempo ma qualcosa di mio, del mio passato, del bagaglio ideale di cui sono stato dotato dai miei genitori e dai miei nonni, di tutto quello che ti può servire per conoscere le tue radici, la storia personale da cui tu discendi e che di certo non troverai in nessun libro scolastico.
Anche i tuoi genitori tenteranno sicuramente di raccontarti qualcosa del passato. Ma forse non ne sanno molto, perché esiguo è stato lo spazio narrativo tra me e loro per una crescente ansia di costruire al meglio il loro presente e il tuo futuro. Loro, diciamoci la verità, sono un po’ travolti da questa atmosfera inquieta del tempo presente in cui si corre a gomitate per non restare indietro. Io invece ho spento da tempo questa ricerca smaniosa, si sono assopiti i desideri, e guardo indietro con la nostalgia di chi sa che quell’ombra del passato è decisamente molto più lunga di quel tratto che mi separa dalla fine.
Resto qui seduto sul mio vecchio divano di nappa consunto dal tempo e immagino di averti qui a fianco con lo sguardo che pende dalle mie labbra come per ascoltare una favola antica.
Caro nipote, dovrei dapprima parlarti dei miei genitori. Non dirò volutamente molte cose personali di loro. Schivi come erano, specie mia madre, non apprezzerebbero di essere celebrati da me nella loro testimonianza di amore e dedizione. Questi erano appunto i valori irrinunciabili del loro tempo, e la diffusione di essi appariva in maniera così evidente e diffusa tra la gente del paese.
Eppure, di mio padre potrei dire tante cose, perché la sua fu veramente una vita avventurosa, sempre in cerca di lavoro. Da sarto a venditore di scarpe, da lavapiatti a guardia notturna, da fotografo a metalmeccanico, da guardia giurata presso un saponificio a commerciante di ciocie (calzature dei pastori derivate dalle gomme in disuso delle auto). Sempre in giro per il mondo.
E di mia madre cosa potrei dire? – Che è vissuta, quasi segregata, per ben sessanta anni in un paese in cui la donna godeva di poche occasioni per uscire di casa. L’unica per mia madre era la messa festiva. Poi le restava solo il lavoro della raccolta di ulive che la richiamava prepotentemente da quei sentieri aspromontani umidi e scoscesi. Il velo nero in testa per entrare in chiesa, il manto di lana nera per sfidare il freddo dell’inverno in montagna.
La ricordo sempre così, nella sua riservatezza e nella sua dignità nell’affrontare le circostanze dolorose, come quando perse il padre e la lasciò in casa all’età di soli ventitré anni. Poi, finalmente sposa, poté assaporare solo per poco tempo il bello dello stare insieme.
Ben presto mio padre iniziò il suo incessante girovagare. Solo quando arrivò il periodo romano i miei genitori finalmente si ricongiunsero, lui tornava dal suo esilio lavorativo, lei dal suo difficile isolamento calabrese, e poterono così godere di una breve fase di serena convivenza prima di andarsene per sempre. Io mi sono considerato spesso figlio di due guerre.
I miei genitori sono nati (mamma nel 1914, padre nel 1917) quando due schieramenti contrapposti di nazioni scatenarono la Prima guerra mondiale provocando qualcosa come sedici milioni di morti tra militari e civili. Tempi di terrore anche nelle piccole realtà rurali come era il mio paese di origine. Padri di famiglia costretti a partire per il fronte con nessuna certezza di ritornare sani e salvi. Qualcuno riuscì a dissertare la leva e riparare nelle fitte boscaglie aspromontane. Ma quanti ne mancarono all’appello dopo l’armistizio del novembre 1918.
Nella Seconda guerra mondiale, tra il 1939 ed il 1945, mio padre partì alle armi e quasi subito, da Tortona dove si trovava, fu deportato in un campo di concentramento minore in Germania. Fu dichiarato disperso e in paese ovviamente ne sospettavano la morte. Ma fece ritorno a casa inaspettatamente alla fine delle ostilità belliche con mezzi di fortuna. Era appunto il 1945. Senza indugiare chiese in sposa mia madre che ormai credeva di restare definitivamente nubile. E così nello stesso anno furono celebrate le nozze in quell’atmosfera triste e povera di un paese tutto da ricostruire.
Formare una famiglia e sostenerla adeguatamente non fu davvero agevole, se non per quel tanto di solidarietà così radicato nella gente del mio paese. Ci si scambiava di tutto. Si faceva il pane in casa e lo si prestava caldo e profumato ai vicini per esserne poi ricambiati. Come fare il pane in una simbolica turnazione per garantirsi freschezza, ma anche talvolta per sopperire a temporanee indigenze. E tante altre cose entravano nel ciclo della generosità e dell’aiuto reciproco. Pochezze, come le uova o mezza forma di formaggio, o ancora un mazzo di cicorie di campo. E di tutto questo non si mancava di ringraziare il buon Dio e la divina Provvidenza.
Quel superfluo che oggi abbonda non c’era. Intendo dolci, alimenti raffinati e spesso anche frutta. Ricordo ancora il libretto dalla copertina nera. Conteneva la lista delle spese a credito. Non c’erano ovviamente biscottini, caramelle, frutta o mortadella. Solo generi di sopravvivenza, la pasta, lo zucchero, il sale e la conserva venduta sfusa, quel tanto che bastava a colorare la pasta di rosso.
Quella lista sarebbe stata onorata a fine mese, spesso solo parzialmente. A tanta povertà corrispondeva tanta serenità, tanta dignità, ed un diffuso sentimento di fratellanza. Il pane e l’olio non passavano certamente dagli scaffali dei pochi negozi di alimentari. Essi erano il frutto della terra che giungeva dritto sulla tavola e pareva che oltre non mancasse nulla. Di questa povera ed umile elargizione non si poteva non ringraziare ancora una volta il Signore.
Per le sventure poi non restavano che due risorse: il pianto e la fede, e con la fede una rassegnazione che sembrava incrollabile, granitica, stampata su quei volti precocemente disfatti dal tempo. Molti non erano mai usciti dal paese. Per loro il mondo quasi non esisteva, si fermava là dove le case cedevano il passo alla vegetazione arsa dal sole della lunga estate. Avrebbero potuto almeno osservarlo timidamente dallo schermo di un televisore. Ma non esisteva neppure quello. In quell’anfratto aspromontano non riuscivano a penetrare nemmeno le onde radio. Solo molto più tardi fu realizzato un rudimentale trasmettitore.
Insomma, le storie, tante storie che vi si consumavano morivano con i protagonisti in quelle serate ventose che si concludevano alla fine lungo il sentiero per il cimitero. Altre storie seguivano percorsi diversi che si chiamavano America e Australia. Queste sì storie tragiche, perché si partiva di notte tra pianti e disperazione con l’assoluta certezza di non poter tornare mai più indietro. Anche in questo caso era come morire. Per tanti altri del paese si era persa perfino quella voglia di riscatto, perché il loro futuro si era irrimediabilmente cristallizzato su quelle pietre che la fiumara trascinava a valle, su quegli oleandri gelosi che sbarravano la strada ad ogni tentativo di fuga. Il tempo scandiva svogliatamente le ore e i minuti. Era così per tanti paesi, per tutto il sud, forse dappertutto, in quel dopoguerra che ora esigeva uno scatto di rivincita morale ed economica.
Quando sono venuto al mondo mi sono trovato davanti un padre, una madre, una nonna, un fratello che mi aveva preceduto ed una cugina poco più che adolescente. Ho appreso da subito che la famiglia normale poteva e forse doveva essere inevitabilmente composita. La presenza dei genitori era scontata, ma non troppo se considero che mio padre era già destinato a rimanere un eterno emigrante. Tuttavia, ho vissuto sempre con l’idea che lui fosse sempre presente perché sentivo che c’era anche quando non era visibile fisicamente al mio sguardo. La nonna era rimasta vedova da più di un decennio e mia madre assolutamente l’aveva tenuta con sé con grande soddisfazione di mio padre. Anzi, tra suocera e genero si era stabilito un legame così forte da trasparire evidente in ogni circostanza.
Non per nulla quando la nonna morì mio padre, allora lontano da casa, ebbe un segno: sentì nella sua stanza appena sveglio come se qualcuno avesse accartocciato un foglio di carta, metafora della morte. Fu lui a raccontarmi in seguito questa circostanza.
Anche la morte di mia madre, del resto, fu prodiga di segnali che ne presagivano il distacco. Avvenne in una corsia di ospedale. Di là dal vetro mio padre era mutacico, avvolto nei suoi pensieri, dignitoso e immobile fino a quel bip che gli annunciava la fine. Da lì in poi mio padre invocò di continuo la morte. Ma dovette aspettare quattro lunghi anni in una condizione di reclamata autonomia, perché non voleva assolutamente che la sua solitudine esistenziale potesse coinvolgere emotivamente la serenità dei figli.
Lui non scelse soltanto un mese invernale per andarsene, ma addirittura lo fece nel bel mezzo dell’atmosfera natalizia. Si addormentò per sempre l’antivigilia di Natale su un letto di ospedale senza farsi accorgere da alcuno. Stile di grande riservatezza e dignità. E così, mentre il mondo in stile laico e dissacratorio si preparava al tradizionale cenone lui raggiungeva il suo posto nel loculo accanto a mia madre forse per festeggiare con lei finalmente il suo vero, autentico Natale. Meritava un applauso. E lo ebbe proprio mentre un muratore del cimitero lanciava con la cazzuola l’impasto di cemento verso l’ultima fessura che lo esponeva al mondo.
Ho scritto prima che alla mia nascita, oltre i genitori, la nonna e un fratello ho trovato in casa una cugina. Certo non mi ero posto il problema chi fosse per me. L’ho vissuta come una sorella maggiore e quindi come un componente della famiglia a tutti gli effetti. Non era necessario sapere altro. Era un po’ irrequieta e talvolta anche un po’ ribelle. Non so in quale momento della mia crescita mi è stato spiegato che in realtà lei era rimasta orfana di madre ed era stata affidata in un primo tempo ad una zia materna che viveva in Francia. Da lì, respinta dopo alcuni anni, i miei genitori appena sposati la presero con sé, prima ancora che avessero un figlio. Il padre, fratello di mia madre, non era in condizione di sostenerla. Le sue manifestazioni comportamentali erano state interpretate dalla zia come l’effetto di tratti caratteriali negativi. E questa convinzione fu il vero motivo del suo allontanamento.
I miei genitori e particolarmente la nonna superarono in questa circostanza ogni pregiudizio e l’accolsero in casa come fosse la prima figlia di altri cinque che sarebbero arrivati dopo, tutti maschi. Forse avevano intuito bene che perdere una mamma è una delle più gravi e insostenibili sofferenze. Lei, questa bambina, aveva visto morire sua madre all’età di sei anni. Nella sua mente questo evento aveva inevitabilmente assunto il significato di un abbandono, un torto subìto, un’aggressione ai suoi innocenti e irriducibili bisogni. Era giustificata una reazione di rabbia, un’esplosione di rancore verso tutti, verso il mondo, verso la vita. Aveva perso il suo contenitore per la seconda volta. La prima volta le era rimasta almeno la superstite possibilità di continuare a possederlo in una condizione esistenziale di reciprocità. Ma adesso, con la sua morte, era sparita anche questa. Con la mamma era scomparsa per sempre una parte di sé.
Una ferita, una menomazione insanabile. Il rifiuto successivo della zia, sostituta della madre, aveva avuto in lei il senso di una ulteriore perdita, l’approfondimento di una ferita ancora aperta e sanguinante. L’accoglienza nella mia nascente famiglia poteva costituire dunque per lei l’atto riparativo che avrebbe evitato un suo pericoloso e definitivo naufragio.
Caro nipote, posso dirti che per me la nonna materna fu un’importante figura di riferimento. La sua sola presenza era più loquace delle parole. Il suo saio nero lungo fino a terra, il suo viso segnato da rughe profonde, il suo sguardo tenero e, a un tempo, intenso mi raccontavano tutto il suo passato: il suo precoce matrimonio, gli stenti di una povertà vissuta con grande dignità e decoro, l’affettività sparsa a piene mani nell’ampia cerchia di parenti e conoscenti, il forte senso religioso e il rispetto degli altri così tenacemente innestati nel suo genoma.
Non le restava proprio nulla da esprimere con le parole. Non mi ha mai detto nulla del nonno. Non mi ha mai raccontato il suo dolore quando i figli più grandi partirono per l’America e lei non li vide più. Non mi ha mai accennato di quando sulla tavola per il pranzo c’erano solo poche pannocchie arrostite al fuoco o qualche misero piatto di cicoria di campo che la vicina di casa le aveva portato in dono. La sua lezione fu per me la sua viva testimonianza: modestia, moderazione, silenzio, generosità.
Mi sembrò si fosse incaricata di prolungare la sua vita fino ad assolvere il suo più importante compito, quello di aiutare mia madre che avrebbe avuto, oltre ai primi tre figli, due gemelli. Quando questi giunsero a un anno e mezzo di età, sentì che allora e solo allora poteva andarsene. Morì con grande riservatezza e con grande dignità, senza nessun lamento, una fredda mattina di dicembre. Aveva chiesto solo che giorno fosse, quasi per assumere piena consapevolezza che quello era proprio il giorno giusto e designato dell’addio. Solo quando ebbe da mia madre la risposta: “è mercoledì” lei si addormentò per sempre.
Anche il pianto di mia madre fu contenuto, silenzioso, premuroso per i figli che ancora dormivano beati. L’inverno ha accompagnato molte partenze nella mia famiglia, come se il tempo inclemente e il rigore dell’aria pungente e gelida fosse la cornice più idonea a dare il senso del distacco e del lutto. Fu così anche per il nonno molti anni prima. Era mulattiere. Era un uomo taciturno e schivo. Gli si addiceva proprio il mestiere al suo carattere. Lui scelse il mese di gennaio per andarsene, e lo fece mentre si apprestava a salire ancora una volta sui dirupi scoscesi e impervi dell’Aspromonte. Non ho mai saputo immaginare come egli fosse realmente, perché nessuno me ne ha parlato, quasi per aderire ad un suo desiderio testamentario. Forse sarà stata anche una mia negligenza non chiedere di lui alla nonna, di non ottenerne per me un qualche piccolo ricordo che restasse per sempre nella mia memoria. Eppure, portava il mio stesso nome.
Per questo a volte mi sembra di vederlo nei miei gesti, nel mio comportamento che nessuno mi ha mai dettato in quella solida formazione adolescenziale che ho ricevuto. Una figura antica, così lo considero, che ancora oggi mi suggerisce moderazione e riservatezza. Di queste stesse doti ovviamente era portatrice anche mia nonna. Ma in lei ho visto impresso in modo palese e più deciso un altro grande valore: il forte sentimento religioso.
Per una forzata, lunga assenza di mia madre, fu lei a prenderne il posto. Assolse così bene il suo compito da non farmi accorgere di nulla, da sottrarmi ad ogni minima manifestazione di gelosia o di rimpianto. Dormivo perfino con lei. Sentivo il suo abbraccio rassicurante quando mi assalivano gli incubi notturni.
Mi svegliavo piangendo e per lei la soluzione era unicamente quella di portarmi in chiesa a bere il vino residuo nell’ampollina a messa finita. Credenza o superstizione che fosse pareva così essersi risolto tutto. Immancabile la preghiera della sera. Era appena buio e in paese ancora si udiva il vociare della gente che tardava a rincasare e noi eravamo già a letto. Qualche vicino di casa osservava che noi “andavamo a letto con le galline.” Ma questo era il nostro orario, questa la nostra regola.
Ricordo quella flebile fiamma della “lumera” che sembrava spegnersi ad ogni piccolo movimento d’aria che si intrufolava dalle tante fessure degli infissi. Subito dopo sembrava riprendere vigore e disegnare strane ombre sui quattro muri anneriti dal tempo. La loro visione mi faceva rabbrividire di paura e subito stiravo la coperta a coprirmi completamente il viso.
Avremmo fatto l’alba svegliati dall’allegro scampanellio di un gregge di pecore che partiva per l’Aspromonte. Davanti la nostra casa faceva ogni mattina la sosta di rito per assicurare le richieste di latte munto davanti all’acquirente. Era questa una garanzia assoluta di bontà e freschezza. Nel lento svolgersi di quelle giornate assolate regnava uno strano silenzio. Si udiva di tanto in tanto il martellio del fabbro che forgiava il ferro o la voce discreta di qualche passante che interloquiva in un occasionale incontro.
Nella quiete domestica risuonavano sovente ben altri discorsi: “Quando sarai grande diventerai sacerdote e così potrai dirmi molte Messe.” Di chi poteva essere questo ambizioso progetto se non di mia nonna? E a chi si rivolgeva se non a me? Non so perché a me e non a miei due fratelli. Per lei era divenuto un ossessivo richiamo che nasceva indubbiamente dalla sua profonda sensibilità religiosa e dalla sua incrollabile fede. Un ritornello che con il tempo aveva finito di strutturare nel mio animo una inspiegabile quanto ferma vocazione sacerdotale. Poi in realtà le cose si svolsero diversamente, ma certo non per mia volontà.
I miei nonni paterni li ricordo sempre là, in quel vecchio tugurio a due piani in compagnia di due tartarughe centenarie. Erano l’immagine della pace e della serenità. Non andavo frequentemente a trovarli, ma sapevo che essi erano là, dignitosi e composti come appartenessero a tempi ancora più antichi. Sul pianerottolo che completava una precaria scalinata di pochi gradini, appena fuori l’uscio di casa, mio nonno sostava volentieri a godersi la sua sigaretta di stramonio dopo una giornata passata a pascolare le capre. Diceva, giustificandosi, di trarre beneficio per i suoi problemi asmatici.
La nonna paziente la ricordo intenta a filare la lana. Era certamente più loquace del nonno, più disponibile a raccontarsi. Lei vantava una discendenza di donne che avevano il dono di guarire con la manipolazione le fratture delle ossa. Anche lei aveva ereditata questa capacità, che metteva a frutto con un dichiarato spirito di carità evangelica. Il nonno portava sul volto i segni della perdita di ben due fratelli nella Prima guerra mondiale. Uno di essi si chiamava Francesco. Perciò quando nacque mio padre, dopo aver rispettosamente chiamato Rocco il primo figlio in onore di suo padre, gli diede nome Francesco.
Lui, mio nonno, si era rifiutato di arruolarsi perché era sicuro di finire come i suoi due fratelli. Si era dato alla macchia in Aspromonte per un breve periodo e fu, alla sua maniera, un obiettore di coscienza. Questi nonni paterni furono i nonni della mia fanciullezza. Anch’essi scelsero un mese invernale per il loro addio.
Ero da qualche mese in collegio quando mi giunse la lettera che mi comunicava la loro morte. Fu precisamente nel mese di febbraio. Se ne andò prima la nonna e il nonno non resistette a restare da solo, a sopravvivere alla sua compagna di vita. Forse lo reputava un torto o una colpa. E così decise di morire appena cinque giorni dopo, benché fosse stato accolto fin dal primo giorno in casa nostra.
Questo triste finale mi colpì molto. Mi rivelò tutta intera la loro grande considerazione per quell’amore di coppia che avevano mantenuto in vita e avevano rimarcato nel loro comune uscire di scena. Una rara testimonianza del valore della famiglia e della solidità della loro unione.
Mio caro nipote, nel raccontarti queste piccole storie immagino di trasmettere a te da quali radici nasce anche la tua storia. Trovo indispensabile che tu le conosca queste radici perché inevitabilmente esse hanno lasciato il segno su quelle misteriose eliche che rappresentano il codice della tua vita, e perché se non le lasciassi qui scritte forse si perderebbero e non ne verresti mai a conoscenza. Una perdita insanabile!
Questo spazio dialogante nonni-nipoti, lo voglio ribadire ancora, è oggi più che mai vitale per un mondo che sembra procedere in modo sbandato e confuso, senza riferimenti credibili e con un vezzo crescente, quello del negazionismo, che censura le tragedie del passato e si proietta verso un ottimismo maniacale e avido di edonismo. Io invece sono qui a sfogliare con te qualche pagina del nostro passato per attingervi conoscenza e saperi antichi, per riportarne il giusto senso della vita e fiutarne i valori più autentici, i valori-guida per il tuo futuro.
Per raggiungere questo obiettivo non voglio di proposito limitarmi a quanto ho scritto sulle mie e tue radici, che seppure modeste e fragili hanno dischiuso un mondo di povertà, di solidarietà, di sentimento religioso, di modestia, di sofferenza accolta e vissuta in piena armonia. Voglio estendere gli orizzonti anche a quel mondo più vasto che ha rappresentato il contesto socioculturale in cui sono nato, sono cresciuto e ho costruito i miei personali progetti di vita.
Nelle due principali istituzioni formative, la scuola e la famiglia, vigeva allora un’etica ben strutturata, salda, coerente, che segnava il limite ben definito tra il consentito ed il non consentito. La scuola rappresentava la sola via di riscatto dalla povertà e dalla emarginazione. L’abbandono scolastico era riconosciuto come una piaga da debellare. L’insuccesso scolastico non costituiva il segno di un fallimento totale ed irreversibile, ma semmai uno sprone per un maggior impegno ed una migliore vigilanza, particolarmente della famiglia.
Il lavoro era un valore primario, a prescindere dalla tipologia, anzi quello più modesto appariva il più rispettabile, ancor più se i sacrifici ad esso connessi erano evidenti e pesanti. Su tutte le vicissitudini della quotidianità proiettava il suo deciso influsso il valore della religione. In funzione di essa si giustificavano gli eventi, anche i più dolorosi, come fosse un unguento riparativo capace di sanare ogni ferita. Questa concezione ben salda in quella cultura restituiva senza dubbio alla persona quella capacità di tolleranza e resilienza indispensabili ad una serenità che oggi parrebbe disarmante e ingiustificata. Finiva con l’essere una vera e propria filosofia di vita.
Ma ciò che era conservata saldamente e gelosamente era la dimensione del tempo e dello spazio. Il tempo si poteva contare sulla base di quei rintocchi che le campane della Chiesa sembravano diffondere sui tetti delle case, quasi per raggiungere tutti. Annunciavano ora l’Angelus a mezzogiorno, ora l’Ave Maria serale a chiusura di una giornata faticosa e spesso ingrata. Era davvero lento quel tempo e nessuno osava inseguirlo. Nessuno dichiarava di non averlo. Come anche lo spazio stesso pareva non soffrire dei luoghi angusti e solitari, delle viuzze strette che davano la suggestione di contenerti tra due file di case sempre aperte e disponibili. Lo spazio non aveva l’ambizione di oltrepassare quel confine oltre il quale c’era la marina, un mondo diverso, troppo dispersivo. A cosa poteva servire raggiungere quegli spazi incerti e cangianti, occupati da persone sconosciute e restìe a guardarti in faccia?
Meglio la sicurezza di esserci tra le case, tra gli affetti di sempre, tra le buone maniere di chi garantiva un saluto e un sorriso. E poi, anche la povertà diveniva più tollerabile e meno amara qui. Forse per quella congenita solidarietà che nasceva proprio dai bisogni e dal senso del reciproco donare. Unico superstite legame con il mondo esterno quella vecchia corriera che, superando le ultime propaggini aspromontane, scendeva faticosamente alla marina per poi fare ritorno entro il pomeriggio. Anch’essa sembrava non avere fretta. Rallentava negli ultimi tornanti senza concedere nulla al previsto orario di arrivo.
Chi aveva fretta qui era soltanto il sole che anche in estate non vedeva l’ora di nascondersi dietro la montagna altezzosa e fragile concedendo abbondante spazio alle ore serali, sempre ventose e melanconiche. Quel vento spazzava simbolicamente gli affanni e le vicissitudini del giorno e induceva al rientro in casa per un meritato riposo.
Caro nipote, il mondo che ti ho descritto in modo sommario, ma – ti assicuro – senza enfasi, ovviamente non c’è più. È scomparso assieme a quel bambino che non conosceva internet, tv e smartphone, né poteva mai immaginarli, fosse anche con la più accesa delle fantasie.
Quel bambino non conosceva nemmeno il mare. Portava il grembiule nero ed il fiocco azzurro quando andava a scuola, e il pomeriggio era là a fare i compiti senz’altra distrazione che un pallone sgonfio da rincorrere nel breve tratto di strada attorno alla casa. Ora quel bambino è il tuo nonno, catapultato in un mondo così diverso e così inquieto. È un nonno preoccupato che ti scrive con l’ansia di farti comprendere come sulla rotta che sta seguendo questo mondo non potrà il tuo futuro non essere gravido di complessi problemi esistenziali prima che sociali.
Quell’antica enclave del mio paese, quella bolla geografica che conteneva e coltivava inestinguibili valori è scoppiata estendendosi a dismisura verso orizzonti molto lontani. Anzi essa stessa è divenuta il centro del mondo perché nel web non esistono confini e lo spazio sembra non avere più limiti. La globalizzazione non è un processo artificioso, è l’espressione di un villaggio globale che avendo reso illimitati gli spazi ha contratto i tempi, dove ci si può parlare, si può dialogare, ci si possono scambiare foto, dati e merci con grande facilità e speditezza. È la conseguenza di una comunicazione nuova, profondamente sovvertita rispetto al passato e di una caduta di barriere che rende gli spostamenti rapidi ed agevoli.
La dimensione spazio-tempo, che negli anni ormai lontani rappresentava un attributo rigoroso dell’esistenza, è così divenuta fluida al punto che rincorriamo oggi una velocità sempre più elevata e un tempo che appare sempre più insufficiente. Il rischio tra queste estreme elasticità, che rendono gli spazi dilatati all’infinito e i tempi variabili fino a richiedere sempre più tempo, è quello di generare ansia, irrequietezza, intolleranza da una parte e dall’altro sentimenti di onnipotenza.
L’uomo è giunto a misurare dimensione e distanza del buco nero al centro della nostra galassia, a conquistare lo sguardo oltre i suoi confini, ad accorciare i tempi degli spostamenti terrestri, a far viaggiare i messaggi con la velocità del suono. Tutto questo si va traducendo nel cervello dell’uomo nella suggestione di poter dominare il mondo e con esso le sue storie di conflitti, incomprensioni, sofferenze. Insomma, un superuomo che non ha ostacoli dinanzi a sé, capace di creare la vita in laboratorio, di relazionarsi con l’alterità in modalità oggettuale, di anestetizzare ogni stimolo dolorifico, di esorcizzare la morte prevenendone l’esito, di utilizzare la strategia dello scarto per eliminare tutto quello che sembra non servire più.
Qualcuno pensa, ad esempio, che anche i vecchi, infermi o con gravi limitazioni, possano non servire più. È l’arroganza di non avere più bisogno di nessuno, di poter fare a meno delle proprie radici e della propria storia, di poter autonomamente guidare il proprio destino non lasciandolo possibilmente in mano ad alcuno, nemmeno a un improbabile dio, tantomeno ad una alterità insidiosa e spesso nemica.
Si giunge così alla sacrilega cultura dell’eccesso, al culto del potere, alla farneticante ricerca dell’apparire, all’esaltazione del dio-denaro, all’egoismo ed all’egocentrismo più spinto. Tutto, dunque, è fluido ed incerto: i valori, i principi etici, lo spazio, il tempo, l’insopprimibile differenza di genere che garantiva finora la propria indiscussa identità.
Sì, anche la decisa appartenenza ad un genere è divenuta oggi incerta, con il maschio che emula ossessivamente la femmina e, di rimando, questa il maschio. La sessualità appare in tal senso sovvertita e vissuta clamorosamente dentro comportamenti ambigui che disorientano e rendono fragile perfino la struttura della famiglia. Un’istituzione, questa, che nel prossimo futuro potrebbe correre il rischio di vacillare rovinosamente.
Caro nipote, tu, figlio di questo tempo, senti che la tua mente conquista decisamente estreme performance nella sfera intellettiva ma subisce purtroppo nella sfera emozionale una progressiva condizione di fragilità, capace di ricacciarti nei crinali oscuri del disturbo psichico. Questo io osservo in modo chiaro. Si tratta, a pensarci bene, di un processo schizofrenico che da una parte ti assicura il dono di una intelligenza crescente e dall’altra impoverisce il mondo delle tue emozioni e del tuo equilibrio emotivo-affettivo.
Il punto è come fare per riconsegnare il giusto ruolo a questo mondo emozionale, reso povero da un inevitabile ed ingiusto appiattimento. Tutta colpa delle relazioni interpersonali che preferiamo costruirle oggi in modo virtuale a nostro piacimento per soddisfare principalmente un nostro esagerato narcisismo.
La realtà virtuale ci affranca dalle sbavature della vita, dalle impreviste svolte destabilizzanti dei nostri percorsi, dagli stimoli dolorosi nei confronti dei quali sviluppiamo una tolleranza zero. Allora sono qui a dirti che devi riappropriarti di quella irriducibile ed intransigente dimensione umana entro cui tutto è relativo, tutto provvisorio, tutto incerto. Particolarmente il dolore è elemento fondante del vivere quotidiano.
Nell’incessante sfida alla vita esso è il rischio più prossimo ed il meno evitabile. Bisogna correrlo con la fierezza e la dignità di chi non si arrende, ma prosegue la lotta per mantenere vivo e stimolante il senso del proprio esistere.
Caro nipote, ho fatto esperienza che c’è una strada percorribile adatta ad affrontare ogni peso esistenziale che sarai costretto a sostenere: la strada di una convinta e fervida spiritualità. Non si tratta di un approfondimento scolastico, né di una teoria da indagare, né di una esercitazione da svolgere. La spiritualità è legata a un dono che si chiama fede che consente di poter avere lo sguardo lungo, oltre gli orizzonti esistenziali, verso un mondo altro che si identifica con la trascendenza.
La fede, dunque, è un salutare incidente che colpisce d’improvviso o, talvolta, in modo progressivo ed inavvertitamente il percorso esistenziale dell’uomo guidandolo verso una lettura dell’immanenza imperfetta e precaria in contrasto con la trascendenza perfetta ed eterna. L’uomo percorre i sentieri imprevedibili della sua storia e non mancherà mai di trovarsi impantanato prima o poi sulla via di Damasco senza rendersene conto. È qua, su questa via, che si gioca il suo destino, quando potrà o non potrà ascoltare la voce salvifica di un Dio che pone forte e a sorpresa il quesito ultimo e definitivo. Tocca all’uomo rispondere.
La fede è questo dono-proposta che si offre all’uomo indipendentemente del suo stato e dei suoi comportamenti. E c’è un momento ben preciso per accoglierlo o per rifiutarlo. È come un vento, questo dono, che soffia spesso in modo impercettibile ed imprevedibile sugli eventi della vita per risvegliare la coscienza, mettendola in crisi. Suggestiva la frase evangelica: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va.”
Ho sempre pensato a questo carisma che sorprende, perché investe il ricco e il povero, l’emarginato, il disperato, e preferibilmente chi crede in modo spavaldo e spocchioso nella propria autosufficienza. Perciò esso è in ogni caso capace di sorprendere. Il rischio è solo quello di essere distratti, di non accorgersi di questo momento irripetibile di grazia. Questo rischio faceva dire a sant’Agostino: “Timeo Dominum transeuntem et non revertentem.” “Temo che il Signore passi e che poi non ritorni più.” Sarebbe davvero una tragica distrazione.
I rumori del mondo oggi sono divenuti più assordanti, forse più ammalianti, certamente più capaci di spargere attorno all’uomo confusione e disorientamento. Non è questo il clima ideale per avvertire quell’alito di vento soprannaturale che porta con sé la chiamata divina.
Caro nipote, serve il silenzio rispettoso ed umile per captare la voce misteriosa di quel richiamo al senso ultimo delle cose. Soltanto così la ricerca di Dio diviene possibile e fruttuosa. Così si può comprendere che essa urge non solo per sedare le nostre ansie e le nostre paure, ma anche per giustificare la nostra esistenza con le sue immancabili e spesso ingiustificabili sofferenze. Mi vengono sempre in mente a questo proposito le parole di Giorgio Caproni, poeta del Novecento: “Prego non perché Dio esiste, ma perché Dio esista.” Se Dio esiste, l’uomo cessa di sentirsi dio.
Nel clima profondamente laico e materialista del nostro tempo, spinto dalle sue crescenti capacità scientifiche e tecnologiche, l’uomo ha indubbiamente operato questo assurdo transfert. “Se ho la possibilità di organizzare in laboratorio strutture biologiche viventi allora posso essere considerato creatore.” Da qui il tragico equivoco di aver assunto un livello superiore per il quale viene superato e misconosciuto definitivamente il vero Creatore.
Questo blasfemo scambio non ha certamente inaugurato un tempo di serenità e di gratificazione. Piuttosto un tempo di inquietudine e disperazione. Allora, la preghiera “… perché Dio esista” dovrà essere davvero la preghiera di tutti quelli che non credono, e non solo di Caproni.
Sul piano psicopatologico e psicodinamico la percezione di un sentimento umano di onnipotenza ha invaso come un fiume in piena il Super-Io di ciascuno di noi rendendolo ipertrofico, straripante, invadente, presuntuoso. Cosicché, l’ambizione di un perfezionismo esasperato, la fede assoluta nelle proprie capacità, rimandano direttamente alla possibilità di fare a meno dell’alterità, soprattutto quando essa potrebbe identificarsi in Dio. La visione della vita integra in tal modo un’ottica estetica ed etica nella sua più rigorosa ed intransigente espressione.
Non possono esistere curve nel sentiero della vita tali da rendere imponderabile il futuro, ma solo linee rette che ne svelino in modo preciso e in lontananza ciò che si programma. Né possono esistere fallimenti di alcun genere o semplici contrarietà. La dimensione del dolore è esorcizzata o negata. Il termine sconfitta viene abolito dal dizionario dell’esistenza umana.
Si giunge così alla più totale intolleranza alle frustrazioni. Il rifugio è il web dove si è sempre connessi, dove abbondano gli “I like”, dove la ricostruzione e la narrazione del proprio esistere obbedisce a quel sentimento di onnipotenza che rende l’uomo vincitore su tutto. È smarrito definitivamente il senso della fragilità, del sacrificio, del limite: attributi di quel “Noi” che, malgrado tutto, anticipa l’Io contaminato dal suo insensato narcisismo.
All’interno di queste dinamiche profonde matura il disturbo ossessivo-compulsivo o fobico-ossessivo, espressione dell’ansia e della paura di perdere il controllo su tutto, di essere bersaglio di un imprevisto evento avverso, di non riuscire a dominare una propria pulsione. La realtà, invece, impone spesso queste condizioni, che in una dimensione umana non sono evitabili. Insorge allora lo sconforto, il sentimento cocente di inadeguatezza, la scoperta dei propri limiti fino ad allora sconfessati. Si creano così tutti gli aspetti sintomatologici di una depressione clinica, un crinale oscuro ed incerto che giunge ad insinuare l’inutilità del vivere quotidiano.
A fronte di queste dinamiche il recupero di un sentimento religioso, il ritorno ad un Dio che offre una riconsiderazione dei percorsi umani accidentati e dolorosi, rappresenta la possibile via d’uscita dalla disperazione esistenziale.
Caro nipote, se porto alla tua attenzione quella che può essere definita la suprema sofferenza dell’uomo, cioè la sua morte, mi risulta agevole poter evidenziare che essa in una visione laica riduce la vita ad un inutile esercizio di lotta alla sopravvivenza. Un lungo rosario di vittorie e di sconfitte fino al momento in cui sarà la morte alla fine a cantare vittoria. In una visione trascendente invece ciò che cambia radicalmente è il senso della sofferenza. Da un suo significato di condanna, di castigo, di punizione diviene paradossalmente una circostanza positiva, un dono di cui fregiarsi in totale accettazione.
Un mistico come San Pio da Pietrelcina diceva: “Soffro quando non soffro”. In questa ottica scompare il problema dell’eutanasia e di altre strategie evitanti il dolore in generale. È dunque solo la visione cristiana che consente una radicale giustificazione della sofferenza e ne esalta al contempo il senso della partecipazione alla sofferenza dell’Uomo-Dio. Il Cristo storico ha riabilitato la sofferenza ed ha allegato ad essa l’aspetto redentivo in una corretta visione escatologica. Come dire che la via della croce è e si identifica in ogni caso con la via della salvezza.
Naturalmente questa è una strada agevolata per affrontare il problema della condizione umana segnata da mille circostanze che disegnano la complessiva fragilità umana, la precarietà del tempo e la sua dannata imponderabilità che non consente progetti dal certo respiro. Si tratta di una risorsa riservata a chi crede e a chi nel silenzio cerca di intercettare il flebile sussurro o “il vento impetuoso” diffusi dalla grazia e il mistero. Ma io non credo che questa grazia sia inibita ad alcuno sulla terra, perché in ogni caso per tutti può realizzarsi quell’incidente paolino sulla via di Damasco.
Proprio Paolo scriverà poi di quella grazia che ha colpito deliberatamente la sua fragilità, divenuta improvvisamente un suo vanto: “Mi compiaccio delle mie debolezze.” Fuori da questi percorsi ovviamente c’è la strada in salita di una maturazione umana che guarda all’avventura esistenziale in un quotidiano esercizio di superamento degli ostacoli al proprio progetto di vita. I rischi sono molteplici.
L’ambizione ad un perfezionismo dettato da una cultura corrente e che partorisce quotidiane intolleranze alle minime frustrazioni spinge verso soluzioni estreme di evitamento. La via della droga, ad esempio, è una di quelle assurde soluzioni che le generazioni degli ultimi decenni hanno praticato, e che continuano a sostenere nell’equivoco che possa anestetizzarsi ogni stimolo doloroso della vita con un semplice ricorso a delle sostanze. Eppure, per molti è la via della morte e del proprio annientamento morale.
Si costruisce una relazione alternativa che simbolicamente si propone come una relazione piena e totalizzante dove viene annullato il rischio di perdere perché la relazione con la sostanza integra una relazione simbiotica. Si sfugge così alle relazioni umane dove invece il rischio di perdere è elevato, dove l’incomprensione e la distanza segnano dolorosamente il possibile fallimento del proprio progetto. Si sfugge a quella mirabile suggestione emozionale della reciprocità, dove il vallo di separazione è espressione diretta del sofferto incontro che non può non svolgersi nel contesto fluido dei propri limiti e della propria ed altrui fragilità.
Anche il ricorso incontrollato all’uso di psicofarmaci e dell’alcol rappresenta la medesima strategia di evitamento degli affanni e dei problemi che l’esistenza impone. Si tratta, in conclusione, di soluzioni che creano severa patologia psichiatrica. Evito qui di aprire a tal proposito un altro doloroso fronte emergente, quello delle nuove dipendenze, ludopatia, shopping ed altre manifestazioni compulsive. Un capitolo esistenziale fatto di tragedie familiari, drammi quotidiani nel segno della disperazione entro la quale sono davvero scarse le vie di uscita.
Quando si determina un tentativo caparbio di negazione della sofferenza in generale, e quindi anche della morte in particolare, si dischiude per l’uomo la via della disperazione, del conflitto profondo, fino alla rinuncia della stessa vita in un sussulto di rabbia verso chi quella vita ha donato. Albert Camus non riusciva ad arrendersi alla fede in Dio perché non sapeva spiegarsi perché i bambini muoiono. Una sofferenza senza ragione e su persone indifese.
Come senza ragione è la sofferenza di coloro che invocano la libertà del fine-vita. – Un uomo in condizione vegetativa cosa può rappresentare? Perché non può essere libero di decidere in autonomia la sua fine?
Eppure, per chi crede quel letto di dolore rappresenta la croce del Cristo, e quindi la partecipazione ad un progetto di salvezza definitiva. C’è dunque chi quel letto tiene in odio e chi accetta di poggiarvisi in una indiscussa condizione spirituale di privilegio.
Caro nipote, lo vedi come cambia la prospettiva nell’angusto passaggio tra due opposte visioni? Se un uomo ha la capacità ogni tanto di voltarsi indietro nella propria vita, allora potrebbe accorgersi che eventi inspiegabili si raccordano in una dimensione progettuale costruttiva e tutt’altro che banale. Sono i puntini di Steve Jobs che si ricongiungono in una costruzione assolutamente significativa e quasi provvidenziale.
La lettura di chi pretende assegnare un senso agli eventi nell’hic et nunc del loro verificarsi è una lettura miope e spesso non attendibile. Anche avere un rifiuto da chi lo si vede come il proprio elettivo oggetto d’amore corrisponde oggi ad una sofferenza intollerabile.
Si apre così il sipario su un altro degli inquietanti fenomeni del nostro tempo, il cosiddetto femminicidio. È un neologismo che certo non era conosciuto ai tempi della mia giovinezza, ossia fino a qualche decennio fa. – Perché il rifiuto da parte di una donna rappresenta un rifiuto cosmico e quindi un fallimento inesorabile e definitivo della propria esistenza? O quella donna racchiude in sé il senso del mondo intero o invece vige l’insostenibilità di una frustrazione minima cui potrebbero contrapporsi mille altre risposte positive.
Nel primo caso non viene considerata l’impareggiabile multiformità e ricchezza delle relazioni umane, nel secondo caso sembra prevalere il proprio sentimento di onnipotenza che molto semplicemente non ammette dinieghi. In entrambi i casi è la via della follia. Sopprimere il proprio esclusivo oggetto d’amore vuol dire sopprimere il suo diniego e contestualmente vuol dire abbattere quel corpo che rappresenta la barriera che si frappone ad entrarvi dentro in un rapporto simbiotico, privo del rischio di perdere. In questa suggestione si abbatte il più delle volte anche il proprio corpo, barriera anch’esso del folle progetto fusionale. Si tratta naturalmente e per fortuna di casi limite che pure sono in preoccupante crescita.
Oltre vi sono comportamenti meno aggressivi e meno visibili che non raggiungono l’onore della cronaca, ma non per questo meno significativi. Sono le mille violenze di chi si misura con l’alterità sempre in chiave conflittuale, come se essa fosse in ogni caso minacciosa e ostile. Talvolta è anche vero.
Penso al bullismo, un altro fenomeno che mette a nudo l’attitudine della società in generale di emarginare chi è più debole e più indifeso. Quando l’adolescente esce dal proprio contenitore familiare, rassicurante e privo di rischi, deve forzatamente entrare in un contenitore più ampio che dapprima è rappresentato dal gruppo dei pari e successivamente dal più complesso e pericoloso contesto sociale. Lungo questo processo esistenziale, non solo inevitabile ma vantaggioso per il proprio progetto di vita, spesso si sviluppano contrapposte reazioni emotive.
O vi si accede nascondendosi nel gruppo o si struttura una posizione di netta diffidenza che interpreta ostilità in ogni atteggiamento dell’altro. Nel primo caso si cerca una totale omologazione persino nell’abbigliamento fino ad una estrema condizione di plagio. Si realizza il rischio di svelare le proprie insicurezze e di predisporsi ad un comportamento ancillare che può giungere a quell’asservimento ed a quella disponibilità a subire violenze e pressioni psicologiche gravi. Un peso intollerabile che talvolta si cela per vergogna fino alla resa, cioè fino ad un ubbidiente atto suicidario.
Nel secondo caso si cade nel burrone della diffidenza e delle relazioni conflittuali che si inverano nella inevitabile e progressiva incapacità dialogica.
Perciò, caro nipote, entrare nel gruppo dei pari o entrare nel contesto sociale implica un saldo ancoraggio ai propri principi etici e la capacità di distinguersi, di andare controcorrente, di conservare una sicurezza interiore poco indulgente alle mode e ai luoghi comuni, di tutelare fino in fondo la propria identità etica.
Comprendo che queste doti debbano essere precocemente garantite da un intervento educativo ed affettivo fin dai primi mesi di vita, un intervento che è dunque appannaggio della famiglia. Si tratta di un intervento ostacolato quotidianamente dai media che vi si frappongono oscurando spesso ciò che giunge dalle presenze parentali, comprese ovviamente le presenze aggiuntive dei nonni che segnano il sentiero di congiunzione tra passato e presente.
Vedi perché ho voluto assumermi l’iniziativa di scriverti questa lettera? Proprio per fissare sulla carta i richiami che ritengo utili per te, mettendoti al riparo dalle sirene ammalianti di una cultura dell’edonismo, dell’egoismo e del borioso e incosciente senso della vita. Ma le insidie di un mondo stravolto e inquieto non si fermano qui.
Hai tenuto in mano fin dalla nascita smartphone, tablet e playstation. Strumenti innocenti all’apparenza, spesso accordati come via di uscita per renderti quieto e buono, per non infastidire gli impegni degli adulti. Strumenti talvolta sostitutivi della presenza fisica di chi avrebbe dovuto badarti. Eppure, da questi strumenti derivano speso danni, oserei dire, irreparabili.
Transitano sul display scene, messaggi, proposte, linguaggi che sfuggono ad ogni doveroso controllo degli adulti. Transita un mondo virtuale tanto menzognero quanto affascinante, un mondo violento e aggressivo nel lessico e nel comportamento, un mondo senza valori e senza regole, un mondo di eterne vittorie e mai di una minima sconfitta. L’altro di cui si ha bisogno profondo si costruisce autonomamente e si propone con una identità, un profilo disegnato per piacere e per esprimere capacità, potenza e perfezione.
Si conferma così la suggestione di una realtà sempre piacevole e performante in cui potersi rifugiare ogni volta che l’esistenza mostra il suo vero volto di fragilità e di inevitabili frustrazioni. Esattamente questo è il percorso insidioso verso l’autismo e la visione delirante della realtà. È il rischio della dimensione psicotica che travolge la modalità di essere-insieme-nel-mondo. Contro questo rischio è necessario realizzare un atteggiamento critico che non può non coinvolgere il mondo degli adulti.
A te io dico: privilegia l’incontro fisico con l’alterità, quello che ti mostra limiti e imperfezioni del bisogno dialogico. Non fermarti al WhatsApp che è un canale di comunicazione tanto utile, ma spesso tanto pericoloso. Leggi negli occhi e nel cuore di chi ti sta vicino i suoi sentimenti veri, le sue ansie, le sue paure. Nella sua gestualità, nella sua postura potrai intravedere l’affascinante sintassi della reciprocità che si fa nel tempo amicizia, amore, condivisione, solidarietà.
Per questo la mia coscienza mi spinge oggi a dire a te in modo conclusivo: fai attenzione a non intraprendere la via degli incontri virtuali, del ritiro sociale, della follia, del disturbo mentale che non sa sintonizzare le tue aspettative spesso ridondanti e l’orizzonte esistenziale che non può per sua natura eludere la fatica di ogni conquista. Anzi, talvolta la vita ti sbatte in faccia un fallimento quasi per metterti alla prova. Rimani saldo al timone della verità. Non vivere mai con la paura di sbagliare, di mostrare agli altri la tua fragilità e il tuo limite. Non disdegnare il pianto quando porti dentro di te un dolore o qualche piccola, immancabile ferita.
Caro nipote, tante altre cose avrei ancora da aggiungere. Ma mi fermo qui. Voglio chiudere consegnando a te due immagini simbolo dell’umanità che si fa debole, anzi dell’umanità che si compiace di ostentare la propria debolezza, dell’umanità che preferisce il silenzio alle parole, dell’umanità che infine eleva ad autentico valore la sofferenza.
La prima è quella di Papa Giovanni Paolo II. Affacciato alla finestra di Piazza San Pietro mostra la sua grave debilitazione fisica, la sua terminale condizione d’incapacità. Fa uno sforzo sovrumano a pronunciare almeno una parola. Niente. La sua bocca torna a chiudersi in una smorfia di dolore. Poi scende il sipario su quella sua fragilità che va ad imbattersi con la fine della sua vita terrena. Il mondo lo guarda e vede proprio nella sua debolezza la sua forza. Ti assicuro, Lui non è mai stato così eloquente come in quella sua dimostrazione afasica.
Il suo successore, Papa Francesco, si fa condurre sulla sua sedia a rotelle. Anche per lui non c’è occasione più espressiva della sua grandezza e della sua autorevole lezione di umanità come in questa pesante menomazione, esibita nel segno della sua dimensione esistenziale, con la dignità che sa assolvere la sofferenza restituendola al suo valore. I potenti della terra, al contrario, si affannano a mostrare il loro efficientismo, la loro forza, la loro performance fisica, i loro successi, la loro invincibile grandezza.
È l’immagine falsa di chi privilegia la spettacolarizzazione della vita e le sue apparenze, dietro le quali inevitabilmente si rischia di scivolare sul franoso burrone di un evidente vuoto interiore.
Quante persone nel loro piccolo emulano i potenti della terra! Quanti giovani avvertono lo smarrimento del loro sguardo che non ha più dove guardare per attingere sicurezza e conforto. Finiscono con il rincorrere spesso una realtà che esiste solo nella bugiarda fantasia del web. Ma la vita è un’altra cosa. E imparare a conoscerla bene ti aiuterà ad uscirne vincente sempre, nel bene e nel male. I nonni hanno questo preciso compito, consegnare ai propri nipoti gli strumenti per navigare sicuri tra questo mondo entrato in confusione. Ed io con questa lettera non ho voluto sottrarmi certamente a questo obbligo che sento di avere nei tuoi confronti.
Tuo nonno Domenico Barbaro (Isernia, Natale 2022)
4 – NONNA MARIA ROSARIA DE RITO DI DIAMANTE (CS)
Caro Tito, vorrei rimandare i nostri gentili lettori a Maria Rosaria De Rito (cosentina residente a Diamante, sulla costa tirrenica, dove sul lungomare ha una boutique di bigiotteria e souvenirs) cui finora abbiamo pubblicato in due differenti edizioni 28 racconti di varia ispirazione: dieci con “Lettera n. 390” del 07 marzo 2022 e poi diciotto con “Lettera n. 413” del 15 luglio 2022. Prossimamente ti invierò altri scritti che l’Autrice dona ogni volta al nipotino Duccio Ballèri (nato a Pistoia sabato 12 dicembre 2022). Nonna Maria Rosaria (sempre ricordando i propri amatissimi nonni) scrive spesso a questo nipotino, primogenito della figlia.
Trascrivo i link sperando che i nostri lettori vogliano scoprire o rivedere i brevissimi e simpatici racconti della nostra originale e veemente scrittrice. Eccoli:
in particolare l’edizione
https://www.costajonicaweb.it/wp-content/uploads/2022/03/2-Maria-Rosaria-DE-RITO-TI-AMO-CALABRIA-MIA-Dieci-racconti-edizione-web-Domenico-Lanciano-per-la-Festa-dele-Donne.pdf mentre questa è la 2a edizione (15 luglio 2022)
<<https://www.ilreventino.it/ce-calabria-per-tutti-ovvero-18-brevissimi-racconti-di-maria-rosaria-de-rito-di-diamante/ >>.
5 – SALUTISSIMI
Caro Tito, sono sicuro che questa lettera-prototipo ed emblematica abbia commosso pure te. Non mi hai ancora detto se hai scritto o meno una simile lettera al tuo primo (e, per il momento, unico) nipotino Leonardo per il quale stravedi (come è giusto che sia). Pensi di scrivergli, prima o poi, una bella lettera confidenziale ed intergenerazionale?… Me lo auguro e te lo auguro, poiché queste particolari ed inusuali espressioni di affetto sono tra le cose più belle della vita.
Quando eravamo bambini ed avevamo i nonni vicini, le “lettere” ovvero “racconti” erano quasi quotidiani … attorno al braciere d’inverno oppure davanti l’uscio di casa, quando era la bella stagione. Adesso, con le nuove esigenze di vita e di lavoro, sono troppi i nonni che hanno lontani tutti o gran parte dei propri nipoti. Pure per questo si rende necessario un diverso modo di colloquiare. Meno male che ci sono le videochiamate! … Ma non bastano. Sono fugaci e di loro non resta quasi nulla. Ci vuole qualcosa che rimanga nel tempo e che possa essere utile pure quando i nonni non ci saranno più. Ecco, una lettera (meglio se un diario di affetto e di emozioni) può essere il dono più prezioso! Un testamento d’amore tangibile che può accompagnarsi pure ad altri doni tangibili come una qualche eredità … a volte basta un oggetto semplice (un orologio, libri, un documento di vita, ecc.) ma anche qualcosa di più consistente. L’amore ispirerà i nonni nel lascito intergenerazionale più affettuoso e duraturo.
Intanto, assieme al dottore Domenico Barbaro, ti ringrazio per la pubblicazione di questa “lettera-prototipo” (n. 439 del Natale 2022) sperando che qualche nonno o i nonni in coppia possano e vogliano scrivere ai propri nipoti quel necessario “travaso” di storie e sentimenti che facciano parte di un’eredità personale e familiare ricco di valori tali che i nipoti siano resi ancora più forti persino al di là della morte. Natale è anche la festa della famiglia; quindi, il dialogo intergenerazionale arricchisce tutti i componenti.
Rinnovo con tutto il cuore gli Auguri per queste festività natalizie 2022 e per il nuovo anno 2023 per te, la tua famiglia (in particolare il nipotino Leonardo), i nostri lettori e per un mondo di Amore e di Pace. Un fraterno abbraccio. Alla prossima.
Domenico Lanciano (www.costajonicaweb.it)
ITER-City, domenica 25 dicembre 2022 ore 18.00 – Natale – Da oltre 55 anni (cioè dal settembre 1967) il mio motto di Wita è “Fecondare in questo infinito il metro del mio deserto”. Le foto sono state prese dal web.