Caro Tito, con questa “Lettera n. 360” del 27 ottobre 2021, sono veramente, ma veramente assai lieto di darti una piccola-grande “esclusiva” storico-letteraria (che spero venga poi ripresa e rilanciata da molti altri siti web, specialmente calabresi). E’ “storica” perché ti descrivo alcuni importanti eventi avvenuti in Badolato 48 anni fa, nelle due estati del 1973 e del 1974. E’ ”letteraria” perché ti sciorino, come panni al sole, sei stupendi racconti scritti in tedesco da Godula Kosack, docente universitaria della allora Germania Occidentale, dove è nata nel 1944 (in piena seconda guerra mondiale). Dobbiamo il loro godimento in italiano alla bella traduzione di Olivia Pastorelli da me sponsorizzata. Intanto, ti sintetizzo i fatti e i personaggi.
1 – A BADOLATO NELL’ESTATE 1973
I due mesi di luglio ed agosto 1973 restano memorabili in Badolato (nei suoi primi anni di turismo di massa e di aperture internazionali) per la lunga presenza di un gruppo di docenti, studenti e intellettuali che da Francoforte (allora in Germania Occidentale) erano venuti a studiare l’emigrazione, specialmente quella dalla Calabria verso il centro Europa di Svizzera e Germania, appunto. Alla guida di tale gruppo c’erano i giovani coniugi professori Stephen Castles e Godula Kosack, sociologi trentenni, i quali avevano pubblicato da pochi mesi il voluminoso (514 pagine) e importante libro “Immigrant Workers and Class Structure in Western Europe” edito dalla Oxford University Press. Tale volume (ancora reperibile nel web) è stato poi pubblicato e diffuso in italiano nel 1976 e nel 1984 con il titolo di “Lavoratori immigrati e struttura di classe in Europa occidentale” (Franco Angeli Editore in Milano).
Proprio poco prima, nel giugno di quel 1973, il noto sociologo prof. Gianni Statera (Università di Roma ora “La Sapienza”) mi aveva dato il titolo per la mia tesi di laurea in filosofia con indirizzo sociologico “Evoluzioni delle caratteristiche socio-economiche di Badolato nel dopoguerra” ed avevo cominciato immediatamente le ricerche sul campo che sarebbero durate per quasi tre anni (servizio militare escluso) fino al 1977. Pure a motivo di queste mi ricerche è stato naturale avere contatti quasi quotidiani con tale gruppo di intellettuali tedeschi, specialmente con Godula e Stephen, ma anche con una certa Monica. Tutti erano assai interessati alle dinamiche sociali di Badolato e della Calabria. Inoltre, ero già proiettato da oltre due anni nella valorizzazione turistico-culturale non soltanto del mio paese natìo ma anche di tutta la costa da Riace a Squillace con il nome di “Riviera degli Angeli”.
Anche per tale mio forte attivismo socio-culturale e turistico ero divenuto “catalizzatore” e “guida turistica” (gratuita) in Badolato e dintorni per chiunque fosse giunto dal resto d’Italia e dall’estero e volesse saperne di più. Spesso portavo i turisti più interessati al prof. Antonio Gesualdo (storico di Badolato) per ulteriori approfondimenti. In mancanza di altri, ero e mi sentivo un “precursore”, in pratica, come la stessa Godula Kosack ha scritto di me nel suo sesto racconto “Dopo quasi quarant’anni” (2011): << Domenico Lanciano era uno degli amici che avevano contrappuntato la mia prima estate a Badolato. Quell’estate l’avevo trascorsa con un gruppo di amici di Francoforte e lui veniva celebrato come un barlume di speranza per un turismo che stava sbocciando in quel paese >>.
La mia disponibilità verso di loro era praticamente totale e non era raro che dessi loro anche prodotti dell’orto e della vigna che i miei genitori coltivavano al fondo di Vodà, proprio al confine con la spiaggia del mare, dove erano soliti venire, distante appena 200 metri dal Lido Due Ruote dove avevano la loro permanente sede di riferimento per loro stessi e anche per chi, come me, li frequentava. Furono tutti gentili con loro a Badolato, dallo stesso sindaco Antonio Larocca e dalla moglie Rina Trovato (attivista dell’Unione Donne Italiane ed organizzatrice in quegli anni proprio della “Festa degli Emigrati) al semplice cittadino che li incontrava salutandoli festosamente, facendoli sentire come a casa.
Tanto è che Godula conclude il suo sesto racconto con questa meravigliosa frase che riconosce e “premia” la proverbiale ospitalità badolatese e, più in generale, calabrese: << Per contro a tutta l’inospitalità in cui mi sono imbattuta in tanti luoghi della terra che ho visitato, questo è un luogo in cui mi sento accettata, che mi restituisce il senso della patria interiore >>. Da questa bella frase (coniata da una amica “turista” assai affezionata come lo è ancora Lei) potrebbe nascere uno slogan per Badolato e per tutta la Calabria: “Badolato e ti senti a casa!” e anche “Calabria e ti senti a casa!”. Oppure “Badolato la tua seconda casa” – “Calabria la tua seconda casa” (facendo pure intendere che qui da noi sarebbe gradito e gradevole avere una seconda casa per brevi o lungi soggiorni).
Dalla bellissima e speciale esperienza avuta nell’estate 1973 con questo gruppo universitario di Francoforte ma anche col regista Mimmo Rafele e la sua troupe del film “Domani” per Rai 2 nel 1973-74, ho poi lanciato sia nel 1973 che nell’agosto 1974 (pure con il ritorno della professoressa Kosack) l’idea promozionale del TURISMO INTELLETTUALE come assai e particolarmente utile e “vocazione” per Badolato (paese d’arte) e la Calabria (vedi, in particolare, il mio articolo INTELLETTUALI A BADOLATO – quotidiano Il Tempo (di Roma) – Cronache della Calabria – 4 agosto 1974). Che cosa non ho ideato e fatto per Badolato e la Calabria!… Così come tuttora, seppur in lontano esilio, mi spendo continuamente per la mia Terra!
2 – CHI E’ GODULA KOSACK
Ecco come si descrive Lei stessa in questo testo del 2013, tradotto dal tedesco con Google. << La professoressa Godula Kosack ha conseguito il dottorato nei primi anni ’70 sulla situazione sociale e politica dei lavoratori stranieri nell’Europa occidentale. La sua ricerca la porta in Calabria nel 1973 e nel 1974, dove vive in prima persona le condizioni di vita che spingono soprattutto i giovani all’estero. Lì ha sperimentato l’amicizia e l’amore, che è ancora vivo dopo oltre quattro decenni. Godula Kosack ha studiato sociologia a Francoforte sul Meno e all’Università del Sussex in Inghilterra. Per più di 20 anni ha insegnato all’Università di Scienze Applicate di Francoforte nel campo del lavoro sociale. Ha fatto la sua abilitazione a Marburg in etnologia sulla Mafa nelle montagne Mandara nel nord del Camerun, a cui non solo ha fatto visite regolari dal 1981, ma dove ha anche vissuto con i suoi figli per parecchio tempo in un villaggio senza elettricità né acqua.
Godula Kosack è madre di tre figlie e un figlio ed è nonna di quattro nipoti. La sua preoccupazione nella vita è comprendere la mentalità delle persone di altre culture e tradurle nella propria cultura.
In tal modo, spera di suscitare comprensione e interesse in persone di altre origini. Ha pubblicato molto sulla Mafa del nord del Camerun.
Condivide “sul campo” anche le sue esperienze con i bambini piccoli insieme a suo marito nel suo diario “Insieme da una zucca” (e-book).
Le sue “Storie da Badolato” sono state scritte nel 1973-74, ma non sono mai state pubblicate prima.
Sono un documento moto personale della storia delle migrazioni. Uno sguardo al presente (2011) completa il quadro.
Oggi (2012) Godula Kosack vive a Lipsia ed è libera docente all’università di Marburgo. Fa volontariato per la scuola e la formazione professionale per ragazze e donne del nord del Camerun >>.
Ovviamente, tante altre interessanti informazioni possono essere lette e “viste” nel suo sito internet << www.godula-kosack.de >> specialmente sul suo lavoro-passione-vocazione di etnografa e di sociologa (direi “accorata” … quasi “militante”). Tra tutti questi dati, messi in vetrina, è possibile trovare un riferimento (tra le Opere pubblicate) proprio ai sei racconti che qui sto presentando a te e ai nostri gentili lettori e che la professoressa Kosack ha pubblicato nel 2012 in “e-book” (libro elettronico-informatizzato) con il titolo: << Addio ancora e ancora: Esperienze di “emancipazione” con donne e uomini calabresi negli anni ’70 >>. Comunque sia, tale edizione (donata a me direttamente dall’Autrice nove anni fa, nel 2012) è scaricabile per intero alla fine di questa “Lettera n. 360” come << ALLEGATO n. 1 >> e presenta i racconti in lingua tedesca con la traduzione italiana di Olivia Pastorelli (che ho provveduto a far fare a mie spese, seppure ad un prezzo di favore, data l’amicizia con interposte persone). Nel presentare brevemente tale “e-book” ecco (tradotto con Google) il testo scritto nel 2012 dalla stessa professoressa Kosack …
<< Godula Kosack ha vissuto la pittoresca Badolato in Calabria all’inizio degli anni ’70, quando il grande esodo dei giovani aveva già fatto il suo corso. Ha avuto modo di conoscere la loro situazione nei paesi “ospiti” Svizzera e Germania, dove hanno vissuto in condizioni difficili. In questo “e-book” sono descritti con sensibilità e commozione i sentimenti di una madre, il patriarcato calabrese, la difficoltà di trovare un lavoro. Quasi quarant’anni dopo, l’Autrice fa nuovamente visita alla famiglia, dove è stata ospite da giovane. I ricordi prendono vita e si sperimentano cose nuove, comprese quelle incredibili … >>.
3 – I SEI RACCONTI DI GODULA KOSACK
I primi cinque racconti – tutti veramente molto belli e significativi – sono stati scritti tra il settembre 1973 e il 1974. Si riferiscono a persone incontrate, a situazioni sociologiche e ad amori nati e vissuti in Badolato negli anni 1973-74 e poi proseguiti in Svizzera e in Germania. Nel sesto racconto (scritto tra il 2011-12) ci sono le sensazioni di un ritorno a Badolato effettuato nell’estate 2011 … “dopo quasi quarant’anni”. Sono praticamente racconti inediti qui in Italia, ad eccezione dei primi due che ho pubblicato nell’autunno 2010 su << www.gilbotulino.it >> (il sito, ora dormiente, fondato nel 2001 e gestito per molti anni dal prof. Pasquale Andreacchio, componente del mio stesso complesso degli Euro Universal 1968-74) e sul mensile cartaceo di Soverato “Punto & @ Capo” diretto dall’amico Pietro Melìa, allora giornalista della sede Rai Calabria di Cosenza.
Come attesta la stessa Godula Kosack, i primi cinque racconti “dormivano” nella soffitta della sua casa di vacanze fino quando, agli inizi del 2010, Le ho scritto per riprendere i contatti che con Lei si erano interrotti dopo l’estate del 1974. Sempre nel 2010 l’ho convinta a tornare a Badolato (dopo così tanto tempo) pure per scrivere, in un sesto racconto, le sensazioni che avrebbe provato. Infatti ne è nato “Dopo quasi quarant’anni” che è davvero emozionante, toccante e persino commovente. Anche solo per questo scritto valeva proprio la pena tornare a Badolato, sebbene dopo quasi quattro decenni di assenza!
Ho cercato di pubblicare questi 6 racconti in un’apposita raccolta cartacea, commentata e intitolata (per scelta dell’Autrice) ANCORA UN COMMIATO. Personalmente avrei preferito intitolarli RACCONTI BADOLATESI. Poi, purtroppo, per vari motivi e seri impedimenti, tale libro (di circa 160 pagine, con uscita prevista nel 2014) si è fermato quasi ad un passo dalla stampa. Ne allego la bozza tipografica ferma all’11 novembre 2013, come << ALLEGATO n. 2 >>, pure come documento umano e tentativo editoriale, assieme al già citato “e-book” che aveva fatto la stessa Godula Kosack, pubblicandolo in internet nel 2012.
Con riconoscenza e stima, sento qui il piacere e il dovere non soltanto di ringraziare devotamente l’Autrice per la preziosa opportunità che mi ha dato di pubblicare i suoi sei racconti, ma di essere grato anche ad Ernesto Forte e alla Grafica Isernina che mi hanno supportato e sopportato per un bel po’ di tempo (dal 2011 al 2013) nel comporre nella sede tipografica di Sant’Agapito (Isernia) il libro che, purtroppo, non ha potuto essere stampato e diffuso come era mio grande desiderio. Come si nota dalla copertina, le 160 pagine avrebbero dovute essere pubblicate nel giugno 2014, nel contesto del “Gemellaggio Badolato – Wetzikon” (pure dal momento che alcuni protagonisti di questa storia d’amore e di emigrazione hanno vissuto e lavorato nella città di Wetzikon e dintorni, dove da oltre 60 anni insiste la comunità badolatese più numerosa all’estero e, per questo, denominata la “seconda Badolato”). Infine, ringrazio con entusiasmo ed enorme stima Olivia Pastorelli che ha tradotto con vera partecipazione e sentimento i sei racconti dal tedesco, ma anche per i consistenti sconti che mi ha fatto per il suo pregevole lavoro, assai utile specialmente per noi di Badolato e della Calabra. Pure la Grafica Isernina mi ha praticato sconti sul lavoro fatto e, purtroppo, non portato a termine (per cause di forza maggiore).
Pubblicando i sei racconti con questa “Lettera a Tito n. 360” (mercoledì 27 ottobre 2021, giorno del 89mo compleanno di mio fratello Vincenzo che è anche poeta) spero adesso di colmare (almeno in parte) una grossa lacuna, rimediando, una volta per tutte, ai gravi ma involontari ritardi subìti dalla doverosa partecipazione pubblica di questi illuminanti racconti della professoressa Kosack, così affezionata a Badolato e alla Calabria! E pensare che mi ero messo d’impegno già nel 2010, appena avuti i primi due racconti, pubblicandoli sul web e in cartaceo. Ecco, comunque, qui di sèguito, i sei racconti la cui raccolta, per desiderio dell’Autrice, s’intitola ANCORA UN COMMIATO, come da titolazione del primo testo.
Così, in sequenza, abbiamo: 1 – ANCORA UN COMMIATO; 2 – DONNE E UOMINI IN CALABRIA; 3 – ANDREA; 4 – VITA D’EMIGRANTE; 5 – ALLA RICERCA DI LAVORO; 6 – DOPO QUASI QUARANT’ANNI. Tali racconti possono essere letti anche nella lingua originale tedesca in cui sono stati scritti, attraverso i due ALLEGATI che si possono scaricare alla fine di questa “Lettera n. 360”.
4 – ANCORA UN COMMIATO
Le valigie sono pronte. Stanno in anticamera. Ancora una volta accarezza i letti, stirando con le dita le pieghe del copriletto. Da questo momento i suoi figli dovranno farseli da soli. Sul fornello c’è una pentola. Ha già cucinato il pranzo del giorno dopo. Tutto è pronto. Ma le rimane ancora qualche minuto. Si siede su una sedia, per la prima volta nel corso della giornata, e ripone in grembo le mani.
Le note di una canzone risuonano da un mangianastri messo in funzione dal figlio minore. Un cantante italiano canta la mamma. Allora avviene il crollo. Le lacrime le sgorgano e un forte gemito spezzato prorompe dalle sue labbra. Oggi deve tornare in Italia. A casa, nell’estremo Sud, la aspettano le due figlie. Sono affidate alle cure di una vicina. Ma hanno bisogno della vigile protezione della mamma. A 12 e 18 anni sono in un’età pericolosa. Tuttavia non riesce a essere felice al pensiero di rivederle. Perché qui in Svizzera vivono i suoi due figli. Anche suo marito, a dire il vero, ma nel suo caso il commiato non le pesa.
E’ un po’ folle e beve anche molto. E, quando è ubriaco, non ha più rispetto per nulla. Allora cerca solo di metterlo a letto al più presto, prima che possa fare qualcosa di cui si debba pentire il giorno dopo. In queste occasioni la picchia, ma questo talvolta è il minore dei mali. Ma i due figli. Ha tirato su due ragazzi forti, cresciuti bene. Uno è un po’ viziato. Critica tutto e tutti. A 22 anni potrebbe farsi presto una fidanzata. Sarebbe un sollievo per la madre se si sposasse. Allora avrebbe meno da fare. Forse verrebbe presto anche un nipotino. Il figlio di suo figlio… Ma in linea di massima è un bravo ragazzo. Anche se potrebbe dare in casa qualcosa di più della sua paga invece di bersi tutto nelle osterie.
Quanto teme l’inverno quando i tre uomini saranno di nuovo disoccupati. Perché come lavoratori stagionali possono lavorare in Svizzera solo dai 9 ai 10 mesi. Se fino a quel momento non avranno messo da parte abbastanza risparmi, dovrà di nuovo farsi segnare a credito le spese. Non sa quanto si potrà andare avanti in questo modo. Può già essere contenta che tutti e tre abbiano un lavoro in questo momento. E che siano forti e in salute. In qualche modo se la caveranno, lei e il resto della famiglia. Per il figlio minore ha una vera predilezione. Adesso ha 19 anni e ha già molti anni di lavoro sulle spalle. Sì, non è certo uno sfaticato.
Ed è anche generoso. O almeno più generoso del fratello maggiore e del padre. Che ami sua madre, lei l’ha notato. Di tanto in tanto le porta dei piccoli regali. E quando è in Italia le telefona regolarmente. Da lui lei si deve accomiatare ora. Lo esige il suo dovere di madre. Accomiatarsi da entrambi i figli. Maledetta emigrazione. Maledetto sia il suolo che non riesce a sfamare i suoi figli. Qui i figli – là le figlie. La madre lacerata. Mangeranno abbastanza i suoi figli quando non ci sarà lei a cucinare per loro? Si laveranno i panni, sapranno stirare e rammendare? Certo, l’hanno già fatto. Ma non è un lavoro da uomini. L’emigrazione trasforma gli uomini. Se la cavano da sé e non hanno quasi più bisogno di donne. Taluni nella terra straniera si prendono una nuova donna.
E’ la cosa peggiore che possa capitare. Anche suo marito ha già avuto un’altra. Forse anche più di una. Ma finora è sempre tornato da lei. A casa l’attendono le figlie. Avranno badato per bene ai maiali? Sarà tutto in ordine in casa? Se accade qualcosa mentre i genitori sono via, si risà subito in tutto il paese. Allora quelle povere ragazze non avranno più alcuna possibilità di sposarsi. Che ne sarà allora della loro vita? Qui i figli – là le figlie. “Mamma” , canta la voce proveniente dal registratore, “ tu sei la più bella sulla terra”. Sì, essere mamma se l’era immaginato come qualcosa di celestiale. Ma quando poi ha avuto cinque figli, le cose hanno preso tutto un altro aspetto. Poiché il marito trovava lavoro solo occasionalmente, dovette andare a lavorare anche quando era incinta e avrebbe dovuto stare a casa in maternità. Aveva avuto la fortuna di potersi guadagnare qualcosa nella costruzione stradale.
Era un lavoro duro: trascinare ceste piene di pietre. Ha perso il latte e i due più piccoli ha dovuto allattarli con latte di capra. Allora si sono ammalati. Leucemia. Il maschietto è morto a 10 anni. Anche la sua tomba l’attende. Non dimenticherà mai quel giorno. La mattina si era alzata molto presto per cuocere il pane. Lui l’aveva seguita sopra in cucina perché amava osservarla mentre lavorava. Poi all’improvviso si è sentito venir meno. Lei l’ha portato a letto e ha mandato la figlia a cercare il medico.
Il quale però non è venuto subito. E anche quando è venuto ha dato al bambino la medicina sbagliata. Così il ragazzino è morto. Nella sua rabbia non sapeva che pesci pigliare. Maledisse il medico. Tre anni più tardi questi morì di una malattia sconosciuta. Suo figlio era vendicato. La sua figlia più piccola deve trascorrere in ospedale tutti i mesi da una a due settimane. Anche lei probabilmente non ha ormai molto più da vivere. Anche per lei deve tornare a casa. Un figlio malato ha particolarmente bisogno della mamma. Ma andarsene via di qua adesso, quando anche i suoi figli hanno bisogno di lei. Non sa nemmeno quando li rivedrà. Forse tra qualche mese, forse solo tra un anno? Era venuta per vedere se era tutto a posto. Domani saranno di nuovo soli.
La canzone è finita. Là fuori un tassista segnala con il clacson di essere arrivato. Il figlio minore afferra le sue due valigie. Lei si getta sulle spalle il cappotto e cerca la borsetta. La canzone le risuona ancora nelle orecchie. “Mamma”, la voce del cantante sembrava liquefatta dalla commozione. A lei sembrava di riconoscere in quella voce la voce del figlio. Allora le si spezzò il cuore, e fu di nuovo scossa dai singhiozzi. No, non poteva partire. Suo figlio l’aveva chiamata. Questi nel frattempo aveva caricato le valigie nel taxi e andava incontro alla madre. Quando la trovò nella tromba delle scale del tutto sciolta in lacrime l’abbracciò, le cinse le spalle e cercò di incoraggiarla con la sua calda disarmata risata. Ma lei aveva già preso la sua decisione.
Sarebbe rimasta! Almeno fino a domani. Il figlio tornò verso il taxi, scaricò le due valigie e le posò all’ingresso. Poi salì lui stesso sul taxi e si fece accompagnare in stazione. Nel bar della stazione avrebbe di sicuro incontrato degli amici. La madre riportò le valigie su per le scale. Si tolse il vestito da viaggio e riprese ad affaccendarsi per la casa. Forse non sarebbe partita nemmeno domani, forse settimana prossima. Settimana prossima di sicuro. Perché le sue figlie avevano bisogno di lei. Ricorda il momento in cui si era accomiatata da loro.
Erano alla stazione, in piedi, si tenevano a braccetto e con le lacrime agli occhi agitavano il braccio in segno di saluto. Quando il treno aveva lasciato la stazione, loro si erano allontanate lentamente, a capo chino. Che stretta al cuore aveva sentito allora. Di sicuro settimana prossima sarebbe stata di nuovo a casa. Ma prima del ricongiungimento ci sarebbe stato ancora un commiato. – stop –
5 – DONNE E UOMINI IN CALABRIA
Ciò che dice un uomo è legge. E’ il sovrano assoluto della sua famiglia. Da marito dispone incontrastato della moglie e dei figli. Se è assente, il suo ruolo viene assunto dal figlio maggiore; se anche questi è lontano dalla famiglia, questa funzione passa al secondogenito maschio e così via. Le figlie femmine non hanno alcun diritto. In mancanza degli uomini, è la madre a prendere tutte le decisioni, naturalmente solo entro i confini di quanto sarebbe accettato dai maschi assenti.
Lo spazio di manovra in cui si può muovere una donna in assenza dei maschi di famiglia è ristretto e non va al di là dell’organizzazione della vita quotidiana. Sono i vicini a controllare che nessuna donna osi valicare questo limite. Una donna che esca la sera per far visita a un’amica o per partecipare a una festa nel paese vicino finisce sulla bocca di tutti. E questo non rimane segreto ai maschi di famiglia. Sapevo tutto questo prima di tornare per la seconda volta a Badolato in Calabria. Ma l’avevo compreso fino in fondo? Avevo stretto amicizia con un lavoratore italiano, che quell’anno voleva presentarmi alla sua famiglia.
Dovevo anzi essere ospite da loro. Suo padre e il fratello maggiore lavoravano in Svizzera, sua madre e le due sorelle più piccole abitavano in Italia. “Cosa fanno le tue sorelle?”, gli avevo chiesto una volta. “Sono a casa. La più piccola va ancora a scuola.” “E l’altra? Quanti anni ha?” “Diciotto. Anche lei sta a casa.” “Non lavora?” “No.” “Perché no?” “Non lo so”. “Non vuole lavorare o continuare a studiare?” “Non so. Da noi non c’è lavoro, e tanto meno per le donne. E poi deve rimanere a casa.” “ E perché?” “Ah… Tutte queste domande! Perché sì!”. Bene. Questo avevo imparato: una sorella diciottenne deve rimanere a casa. Quello che vuole lei stessa non è dato saperlo e nemmeno ha alcuna importanza. “Perché non la portate con voi in Germania o in Svizzera? Qui lei potrebbe trovare un lavoro.”, azzardai ancora.
“E dove abiterebbe? Qui con noi nell’alloggio maschile? O dove abitano le donne da sole? Là diventano tutte delle civette. Mia sorella mai! E’ ciò che di più prezioso ho al mondo. La devo custodire con più cura di quanta ne abbia per la pupilla degli occhi miei. Per lei farei tutto. Tutto!”. Tutto. Cosa faceva davvero per lei? Quando arrivammo a casa “sua” – non c’erano altri maschi, quindi era casa sua – la sorella per prima cosa servì il caffè. “Hai fame? Vuoi fumare?”, mi chiese Domenico. Dovevo sentirmi a mio agio. Immediatamente le due sorelle balzarono in piedi. La più piccola, Pina, ricevette 300 lire per andare a prendermi le sigarette, la più grande, Mimma, andò a fare la spesa e subito dopo sparì in cucina. Anche la madre si dileguò in cucina, dopo essere stata incaricata di dare il meglio di sé. Così per un po’ rimanemmo soli, ascoltammo della musica e parlammo. Dopo mangiato ci alzammo subito perché avevamo molto da fare.
I bar consueti, la spiaggia, tutti i suoi amici ci attendevano. Questa scena si ripeteva quotidianamente. Non appena arrivavamo a casa scattava il segnale che imponeva alle donne di preparare il pranzo, apparecchiare e poi sedere – in attesa di altri ordini – pronte a scattare, che fosse giorno oppure notte. Della possibilità di intrattenermi con le donne neanche a parlarne. “Lascia almeno che aiuti a lavare i piatti”, lo pregavo. “Non è il momento”. All’inizio temevo, intromettendomi, di turbare, da estranea, quel tranquillo tran tran domestico che procedeva senza attriti e senza dissidi. D’altro lato desideravo ardentemente che le due sorelle traessero gioia dalla nostra presenza. Così già il secondo giorno proposi di portarle al mare con noi. Solo raramente un autobus percorreva quegli otto chilometri di strada tortuosa lungo cui il fratello volava nelle due direzioni, verso il mare e verso il borgo arroccato in collina, con i capelli al vento e la camicia sbottonata. Sapevo che le sorelle lasciavano di rado il borgo e che in presenza del fratello nessuno avrebbe potuto sollevare obiezioni, se fossero venute con noi a passeggiare sulla spiaggia.
Domenico era d’accordo che ci accompagnasse Pina. “E Mimma?” “Non possiamo portare con noi contemporaneamente entrambe le sorelle. La mamma resterebbe sola.” “Bene, allora Mimma può venire domani”. Quando il giorno seguente insistetti che venisse, il “no” risuonò più definitivo. “Ma l’avevi promesso, che avrebbe potuto accompagnarci!” “Chiediglielo, se vuole venire”. Lo feci. In risposta sorrise in un modo che dava a intendere quanto la mia domanda fosse ingenua, e scosse il capo. “Ma perché no?” Si strinse nelle spalle. “Non mi lasciano.” “Questo lo vedremo”. Ero in procinto di andare. “Hai voglia di venire?” “Sì certo, ma…” “Niente ma!” la interruppi e tornai nella stanza dove stava Domenico. “Dunque, Mimma dice che vorrebbe venire con noi”. “Davvero?”. Non pareva convinto. Quando giunse il momento di andare, chiese lui stesso:” Vuoi venire con noi?” Nella sua voce risuonava una nota leggermente minacciosa. Lei scosse il capo sorridendo. Io ero disarmata “Ma avevi appena detto di sì!”. Lei si limitò a sorridere e mi diede a intendere che non avevo capito nulla. Dovetti adeguarmi. Il peggio era che gradualmente stavo finendo per accettare questa situazione.
Sì, qualcosa di peggio, addirittura. Dopo un po’ di tempo il mio iniziale disagio cedette il posto a una certa indifferenza. Se si lasciano sfruttare senza opporsi, se si lasciano opprimere senza protestare, allora dopo tutto non si trovano poi così male nella loro pelle. Io al contrario incominciavo a sentirmi bene. Erano proprio vacanze. Non avevo bisogno di preoccuparmi di cucinare o di lavare la biancheria. E se volevo fare qualcosa senza la mia figlioletta, c’era sempre qualcuno pronto ad occuparsi di lei. Quanto è facile adattarsi al ruolo di sfruttatore. Mi concepivo come una donna che lotta contro la propria oppressione. Avevo cercato di abbattere sistematicamente il mio essere prigioniera di un ruolo predestinato a me in quanto donna. Avevo partecipato a manifestazioni in cui chiedevamo uguaglianza di diritti per le donne e l’autodeterminazione della donna rispetto al proprio corpo e alla propria persona. La mia ipersensibilità reagiva quando nelle parole o nei comportamenti altrui scorgevo una traccia anche tenue del mio essere considerata l’appendice del mio uomo.
Rivendicavo per me stessa tutto quello che rendeva piacevole la vita degli uomini. E adesso ero improvvisamente scivolata in una situazione in cui traevo vantaggio dall’oppressione delle donne – e in più ciò non mi impediva di sentirmi bene. Ad essere sinceri, il mio comportamento non subiva una modifica repentina una volta che avevo acquistato consapevolezza di questa mia contraddizione. Certo mangiavo con un po’ di sensi di colpa e ritrovarmi in valigia la biancheria indossata il giorno prima accuratamente lavata e stirata mi faceva sentire un po’ a disagio. Tentavo di parlarne con Domenico: almeno questo potrei farlo io. “Non preoccuparti”, si limitava a dire,” Fondamentalmente stai loro facendo un piacere. Se tu non fossi qui, starei poco a casa. Così anche loro hanno qualcosa di me. Non è vero, Mimma?”. Mimma annuiva amichevolmente. Allora riprendevo a mangiare. Alla fin fine non ero responsabile dell’oppressione delle donne qui nell’Italia meridionale. Sono pur sempre una figura marginale in questo gioco. Senza di me tutto procederebbe comunque nella stessa identica maniera. Ad uno scontro arrivammo due giorni dopo. Volevamo uscire a mangiare con alcuni amici.
“Invitiamo anche Mimma”, lo pregai. “No”. Questo rifiuto suonava irrevocabile ed era così insondabile da indignarmi. “Perché no?” “Perché lo dico io”. “Ah… è così! E io invece dico che la voglio invitare. Non mi farò più servire a casa da voi se lei oggi non viene con noi”. “D’accordo, allora portiamoci dietro Pina”. “Allora tutte e due! Anche Pina deve venire, ma per me è importante che venga Mimma”. “No, Mimma rimane a casa!”. Non avevo più voglia di uscire. Ma dovevo iniziare un conflitto di cui non sapevo l’esito? Dovevo rischiare ed essere pronta a tornare a casa se ne fossi uscita sconfitta? A chi avrei fatto un favore? A Mimma di sicuro no. Una cosa però mi era chiara. Non potevo continuare ad accettare tutto questo senza reagire. Quando giungemmo a casa Domenico disse che non avremmo mangiato perché avevamo un appuntamento al ristorante. Pina poteva venire. Pina era raggiante. Volevamo almeno un caffé? “No”, dissi io. O forse un bicchiere di vino? Pina fu immediatamente spedita dal vinaio ad acquistare del vino. No, non volevo nessun vino, niente pomodori, niente olive, nemmeno formaggio, e nemmeno le mie adorate albicocche, di cui sapevano andavo ghiotta.
Che cosa avessi, mi fu chiesto. “Niente”. Mi sentivo comprensibilmente a disagio. Mimma mi chiamò da parte. Mi infilò intorno al collo una catenina metallica con un ciondolo. Imbarazzata, balbettai solo un grazie ed ero sul punto di scoppiare in lacrime. Forse non mi piaceva il ciondolo? “Ma certo”, esclamai con più veemenza di quanta avrei voluto metterne. “Certo ma…” “Che cosa allora?”. Non sapevo cosa dire. Avrei voluto scomparire dalla faccia della terra, avrei voluto non aver mai varcato la soglia di quella casa. Allora la domanda fu rivolta a Domenico: cosa avevo? Forse stavo male? No, lui non lo credeva ma non sapeva bene nemmeno lui. “Ma certo che lo sai!” pensai, senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce. Alla fine mi feci forza.
“Mimma”, dissi,”voi siete così incredibilmente cari con me. Non so come l’abbia meritato, e non posso accettare sempre la vostra amicizia senza fare a mia volta qualcosa di carino per voi”. “Sei proprio stupida”, disse con sincerità, “ti vogliamo bene, e questo ci basta”. Ci scambiammo un sorriso. Per la prima volta avevo la sensazione che eravamo riuscite a comunicare. Ma tutto questo spirito rinunciatario, tutta questa misura. Perché le donne non urlavano di fronte alle ingiustizie? Ci sono persone che pensano e sentono quello che penso e sento io? “Andiamo”, intimò Domenico. Mi alzai esitante. “Dai, vieni!”. Quando eravamo già sulla soglia mi disse: “Non volevi chiedere qualcosa a Mimma?” Lo guardai incredula. “Dai, allora diglielo”. Gettai le braccia al collo di Mimma e le dissi che sentivo il bisogno di invitare anche lei a cena.
Lei guardò il fratello, e quando questi annuì, sparì in camera in un battibaleno e ne uscì di lì a poco agghindata di tutto punto con i pantaloni neri e la camicetta arancione che le avevo regalato. Da quel momento mi sentii in qualche modo legata a Mimma. Avevamo insieme vissuto una situazione in cui mi ero sentita impacciata e impotente. Certo potevo decidere in ogni momento quando uscire e dove andare, quando soddisfare le mie esigenze di cibo e sonno. Da me in quanto tedesca non ci si attendeva altro. Nei bar potevo muovermi liberamente, scegliere della musica al juke box o giocare al bigliardo. Ero in tutto e per tutto uguale a un uomo. Ma se volevo invitare a cena Mimma, andavo a sbattere contro un muro. Ero prigioniera al pari delle donne del sud, con l’unica differenza che le mie catene erano solo un po’ più allentate. Mimma aveva compreso la mia ribellione e anche il fatto che la mia non era stata in nessun modo una vittoria.
Dal vicolo cieco in cui mi ero infilata mi aveva tratto fuori Domenico. Da sola non avrei potuto far altro che andarmene. Mimma non andava a sbattere contro la parete del suo carcere. Si muoveva eretta e sicura di sé. Era padrona della sua condizione. Il giorno dopo non avevo alcuna voglia di andare in paese. I bar con tutti quei maschi gonfi di autocompiacimento mi sembravano squallidi. Improvvisamente mi balzò agli occhi che mi consideravano sorprendentemente poco. Dopo che avevano soddisfatto la loro iniziale curiosità chiedendomi da dove venissi e se mi piacesse qui e dopo poche altre frasi di circostanza, cessavo di esistere per loro. Nessuno sentiva l’esigenza di conoscermi davvero o di intrattenersi con me su cose davvero importanti per me o per lui. Anche Domenico si rivolgeva a me solo per chiedermi se volevo bere ancora qualcosa o se fosse ora di andare. Per il resto parlava con i suoi amici di moto ed auto, di dischi e donne e di tutti quegli argomenti da cui ero esclusa.
Il più delle volte non capivo nemmeno di che cosa stessero parlando perché lo facevano in dialetto calabrese. Molto raramente il discorso cadeva sul lavoro in Svizzera o in Germania. Ma anche allora venivano taciuti i problemi di cui Domenico mi aveva messo a parte. Nessuno la racconta davvero giusta, pensavo. Perché ardono tutti dal desiderio di tornare a casa se all’estero va tutto liscio come l’olio? Perché si considerano amici se non riescono ad essere sinceri l’uno con l’altro? “Non con tutti gli amici si può parlare”, mi rispondeva Domenico quando glielo chiedevo. “La maggior parte di loro prima o poi utilizza le tue confidenze contro di te. Devi stare attento”. “Ma allora non sono veri amici”, gli obiettavo. “No, lo sono, ma di altro tipo”. Allora ci sono due tipi di amici, quelli davanti a cui bisogna fare i galletti, davanti a cui non si deve apparire deboli ma del cui riconoscimento si ha bisogno, e quelli di fronte ai quali si può essere sinceri. “Sincero fino in fondo lo sono solo con te” mi ha confessato Domenico una volta. Povero Domenico!
Tutte quelle rinunce all’estero, tutte quelle frustrazioni, quelle umiliazioni da parte dei colleghi tedeschi o dei superiori, e nessuno con cui poter parlare, nessuno a cui potesse confidare la sua rabbia, con cui potersi confrontare su come potersi difendere. Soltanto me con cui poter essere sincero – me, una donna, una donna tedesca per giunta, che solo a tratti condivide il suo mondo e di cui nemmeno sa quanto a lungo potrà stargli vicino. Ne avevo abbastanza dell’universo maschile del sud. Il suo splendore, il suo fascino erano costruiti sulla sabbia. Se uno ha un problema, lo deve occultare, se non vuole andare a fondo. Si affonda il coltello nelle piaghe delle debolezze altrui. Questo significa dover stare sempre sulla difensiva conformemente a regole di cui nessuno sa chi le abbia inventate e tanto meno quale sia la loro ragione d’essere.
Se l’”onore” è offeso, bisogna porre mano al coltello o alla pistola – con tutte le conseguenze del caso. In Germania gli uomini si interrogano sui fattori costitutivi della virilità. Prestanza fisica, incedere autoritario, le cosiddette qualità da leader, la carriera professionale – tutte qualità già messe in discussione come incondizionatamente maschili. Anche gli ideali estetici sono cangianti. Nessuno sa più come dovrebbe essere un “vero” uomo. Ma qui in Calabria nulla è cambiato rispetto al passato. La vita pubblica è monopolizzata dai maschi. Questi si sentono costantemente impegnati a non infrangere alcuna delle leggi non scritte. Assorbiti da questo sforzo, sono dimentichi di se stessi e delle proprie esigenze non meno che dei bisogni delle donne, ugualmente prigionieri del sistema al pari delle donne. C’è solo la gerarchia dei ruoli a far apparire agli occhi degli uomini la propria posizione nella scala gerarchica come la migliore.
Ma come si mettono le cose per gli uomini quando questi emigrano? In quanto “lavoratori ospiti” o “lavoratori stranieri” precipitano al gradino più basso della scala gerarchica e desiderano ardentemente quel po’ di riconoscimento sociale di cui ancora godono a casa. Ragione di più per indossare le penne del pavone qui. Mi sentivo attratta dalle donne. Forse sono in grado di disarticolare un sistema già logoro. Conoscono le condizioni in cui vivono i loro uomini in Svizzera e in Germania. Sanno quanto piccoli si devono fare lì i loro uomini al cospetto delle autorità, dei loro capi, dei colleghi autoctoni. Davanti a loro gli uomini non possono fingere, a loro sono costretti a confessare le loro magre buste paga.
E tuttavia da loro continuano ad essere trattati amorevolmente. Da loro dovrebbe partire un modo di relazionarsi liberante nel senso di “Parliamo a chiare lettere!”. Ma gli uomini si schermiscono. Si rifiutano addirittura di parlare con le donne. Ma le donne lo reclamano il dialogo e la ricerca di una via d’uscita condivisa? A malapena. Quando ci sono problemi, quando i soldi non bastano, le donne devono barcamenarsi per mettere comunque il cibo in tavola, e un cibo che sia di gradimento agli uomini. Debiti possono contrarne fintantoché nessuno ne venga a sapere e soprattutto a condizione che la colpa non sia ascritta agli uomini. Se un uomo non ha nemmeno più le due – tremila lire per il bar, la moglie, la madre le deve procurare, in qualche modo, da qualche parte. Poi l’uomo al bar, generosamente, offre un bicchierino ai convenuti.
Ma perché le donne si prestano a questa pantomima? Cosa sentono quando vedono i loro tronfi galletti gonfiare il petto, il cui logoro piumaggio devono permanentemente rattoppare? “Perché date loro soldi se voi stesse non ne avete più?” , chiesi a Mimma una volta. Mimma si strinse nelle spalle “Io non gli darei neanche niente, ma mia mamma non riesce a dire di no”. “Perché non ci riesce?” “Mio padre diventa furente se lei non fa quello che dice lui. E i miei fratelli lo stesso. Quando mio padre è a casa, le cose vanno anche peggio. Si sbronza subito e allora è pronto a menar le mani. Per stare in pace, allora, mia mamma fa quello che vuole lui. Anche per via dei vicini. Una volta si è avventato su di lei con un coltello. Oggi ha ancora le cicatrici”.
Di buon grado sua madre mi mostrò una cicatrice sulla guancia, della larghezza di una lama di coltello e mi indicò il punto sull’addome su cui stava una cicatrice ancora più grande. Perciò lei fa quello che dicono gli uomini! E le donne non possono proprio difendersi? Sì e no. Conoscono migliaia di sotterfugi per aggirare gli ordini dei maschi. Se non ci sono più soldi, qualcosa la si prende a credito. Gli uomini invece pagano qualunque conto venga loro presentato, anche per la birra rancida e il latte cagliato che sono stati loro venduti, soltanto per non dare l’impressione di non voler o di non poter pagare. Non sanno cosa significhi mercanteggiare al mercato per strappare poche lire di sconto. Perciò preferiscono non andare a far la spesa – con l’incondizionata approvazione delle donne. Inoltre gli uomini sono ciechi rispetto a tutto ciò che ha luogo dentro e attorno alla loro casa.
Un ospite visto malvolentieri dagli uomini di casa sa come sgattaiolare attraverso la cantina senza farsi notare. Anche un’amica della moglie o della figlia che i maschi di casa proibiscano di frequentare conosce perfettamente questa via di fuga. Tutti prendono parte al gioco. Consentito è tutto ciò che non viene fuori. Presto io stessa avrei assaporato il gusto di giocare a gatto e topo. Domenico doveva partire per la Svizzera. Suo padre e suo fratello gli avevano trovato un lavoro, e non doveva far vacanza mentre loro lavoravano. Che queste vacanze rivestissero per lui un significato particolare perché le trascorreva con me, non aveva alcuna importanza.
Quando mise in campo quest’argomentazione, gli uomini in Svizzera minacciarono di non mandare più soldi a casa. Io però potevo rimanere, mi consolavano le donne. Quando giunse il giorno e Domenico fu partito, mi sentii in qualche modo sollevata. Ora potevo sbarazzarmi del mondo maschile e dedicarmi alle donne, riconoscendomi nel mio essere donna. Forse adesso ci sarebbero state delle opportunità di fare qualcosa con le donne.
Ciò si verificò già il giorno successivo. Ci recammo in un paese vicino, in montagna, per far visita a conoscenti che non vedevano da tempo. Qui mi si offrì alla vista lo stesso quadro con cui avevo preso dimestichezza nel paese di Domenico: case prive di uomini – la maggior parte di loro erano all’estero, alcuni al lavoro nei campi e gli altri al bar – , donne che parevano attendere pazientemente qualcosa o qualcuno, anche se la maggior parte degli uomini non erano attesi, e infiniti bambini. Le conversazioni delle donne mi suonarono più sincere di quelle degli uomini di cui ero così stanca. Non avevano bisogno di fingere permanentemente.
Non dovevano mostrare di non avere problemi. Si facevano piccoli regali e si accomiatavano così semplicemente come si erano salutate. Ma la nuova libertà durò poco. La mattina seguente alle 6 arrivò il padre. Motivò la sua inaspettata comparsa con la necessità di venire a prendere Domenico. Quando gli fu detto che questi era già partito, non fu un motivo sufficiente per rimettersi in viaggio. Aveva un piede gonfio, a causa di un incidente sul lavoro occorsogli un mese prima. Per questo gli era stata certificata un’invalidità del 50%. Evidentemente i medici non riuscivano a curarlo adeguatamente e lui preferiva farsi visitare a casa.
Di fronte al timore che stando in Italia avrebbe perso i soldi dell’assicurazione sanitaria e forse anche il suo posto di lavoro rispondeva con un’alzata di spalle. Aveva solo poco denaro con sé , e gli serviva per andare al bar. Mimma ricevette 10.000 Lire, e con questi soldi comprò dei capi d’abbigliamento per sé e per la sorella. Il padre però non doveva vederli. “Avete già fin troppo per vestirvi”, avrebbe urlato fuori di sé se l’avesse saputo. Per saldare i debiti non rimaneva nulla. Prima ancora che mi alzassi quel mattino, la madre venne da me e mi disse che mi sarei dovuta trasferire in un’altra loro casa, dove non stava nessuno, altrimenti il padre…. Con la mano fece un gesto eloquente attraverso la gola a significare che dal suo uomo non c’era niente di buono da attendersi. Il padre non doveva sapere dove sarebbe stata portata la mia valigia. Gli avrebbero detto che non sapevano dove stavo. Tutta questa storia mi sembrò poco credibile.
Non sarebbe stato facile per il padre cercarmi nell’altra casa se l’intero paese sapeva che ero ancora in zona? Ma donne e uomini conoscevano le regole del gioco, e il padre non poteva trovarmi. Dopo aver un po’ scavato venni a conoscere un altro motivo che rendeva necessario il mio trasferimento. Il padre aveva detto che Domenico sarebbe stato geloso se avesse saputo che dormivo sotto lo stesso tetto di suo padre, anche se questi non mi avesse nemmeno rivolto la parola. Il fatto che Mimma mi confidasse questa preoccupazione solo dopo aver esitato a lungo e solo a condizione che non ne avrei fatto parola mi convinse che questa motivazione era da prendere sul serio. Ora quindi abitavo da sola in una di queste case pittoresche.
La mia casa si componeva di due stanze, una sopra l’altra, una cucina in cui era stata sistemata soltanto una pietra per lavare, e un gabinetto. Nella stanza soprastante e in cantina era depositata della legna. La madre con l’aiuto di Mimma dipinse le pareti di un rosa vomitevole. I soldi per l’acquisto della vernice li avevo messi io a disposizione. Un materasso fu collocato nella mia stanza. A quel punto la casa mi sembrò assolutamente abitabile. Ora ero più libera di prima perché ero sottratta anche al controllo della famiglia. Ma le donne con cui avrei condiviso ancora volentieri la casa e con cui soprattutto avrei fatto volentieri qualcosa, erano di nuovo esposte alla tirannia maschile. Però anche la mia libertà era limitata. Nessuno mi avrebbe impedito di andare al bar. Ma là avrei sempre dovuto difendermi da delle avances. Prima di partire Domenico mi aveva dato due consigli, o meglio due ordini: non avrei dovuto uscire con sua sorella o indurla a venire con me perché ciò avrebbe compromesso la sua reputazione; e non avrei dovuto intrattenermi con degli uomini perché – così disse letteralmente – “ogni ragazzino dai 12 anni in su, ogni vecchio, in pratica ogni uomo avrebbe cercato di venire a letto con me”.
E questo avvertimento non mi suonò particolarmente strano. La ritrosia che qui gli uomini esigevano dalle loro donne e che fatalmente comprometteva la loro stessa vita sessuale doveva trasformarsi in desiderio incontrollabile di fronte a una donna che fosse “libera”. Allora cosa mi rimaneva da fare? Andavo in spiaggia tutti i giorni. Se non mi si fosse offerta la possibilità di fare amicizia con un paio di vacanzieri tedeschi, avrei fatto in fretta le valigie. Ma io volevo rimanere ancora. Quando, la sera del giorno in cui era arrivato il padre, mi ritirai nella mia nuova casa, in cucina trovai un recipiente di plastica in cui erano stati amorevolmente posti due piatti, due cucchiai, una pentola con della minestra, della frutta e del formaggio per me e per la mia figlioletta. Sopra stava un biglietto in cui Mimma aveva scritto con la sua goffa calligrafia che mi avrebbe fatto visita la sera se fosse riuscita a “svignarsela”. Non dovetti attendere a lungo. Con lo sguardo mi aveva già cercato più volte. Da quel momento Mimma mi portò regolarmente qualcosa da mangiare e ci vedevamo di nascosto – come Romeo e Giulietta – tutte le volte che le era possibile. Il fatto che il nostro rapporto fosse ormai un rapporto segreto – solo la madre ne era a conoscenza – fece sì che questo si trasformasse: diventò più intimo, acquistò quasi un che di erotico, e possedeva qualcosa di commovente e di innocente.
Eravamo due partner molto diseguali. Lei aveva 18 anni, conosceva soltanto la sua casa e le sue immediate vicinanze, aveva fatto solo pochi anni di scuole elementari perché non le era stato permesso di andare alla scuola media, sottomessa al destino che era stato stabilito per lei dai maschi della sua famiglia. Io ero una donna di 30 anni che non intendeva consentire a nessuno di rivolgerle delle imposizioni, che aveva viaggiato e si era laureata. E tuttavia ci intendevamo. Gestivamo insieme una situazione estremamente precaria – e imparavamo l’una dall’altra. Avevo creduto che in Mimma ogni resistenza fosse stata spezzata, che fosse incapace di sviluppare autonomamente desideri e ambizioni. Ma mi ero sbagliata. Non solo aveva le idee chiare su ciò cui ambiva ma era anche in grado di formularle. In questo si distingueva dai maschi della sua casa. Perché questi nemmeno esprimevano un desiderio che non potesse realizzarsi in maniera immediata, e con ciò si precludevano la possibilità di impegnarsi e di lottare per le loro esigenze.
“E’ inutile parlarne” diceva spesso Domenico, quando tentavo di farlo riflettere sulle sue prospettive di vita. Questa è rassegnazione. Mimma era diversa. Le avevo chiesto se la casa in cui ero stata alloggiata fosse stata acquistata con l’intento di darla a lei una volta si fosse sposata. “No, non voglio sposarmi”, sbottò. “Mio padre mi ha detto spesso che devo sposarmi per non essere più di peso alla mia famiglia ma io preferisco andare a lavorare. Alla fin fine sono sana, ho due braccia, due gambe, due occhi. Non sono un’invalida! Ma non mi lasciano. Qui in paese non c’è lavoro per le donne. E la fabbrica di camicie al mare per loro è già troppo lontana.” Non aveva voglia di andare a lavorare in Svizzera o in Germania, le chiesi. I suoi occhi esprimevano entusiasmo al solo pensiero dell’emigrazione, del lavoro, dell’eguaglianza con gli uomini. “Sì, ma non permettono neanche questo. Sono stata tre mesi in Svizzera, quando tutta la mia famiglia era là. Anche là sono dovuta rimanere a casa a fare le faccende. Era come qua. Non mi potevo muovere liberamente. Le altre ragazze del paese che vivevano là potevano andare al lavoro. Io ero tutto il giorno a casa. Era ancora peggio di qua. Per esempio volevo imparare a guidare. Qualcuno mi ha anche dato un’ora di lezione. Ma poiché lavoravano tutti, nessuno aveva veramente tempo di insegnarmi.
E la sera non ne avevano voglia”. “Non hai mai avuto l’occasione di imparare qualcosa?” “Sì, una volta sono stata a un corso di cucito. Aveva luogo qua in paese. Finiva verso le quattro, quattro e mezzo. Mia madre mi veniva sempre a prendere. Temeva che potessi non venire a casa subito. Era un fastidio per lei, quindi ho dovuto smettere. Alle quattro e mezzo attraversare il paese da sola per tornare a casa, era già troppo pericoloso. Sono tutti così gelosi, soprattutto i fratelli. Se qualche volta rimango via un po’ più a lungo per fare la spesa perché incontro un’amica o qualcosa del genere, già se la prendono con me. «Perché sei stata in giro tutto questo tempo? Dove sei stata?», mi chiedono. ”Come mai tutta questa gelosia?”, chiesi. “Non so neanch’io. Non tutti in paese sono così. Ma io devo stare sempre a casa. Forse hanno paura che i vicini chiacchierino”. “Perché forse allora avresti meno possibilità di sposarti?” “Forse. Ma io non voglio sposarmi. Io ne avevo di pretendenti. Ma ho sempre detto di no. Ero ancora troppo piccola. Mia mamma si è sposata a 17 anni. Allora non capiva ancora nulla della vita. Conosceva appena mio padre. I suoi genitori hanno deciso per lei. Lei era d’accordo perché pensava che così sarebbe stata più autonoma. Poi sono arrivati i bambini e lei si è ritrovata prigioniera come prima. Mio padre è anche terribilmente geloso. Un uomo così non lo sposerei mai.
Quando è ubriaco, la picchia pure. Ho detto spesso che lei dovrebbe ucciderlo“. “Non ci sono altre possibilità di liberarsi di lui?” “E dove dovrebbe andare? Ha solo la famiglia. Lei vive solo per la famiglia”. Sì, questo l’avevo notato. Per la madre la famiglia è tutto. L’accetta con tutti i suoi meccanismi oppressivi. Ha consegnato se stessa alla famiglia e ha consegnato anche le figlie. Quando una volta ero avvilita per il comportamento egoistico di Domenico, mi ha consolato “Sì, sono 25 anni che provo la stessa cosa che stai provando tu. Mio marito e i miei figli maschi sono felici solo se mi vedono soffrire.” Mentre pronunciava queste parole, la sua bocca si atteggiava a un sorriso in parte triste in parte misterioso. E Mimma doveva subire lo stesso destino? “Se mi sposo, non cambierà niente per me”, Mimma riprese il vecchio filo del discorso. “Passerei dalla sorveglianza dei miei fratelli a quella di mio marito. Ma a casa dovrei starci sempre. Gli uomini qui in paese sono tutti così. E i vicini chiacchierano. Vorrei lavorare. Non ho mai soldi, solo per fare la spesa. Mi metto qualcosa da parte ma nessuno lo deve sapere. Se mi compro qualcosa da mettermi, mi dicono che sono una spendacciona. Da due anni non ho vestiti nuovi, se non quelli che mi compro io di nascosto. Quando me li metto, si infuriano ma non possono farci più nulla. Se vado a lavorare mi tengo tutto per me! Alla famiglia non darò nulla. Non mi hanno mai concesso nulla.
E mia mamma non ha bisogno di me. Se guadagnassi dei soldi, potrei fare quello che voglio. Ad esempio posso imparare a guidare. O semplicemente comprarmi qualcosa senza dover prima chiedere il permesso. Inoltre al lavoro non sarei mai sola. Potrei parlare con le altre donne. Qui hanno da ridire se vado a trovare un’amica una volta!”. Vuole autonomia, anche a costo di dover lavorare in fabbrica. La dipendenza impersonale da un capo è preferibile all’essere esposta nella sua peculiarità di persona alla famiglia. Perché il lavoro significa denaro e il denaro significa indipendenza. Se avesse una propria entrata, nessuno potrebbe obbligarla a sposarsi per non essere di peso alla famiglia. Mimma doveva uscire dalla prigione domestica. Quando tentai una volta di familiarizzare Domenico con il pensiero di portarla con sé in Germania, mi scontrai con orecchie sorde. “Dove andrebbe a vivere? Ah, dai tuoi amici. Così imparerebbe a vivere come voi. Non mia sorella!” “Nessuno la obbligherebbe a vivere diversamente da come desidera”, gli replicai.
“Tu non hai forse goduto della nostra libertà?” “Sì ma sono un uomo. Inoltre non devi dimenticare che non sono io a decidere delle faccende familiari. Mio padre ha l’ultima parola. E che direbbe se la portassi con me senza dirgli nulla?”. Ora però il padre c’era. Forse bisognava parlarne con lui? “Ci proverò”, promise Mimma. Alla mia partenza mancavano ancora alcuni giorni. Tutte le volte che interpellavo Mimma se fosse riuscita a intavolare il discorso, rispondeva affranta “Ieri non ho potuto parlare con lui perché era ubriaco”. Oppure: “Ieri era così stanco che è andato subito a letto”. Era chiaro, doveva trovare un momento propizio, altrimenti tutto sarebbe stato vano. Nel frattempo avevo abbandonato ogni speranza, e credevo che Mimma avesse fatto altrettanto. Ma mi sbagliavo. Il giorno prima della mia partenza mi sorprese. Mi chiamò raggiante di gioia: “Vieni a casa nostra. Mio padre ha visto tua figlia ed è felice che tu sia ancora qui. Ti vuole vedere. Io gli ho parlato di quella faccenda. Per questo vuole parlare con te.” Quando per la prima volta dopo più di una settimana varcai di nuovo ufficialmente la soglia di casa loro, il padre di Domenico mi accolse con sussiego. Si scusò eloquentemente di avermi per così dire cacciato e cercò di darmi ogni possibile spiegazione per questo fatto.
Si era ubriacato per la disperazione dovuta alla malattia e alla perdita del lavoro – e sì, io sapevo come vanno le cose. Cosa poteva fare ora? Tornare in Svizzera, gli consigliai. Là ci sono dei luoghi cui si può rivolgere chi ha subito delle ingiustizie. Ad esempio l’INCA, un organismo del Partito Comunista Italiano, che offriva consulenza ai lavoratori italiani. E poteva anche andare da un altro medico che non stesse dalla parte dei padroni. Mi chiese se l’avrei aiutato. Certo che l’avrei fatto volentieri. Dentro di me mi dicevo che avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per tirare Mimma fuori di lì. Avevo posto nella mia auto? Esitai. Non volevo promettere prematuramente qualcosa aggirando la questione principale. “Sono sola con mia figlia”. La mia frase aveva un doppio significato. Lui lo colse. “Mimma può venire anche lei”, decise. “Allora le vostre valigie dovranno essere pronte per domattina presto!”. “Saranno pronte in cinque minuti”.
La sera, più tardi, mi recai a casa loro un’altra volta per verificare che la decisione repentinamente presa non si fosse nuovamente capovolta. Ma le cose sembravano rimaste come le avevo lasciate. La madre era da sola a casa, padre e figlia erano andati in paese per accomiatarsi dagli amici. “Se Mimma e Domenico vivono in Germania, forse possono trovare un appartamento, e io potrei raggiungerli con Pina”, rifletteva, e le sue parole avevano il tono di una preghiera. “Mio marito e il mio figlio maggiore potrebbero anche loro trovare un lavoro là”. Ne convenni. Questa donna che a 44 anni passava già per vecchia, per quanto non ne avesse affatto l’aspetto, aveva ancora aspettative per la sua vita, anche se vaghe. Voleva vedere riunita l’intera famiglia intorno a sé, lontano dai vicini “invidiosi”. Ancora, voleva sottrarsi al controllo sociale del paese, nonostante ne avesse interiorizzato così profondamente le norme. Non ambiva a lavorare.
No, voleva solo prendersi cura della sua famiglia. E Pina, la figlia leucemica in quel momento ricoverata in ospedale, sarebbe potuta andare in una vera scuola e avrebbe potuto godere di cure mediche appropriate. La madre voleva sottrarsi al villaggio perché riteneva le scarne istituzioni sociali del posto responsabili della morte di uno dei suoi bambini. Quando il suo figlio più piccolo era gravemente malato, il medico gli aveva dato delle medicine sbagliate, lei ne era convinta. Dopo la morte del bambino aveva maledetto il medico augurandogli una morte precoce e ai suoi figli un destino da orfani. Tre anni dopo, mi raccontò Mimma con tremore, il medico era effettivamente morto di una malattia sconosciuta. Mimma tornò con il padre – strafelice. Mi accomiatai per tempo, perché volevo essere ben riposata per il viaggio. Mimma mi accompagnò a casa. “Tutto a posto?” le chiesi quando ci lasciammo. “Tutto per il meglio!”. Il mattino seguente Mimma venne a svegliarmi. “Che succede?” le chiesi, notando subito il suo umore cupo “Ha cambiato di nuovo idea. Dice che in Svizzera non c’è una casa in cui possa stare. Perché non posso stare nell’alloggio maschile”. “Però puoi stare da una mia amica finché non trovate una sistemazione migliore”, proposi. “oppure puoi venire con me in Germania e stare da me finché agli uomini non viene in mente un’idea”. Si strinse nelle spalle senza replicare. Andai subito a casa con lei.
Il padre era già in piedi, e così lo affrontai subito. Doveva tornare in Svizzera se voleva ottenere giustizia per il suo incidente. E a Mimma avrei badato io. Non sarebbe rimasta per strada. Se lo intendevo veramente… il padre acconsentì. Ribadì ancora tutte le mie proposte per imprimere loro più forza. E finalmente si intrapresero i preparativi del viaggio. Con Mimma andai a fare la spesa: una bottiglia d’anice, una bottiglia di cognac, del salame, del pane e 10 litri di vino erano le nostre provviste per il viaggio. Nel capoluogo, Catanzaro, facemmo sosta per fare visita a Pina in ospedale. La madre era venuta con noi, e sarebbe tornata in pullman con Pina, che quel giorno sarebbe stata dimessa. Prima ancora di recarci in ospedale, andammo al ristorante per mangiare qualcosa. Mimma mi bisbigliò: “Mio padre sta pensando di tornare a casa. Anche mia mamma sta cercando di convincerlo. Cosa facciamo?” Ero atterrita. Tutti gli sforzi di liberare Mimma sarebbero risultati vani? Il mio cuore sanguinava per Mimma, sballottata da un destino chiamato padre. Insistetti perché ripartissimo al più presto. Lontano da Catanzaro, superata la quale l’inversione di marcia non sarebbe più stata possibile. Perché poi avrei avuto in mano il volante. Accompagnammo la madre e Pina alla stazione. Se solo arrivasse presto un treno, che acceleri la decisione finale. Le valigie stavano ancora nella mia auto. Attendemmo per un tempo che pareva infinito. A causa di uno sciopero i treni erano in ritardo. Tutti si fecero impazienti.
Io ero oltremodo nervosa perché non capivo cosa si dicessero i genitori. Infine insistetti perché partissimo. Si sarebbe fatto troppo tardi, spiegai, avevamo ancora un lungo tragitto davanti a noi. Non era gentile lasciare la mamma e Pina da sole alla stazione. Ma temevo che il tempo non fosse dalla nostra parte e che il crescente nervosismo facesse definitivamente cambiare idea al padre. Con mia sorpresa il padre si lasciò convincere a partire. Le tre donne piansero: Pina, che si sentiva abbandonata da sua sorella, gemeva in modo da strappare il cuore. Posi fine alla scena con una veloce partenza. Libertà per Mimma! Cosa sentiva quando fummo finalmente in viaggio? Mentre il padre dormiva e lei fumava di nascosto, glielo chiesi. Si strinse nelle spalle e sorrise con quel suo sorriso speciale che adesso mi pareva esprimere al contempo speranza e timore. “Cosa diranno i miei fratelli in Svizzera quando mi vedranno?” Trionfo e sconfitta possono essere a un passo l’uno dall’altra. Io ero decisa a fare tutto quanto era in mio potere perché questo viaggio rappresentasse per Mimma una vittoria.
“Domenico dovrà rallegrarsi del nostro arrivo. E se non si rallegrerà per la tua presenza, allora non potrà rallegrarsi nemmeno per la mia”, la consolai. “Mimma, cosa ci fai tu qua?”, furono infatti le prime parole di Domenico quando ci vide. Frammischiato alla sorpresa, un barlume di gioia, ma anche un’inquietudine non trascurabile. Scendemmo dalla macchina e andammo a bere qualcosa. Iniziarono i conciliaboli. Capivo poco della conversazione, che si teneva in dialetto. Sedevo un po’ in disparte, e parevo esclusa da quanto stava avvenendo. “Allora, non sei contento di rivedermi?” chiesi a Domenico. “Sì ma per prima cosa dobbiamo vedere dove dorme stanotte mia sorella”. Nelle sue parole trapelava l’ira. Certo, non poteva esprimersi apertamente contro l’arrivo di Mimma, perché suo padre aveva acconsentito, ma gli era chiaro che mi ero immischiata. Contro la sua espressa volontà. “Non ti fa comodo che Mimma sia qui. Adesso però devi dimostrare di essere pronto a fare tutto per lei”, gli risposti con rabbia. “Chiudi la bocca!” – Domenico era molto irritato – “Da mia zia non c’è posto. Ma forse per una notte ci può pure dormire. Ma domani dobbiamo iniziare a cercare”. “Ma tu lo sai che può dormire da una mia amica.” “Non se ne parla proprio!” La mattina seguente il fratello maggiore non andò al lavoro.
Si era fatto carico di occuparsi della sorella. “Ci sono due fabbriche in cui forse può trovare lavoro”. Ci andammo. Nella prima non avevano bisogno di nuovo personale e nella seconda erano in ferie. “Devo tornare a casa”, disse Mimma angosciata. Ma non dovevamo rassegnarci così in fretta! Chiesi al fratello se non ci fossero altre fabbriche. Sì che c’erano, ma non aveva senso provarci. “Proviamo un’altra volta!”, insistetti. Ci rivolgemmo a numerosi uffici di collocamento. O non avevano bisogno di nessuno, oppure chiedevano a Mimma il suo permesso di soggiorno, di cui ovviamente non disponeva. Scoprimmo che era in vigore una nuova normativa che impediva alle ditte di conseguire permessi di soggiorno per dipendenti che non avessero già lavorato in Svizzera. Alla fine anch’io mi sentii sfibrata e pronta ad arrendermi. Proprio allora in un ufficio di collocamento ci fu spiegato che il padre, dopo 8 anni di lavoro stagionale in Svizzera, aveva il diritto a chiedere un permesso di soggiorno annuale che gli consentiva il ricongiungimento familiare. Non appena Mimma avesse avuto il permesso legale di soggiornare in Svizzera, poteva ottenere anche un permesso di lavoro. Ora tutto dipendeva nuovamente dal padre. Il giorno seguente accompagnai il padre da un amico medico e all’INCA. La sua situazione non era semplice. Doveva procurare nella sua ditta precedente la documentazione sul suo lavoro e sull’incidente occorsogli. Per quel giorno non potevamo fare altro. Scoraggiato dall’impossibilità di risolvere tutto facilmente, stava progettando di tornare di nuovo in Italia. Alla sua ditta non voleva andarci, lo fece capire chiaramente. Si sentiva in torto per essere partito a rotta di collo, in seguito a una lite che aveva probabilmente condito con salaci minacce. Non poteva aspettarsi un’accoglienza cordiale. Mi sentii una volta di più impotente. Potevo continuare ad aiutare Mimma se tutto dipendeva da qualche maschio cocciuto? Avanzai ancora una volta la proposta di portarla con me in Germania. Il padre era d’accordo. Per lui era un problema in meno. Con il fratello maggiore non potevo parlare, non avevo un buon rapporto con lui. Domenico si inalberò e addusse ogni tipo di ragione per dimostrare che non era una buona idea. Però contemporaneamente si scrollava ogni responsabilità di dosso sostenendo che il fratello maggiore non avrebbe mai dato il consenso. Inoltre sarebbe stata più protetta a casa, su questo erano tutti d’accordo.
“Tutti?!”, andai su tutte le furie, “Tutti tranne Mimma, che è la diretta interessata!” “Lei non ha nulla da dire!” “Lei non ha nulla da dire?! Ma dove viviamo? La derubate di ogni libertà personale. Non volete che le donne siano persone perché, fino a quando avete il potere su di loro, potete sempre sfogare su di loro in qualche modo le umiliazioni che subite. Non siete altro che re dei ranocchi nello stagno delle anatre! Ma non godrete di alcun miracolo. Quando le donne si rivolteranno una volta per tutte contro di voi, allora andranno fino in fondo. Sono più combattive di voi, anche se non volete ammetterlo”. Presa dalla rabbia, parlavo più a me stessa che a lui. Per lui erano tutte “parole inutili”. E Mimma? Mimma dava ragione a lui, e non a me, continuando a sedere al suo posto muta e quasi immobile. Anche con Mimma ero furente.
Perché era così passiva? Perché non si faceva sentire in difesa dei suoi diritti e non segnalava che non avrebbe accettato tutto? Perché non avanzava rivendicazioni? Ma non accettava tutto. Continuava a battersi con determinazione ma in altro modo, non a parole come facevo io. Sapeva meglio di me che non avrebbe raggiunto i suoi scopi in quel modo. Il giorno seguente proseguì la ricerca del lavoro – senza uomini. All’ufficio dell’INCA le avevano detto che avrebbe avuto migliori opportunità nel settore ristorazione. Così telefonammo a tutti i locali della cittadina. In effetti in un caffè c’era bisogno di personale. Lì regnava un’atmosfera curata. Forse anche gli uomini non avrebbero sollevato obiezioni. Il proprietario voleva che Mimma, non appena avesse avuto sufficienti conoscenze di tedesco, servisse al banco. Il suo pensiero recondito forse era che la sua presenza graziosa avrebbe fatto salire gli incassi. Merda! pensai tra me e me ma forse in questo momento ci aiuta ad andare avanti. Disponeva anche di un alloggio per lei. Si sarebbe anche dato da fare per farle ottenere un permesso di lavoro, aveva un amico nell’ufficio stranieri della polizia, forse avrebbe potuto fare qualcosa.
Eravamo trionfanti. Ma non durò a lungo. Il fratello maggiore non voleva che sua sorella lavorasse in un caffè. Basta! Fine! Volevo andare a casa. Non vedevo più alcuna possibilità di fare qualcosa per Mimma. Ne avevo abbastanza degli scontri continui e della frustrazione di ritrovarsi sempre in mano il bastoncino più corto. Mi sentivo umiliata. Tutte le mie proposte, la mia disponibilità venivano accolte con non considerazione, addirittura con sospetto. Avevo motivi egoistici? Non mi importava della famiglia? Dovevo riconoscermi ingenua. Gli uomini della famiglia di Domenico forse non sapevano per chi stavo lottando, ma di certo sapevano bene contro chi. Perciò si difendevano strenuamente. Anche se Mimma non si difendeva urlando e strepitando, sapevano che la scintilla della protesta ardeva dentro di lei e che in un qualsiasi momento l’incendio avrebbe potuto divampare. Perciò doveva tornare a casa. Doveva tornare al sicuro perché gli uomini nella disperazione dell’emigrazione potessero conservare l’illusione del quadretto di un mondo integro in patria. Anch’io avevo imparato qualcosa. In ultima analisi non potevo aiutare Mimma. Cosa avevo da offrirle a compensazione di quella sicurezza emozionale che le garantivano gli uomini, che certo la derubavano di tutta la sua autonomia ma che le avevano destinato un posto in questo mondo? Io al contrario volevo scaraventarla nel caos privo di relazioni dell’industria capitalistica. IO lo volevo? O non era stata una decisione di Mimma che io avevo appoggiato?
Il mio zelo, confessai a me stessa, suscitava il sospetto di un interesse personale. Avevo appoggiato Mimma attirando su di me l’ira di tutti gli uomini della sua famiglia. Questo l’avrebbe aiutata? Ero perplessa. Mi ero proposta come motore, ma il movimento che si era innescato all’interno della famiglia non ero in grado di guidarlo. Ora stava a Mimma decidere se voleva e poteva prendere in mano il volante. Il mio commiato da Mimma fu freddo. Mi sentivo fallita e in qualche modo gliene attribuivo la colpa. Ancora non capivo perché non balzasse in piedi improvvisamente e non urlasse in faccia ai suoi uomini “Vado con lei!” “Sognatrice!”, mi rimproveravo, “sarebbe la strada più sicura per ritornare in Italia”. Anche da Domenico mi separai con distacco. Aveva dovuto sopportare molto per causa mia. Aveva mollato il suo buon posto di lavoro in Svizzera per seguirmi in Germania. Là si era ritrovato in una situazione di dipendenza da me. Gli avevo indicato il percorso da seguire attraverso le autorità, lo avevo sospinto da istanza a istanza, gli avevo dato del denaro e procurato un alloggio. Tutto questo poteva sopportarlo perché nella nostra relazione trovava una forza emozionale, anche se questa veniva di continuo scossa perché cercavo di chiarirgli che non poteva dedurne pretese proprietarie. Ora però si era insinuato qualcosa di nuovo nel nostro rapporto. Minacciavo di sottrargli una delle ultime nicchie di sicurezza emotiva – la sua posizione di maschio in una società patriarcale. Mi sentivo ferita da lui. Ma niente da cui dipendesse la mia sopravvivenza era stato compromesso. D’altro canto io avevo scosso le fondamenta della sua immagine del mondo. Doveva difendersi da me. “Non so ancora se verrò in Germania”, mi aveva detto la sera prima della mia partenza. “Ma non l’avevi già programmato? Sei iscritto al corso per saldatori! E’ la tua occasione per imparare una professione!” “Lo so”, disse stancamente, “ma per me c’è qualcosa di più importante nella vita.
Non posso continuare a vivere così. Quando ti telefono, mi dici di potermi vedere dopo due, tre giorni. Se io mollo qui tutto – il lavoro, la famiglia – non sarà per vederti una volta ogni dieci giorni. Se viviamo lontano tutto questo posso sopportarlo, ma se ci dividono solo cinque chilometri, tutto questo mi fa diventare pazzo”. “Ma il corso potresti incominciare a farlo”, obiettai conciliante, “così avremmo tempo per riflettere su di noi” “Ci ho già pensato. Io ti voglio, ma senza riserve. Vieni qua e vivi con me in Svizzera!” Il pensiero che avrei dovuto mollare tutto, lavoro, casa, amici per condurre con lui con ogni probabilità un’esistenza da casalinga, mi divertì, mi irritò e insieme mi commosse. Mi capiva davvero così poco dopo un anno che stavamo insieme? “Tu sai che così non va”, dissi solo brevemente “Anche se sogni una relazione onnicomprensiva con matrimonio, bambini e quant’altro, è importante per te fare questo corso”. Ci eravamo separati senza sapere esattamente se e quando ci saremmo rivisti. Mi sentivo doppiamente sconfitta.
La mia relazione con Domenico era in pezzi e non ero riuscita ad aiutare Mimma. Entrambi, da ultimo, avevano perso ogni fiducia in me. E nemmeno sapevo più su che cosa avrebbe dovuto basarsi questa fiducia. Così sono partita. E mentre sedevo a casa rimuginando su cosa sarebbe stata la cosa migliore per entrambi e cos’altro di diverso avrei dovuto fare, mi telefona Domenico. Stava bene. Suo padre era partito per l’Italia. E Mimma aveva trovato un lavoro in fabbrica. Era ancora in tempo a venire in Germania? – stop –
6 – ANDREA
Andrea è un giovane di Badolato emigrato in Svizzera. Vive, pensa e soffre come decine di altri ragazzi simili a lui e probabilmente come migliaia di altri giovani calabresi. Ma è più impetuoso, disorientato, ambizioso, egoista, sconsiderato, affascinante e bello di chiunque altro io conosca. Perciò mi sono innamorata di lui, e ho insieme la sensazione che lui non meriti affatto quello che sento per lui.
Ma cosa merita un ragazzo come lui? Ha solo 19 anni e consuma i suoi anni migliori faticando in un cantiere stradale svizzero come qualunque altro lavoratore. Ha un’apparenza così minuta, quasi fragile, eppure i suoi muscoli mi provocano dei brividi. Cosa merita? Forse quei 7 franchi all’ora che gli pagano, che piova, nevichi o bruci il sole? Nove ore e mezza lavora solitamente, spesso di più se riesce a reggere la fatica; per cinque giorni alla settimana, nove mesi all’anno. E’ uno stagionale.
E cosa fa al termine della stagione lavorativa, quando i cantieri svizzeri non hanno più bisogno di lui? Torna a Badolato e ricomincia a vivere. Con amici e cugini trascorre giorni e notti nei tre bar del borgo o sulla spiaggia in marina. Con gli amici condivide le stesse esperienze d’immigrazione e le trasformazioni che ha subito la sua coscienza. Vivono dei ricordi dei Paesi in cui hanno vissuto, ricordi che riempiono di stupore anziani, bambini e donne. Si scambiano storie d’amore e di discoteca che da quel momento risuoneranno cariche di un’aura incantata perché le frustrazioni, i pregiudizi e la situazione di merda cui deve far fronte un lavoratore edìle stagionale sono troppo dolorose perché possano essere ricordate nella loro cruda realtà. Sono troppo poco eroiche perché le si possa confessare ad altri.
Tutti sanno cosa è consentito e cosa non lo è. Ad esempio non è tollerabile che un italiano venga messo sotto in una rissa da quattro svizzeri. Se ad esempio questi quattro svizzeri (ma fossero anche soltanto due, dove sta la differenza?) spengono una sigaretta accesa sul braccio della vittima immobilizzata, la storia poi deve essere raccontata al contrario e il marchio diventare segno di coraggio che ci si è autoinflitti per poter vincere una scommessa. A casa si può tornare a parcellizzare la giornata come si vuole: mangiare, dormire, nuotare, stare al bar a giocare a carte, spendere, bighellonare in giro, quando, dove e quanto si vuole. Andrea può. Al contrario suo fratello diciassettenne lavora qui in un cantiere e Andrea gli rivolge un saluto ironico, quando gli passa davanti vestito in ghingheri con aria di superiorità. Anche dopo il lavoro non può permettersi di sperperare il denaro. Agli occhi della gente vive nell’ombra del fratello maggiore, apparentemente baciato dal successo.
E Domenica, la sorella, la si può comandare a bacchetta. Le è concesso di cucinare per Andrea, di lavare nel fiume i suoi panni – che lui cambia più spesso del necessario -, di stirarglieli, di rifargli il letto, di lavargli i piatti, di attingergli l’acqua, di servire gli ospiti quando gli va di portarsi a casa gli amici. Domenica – 16 anni – è totalmente assorbita dalle faccende domestiche e quest’estate è stata in tutto due volte al mare finora: una volta quando Andrea è tornato dalla Svizzera, e una seconda volta in compagnia di una zia. Andrea può permettersi di considerarsi esonerato dall’onere di prendersi cura dei fratellini più piccoli e di affibbiarli alle sorelle, mentre lui si diverte.
E poiché ad Andrea così tanto è consentito, nel paese gode di grande rispetto. E’ orgoglioso della sua famiglia, che ha una storia di affiliazione mafiosa. Suo zio che non era sposato ma aveva avuto tre figli da due donne diverse, era stato assassinato da qualcuno della cosca cui era a capo. Si mormora fosse stato qualcuno che voleva impadronirsi del denaro che teneva in custodia per l’acquisto di armi. Le sue modeste proprietà, al pari dell’obbligo di vendicarlo, erano passate in eredità al fratello (il padre di Andrea) e ai di lui figli. Perché i suoi figli non erano riconosciuti tali né giuridicamente né moralmente. Andrea fantastica di vendicare l’onta che si era abbattuta sulla famiglia attraverso l’assassinio dello zio, e non sono del tutto sicura che non lo intenda seriamente.
Andrea si vanta del suo essere un “bandito” in miniatura con due suoi amici di Badolato. Hanno iniziato marinando la scuola come tanti ragazzini o facendo saltare le lezioni grazie a telefonate in cui avvertivano della presunta presenza di bombe nell’edificio scolastico. La sua complicità pare si sia spinta fino all’assassinio di un ragazzino di 11 anni. Quando davanti a un bicchiere di birra ascoltai la sua confessione di un omicidio irrisolto (o della complicità in esso, o della sua semplice conoscenza), sentii un giramento di testa e non ce la feci ad indagare oltre. Mormorai soltanto che speravo non fosse vero e cambiai argomento. So che questi ragazzi non indietreggiano davanti ad alcuna bugia pur di colpire gli altri, ma so anche che non avrebbero esitazioni se si trattasse di salvare il loro orgoglio o il loro onore compromesso. Mentre ero a Badolato, un quattordicenne ha sparato a un diciassettenne, perché questi non voleva o non poteva saldare un debito di 30.000 Lire per un motorino. Il giovane assassino si nasconde in montagna ed è coperto da buona parte della popolazione. Nello stesso giorno un quarantaquattrenne è stato assassinato da non si sa bene chi per un motivo sconosciuto. (Ma colpevole e movente sono davvero ignoti?).
Andrea si fa vanto della sua virilità – e tuttavia si sente così piccolo. Come si spiegherebbe altrimenti che ha sempre bisogno della presenza dei coetanei in tutto quello che fa come se questi lo confermassero nei suoi comportamenti facendo lo stesso che lui fa? Fugge di continuo da sé stesso. Mentre noi, io e lui, inizialmente potevamo parlare di alcuni suoi problemi, adesso evita di trovarsi da solo con me perché questa intimità non ha comportato quella rapida gratificazione sessuale in cui lui sperava ma il confronto con me e di me con lui. All’inizio gli pareva accettabile parlare con me delle sue relazioni familiari, del suo lavoro, degli amici in Svizzera e delle sue esperienze laggiù perché io non ero in grado di mettere in dubbio nulla di quello che lui mi diceva. Ma quando ho incominciato a decifrare un po’ meglio i suoi rapporti e lui non poteva più spacciarsi con me e con se stesso da eroe, tutto il fascino dell’intimità era svanito. Non che l’obbligassi a parlare.
Semplicemente lui sapeva che io sapevo. E gli ponevo delle domande che dimostravano che io sapevo e a cui lui non era in grado di rispondere. Un esempio era il suo rapporto con Domenica. All’inizio voleva accreditarsi come il generoso fratello maggiore che a dispetto di tutte le tradizioni si preoccupava che la sorella potesse divertirsi tanto quanto lui, che la sollecitava a prendere parte a feste e danze, che pur di vederla felice l’avrebbe lasciata andare a letto con chi voleva purché lo desiderasse davvero: a dirla in breve, come fautore senza riserve della sua emancipazione.
Ma come si svolgeva la vita di Domenica in realtà? Non ha soltanto dei genitori che le proibiscono tutto quello che si svolge fuori casa, tranne l’andare in chiesa, le feste religiose e il bucato al fiume, ma ha anche un fratello la cui unica forma di comunicazione con lei risiede nel darle ordini. Quando chiesi ad Andrea perché Domenica non era presente alla prima festa cui prendemmo parte, arrivò a mentire, dicendo che quel giorno non ne aveva voglia ma che altrimenti era sempre presente.
Andrea ama la sua famiglia. Si prende cura del suo onore. Adora sua madre – come conviene a un meridionale che si rispetti. A quarant’anni aveva messo al mondo sette figli. Andrea la abbraccia impetuosamente e calorosamente quando la vede, e lei ride con la sua bocca quasi sdentata in maniera fresca e sincera delle strane manifestazioni di affetto del suo figlio maggiore che lei contraccambia nella stessa disinvolta maniera con cui le accoglie. Ma ogni incontro è fuggevole. Talvolta lui la informa se verrà a pranzo, il più delle volte la lascia nell’incertezza sulla sua presenza. E lei attende con pazienza, con la medesima pazienza e bonomia con cui attende il ritorno del marito dal lavoro o dal bar. La sua vita è fatta di lavoro e di attesa.
L’ha accettato, ed Andrea pure. Andrea sarebbe capace di uccidere chiunque mancasse di rispetto a sua madre, ma rimane a guardare mentre lei o i fratelli più piccoli portano pesanti ceppi di legno, secchi d’acqua o bombole del gas. Quando è lontano, pensa con calore al senso di sicurezza che gli trasmette la sua casa, ma quando è lì, non passa nemmeno un intero giorno da sua mamma. Quando andò con lei a Soverato a comprarsi dei nuovi abiti da lavoro, per la prima volta da quando era tornato trascorsero diverse ore insieme. Per i fratelli più piccoli, che hanno un aspetto davvero cencioso e denutrito, quel riccastro di fratello maggiore, che con gli amici al bar non manca mai di ostentare generosità, non comprò nulla. Ogni mese manda a casa dalla Svizzera 150 franchi. E con ciò ritiene saldati i suoi debiti con la famiglia.
Ma davvero deve qualcosa alla sua famiglia? Chi sono per addossargli la colpa della miseria della sua famiglia? Non ha tutti i diritti a cercare di farsi una sua vita? Potrei rispondere gioiosamente di sì a questa domanda se avessi la sensazione che almeno lui trovasse la sua vita degna di essere vissuta. Ma cosa sente veramente quando trascorre la notte gozzovigliando e poi trangugiando caffè freddo nel tentativo di reggersi ancora sulle gambe? Conosce lui stesso il confine tra quello che gli piace e quello che fa solo per mantenersi coerente con l’immagine che vuol dare di sé? Davvero non ha alcuna paura quando qualcuno lo minaccia di morte?
“Ho paura solo quando sono morto!” mi ha detto e ha indicato una cicatrice sotto il braccio lunga 12 centimetri, ricordo di una coltellata ricevuta, e sotto di questa un’altra cicatrice più piccola testimonianza della ferita arrecata da un proiettile. A sentir lui le cicatrici sarebbero il frutto di una lotta con il fratello di un’amica che Andrea aveva messo incinta e che però non voleva sposare perché si sentiva troppo giovane per questo. Piuttosto preferì pagare un aborto (1900 franchi) e sostiene di essere contento che ora questa ragazza sposerà un altro.
Andrea non ha paura di nessuno ma fugge permanentemente da se stesso. Fugge dalla situazione senza scampo di Badolato in cui tutti si conoscono e in cui da tutti in un certo senso ci si deve guardare, in cui le tradizioni sono diventate insopportabili e insensate. E contemporaneamente le accetta perché in qualche modo gli offrono un’identità, gli danno un punto di riferimento, perché lui qui “è qualcuno”, perché la gente qui, per via della storia mafiosa della sua famiglia, ha paura di lui e della sua famiglia, perché lui è cresciuto qua e perché persino ciò che vi è di minaccioso non gli risulta estraneo.
In Svizzera è diverso. Lì vive con la famiglia di suo zio in una sorta di ghetto, da cui tenta di evadere rifugiandosi in discoteca ogni sera libera. Ma lì non trova alcun riconoscimento. Successo o sconfitta si misurano dal numero di ragazze che si riescono a spartire ma il contatto con una singola di loro o in generale con la gente del posto non riesce a stabilirsi. Agli occhi dei colleghi ci si può affermare solo se si riesce a conseguire uno status symbol. Qui però l’asse vincente non è la forza fisica, la bellezza o la tradizione di famiglia, qui il modello da imitare, comprando automobili o girando tronfi vestiti di seta e di velluto, sono i ricchi impotenti. Quale svirilizzazione per chi è abituato ad agire sferrando pugni e facendo a botte! L’uso delle proprie mani con il contratto di lavoro viene ceduto al proprio capo e con il guadagno si conquista solo ciò che promette di renderci più simili al capo.
Andrea il forte è impotente rispetto al sistema che gli succhia via la sua forza lavoro ma che per il resto lo lascia inerte, privo di stimoli. Sgobba per potersi permettere le vacanze a Badolato ma poi anela a fuggire di nuovo dalla stagnazione che qui paralizza l’economia e le persone. Vuole così tanto dalla vita ma le sue aspirazioni non si concretizzano in altro modo che nell’aspettativa che gli uomini gli mostrino rispetto e le donne lo servano. Posso renderlo consapevole della tenaglia in cui si dibatte? Non ne sono stata capace. Mi ha posto un netto rifiuto. Ma perché mi stupisco? Cosa posso offrirgli? Quello che gli manca non è una donna che per hobby cerca di portare i lavoratori italiani a una coscienza di classe, ma un movimento dei lavoratori che gli insegni la solidarietà, e amorevoli relazioni con donne che non si lascino opprimere da lui ma che nemmeno vogliano metterlo sotto tutela. Ma dov’è questo movimento di cui Andrea ha bisogno e che di Andrea ha bisogno? Non c’è, né a Badolato né a Wetzikon. Ma Andrea ha solo 19 anni. – stop –
7 – VITA D’EMIGRANTE
Sono nato il 12 ottobre 1953 a Badolato, in provincia di Catanzaro. Della mia infanzia ricordo soltanto che non ero quasi mai a casa. Per quanto indietro spinga i miei ricordi, mi vedo girovagare con gli altri bambini senza alcunché di particolare da cercare o da fare. Nemmeno dopo la fine della scuola – quando ancora andavo a scuola – volevo tornare a casa. Affidavo i libri a mia sorella e prima che potesse protestare mi ero già dileguato. Ne facevamo di tutti i colori: cacciavamo uccelli e topi, e mangiavamo quello che riuscivamo a trovare. Una volta mi sono arrampicato su un camion in movimento. In qualche modo devo essere cascato.
In quell’occasione mi sono rimediato la cicatrice qui sul capo. Sono rimasto privo di sensi, tanto che tutti pensavano che fossi morto. Ma è passata anche questa. Per il resto non sono mai stato davvero malato. Sentivo male solo quando buscavo le botte. Di quelle mio padre non era avaro. Gli bastava prendere la cintura e già mi accucciavo in un angolo. Una volta – dovevo essere ancora piuttosto piccolo – ho portato a casa limoni rubati. Pensavo che avrei fatto felice mia madre. Ma mio padre me le diede di santa ragione. E poi mi costrinse a riportare i limoni là dove li avevo presi.
Con mia madre mi sono sempre inteso bene. Rimaneva a casa tutto il santo giorno e c’era sempre quando avevo bisogno di lei. Faceva per me quello che poteva. Ma una volta ho avuto paura per lei. Avevo nove anni quando è nata la mia sorellina più piccola. Mia madre urlava dal dolore perché la piccola voleva uscire ma stava in una brutta posizione. La si dovette rivoltare quando era ancora nel ventre di nostra madre. Io non sapevo cosa stava accadendo, sentivo solo mia madre urlare. Irruppi nella stanza dove giaceva ma venni subito sbattuto fuori. Odiai la piccola perché aveva fatto così male a mia madre. Solo quando tutto fu finito e mia madre tornò ad essere la stessa di prima riuscii a provare gioia.
Eravamo cinque fratelli. Uno dei miei fratelli, il più piccolo, è morto. Soffriva di anemia ed è sempre stato debole. A dire il vero non era nemmeno un vero maschio. Dopo la scuola accompagnava a casa la sorella maggiore, andava con lei a fare la spesa e stava molto in casa. Aveva una bella calligrafia, molto più bella della mia, per quanto fosse più piccolo, e aveva anche letto dei libri. La sua morte ci colse di sorpresa. Era una mattina presto e mia madre stava cuocendo il pane nel forno. Si era alzato molto presto per guardarla impastare.
Lo faceva quasi sempre. Ma quella volta si sentiva debole – molto debole. Mia madre mandò subito a chiamare il medico. Doveva praticare a mio fratello delle trasfusioni di sangue. Ma gli diede solo una medicina per il cuore. Allora mia madre fece venire un altro medico dal paese vicino ma anche questi non fece nulla. Mio fratello voleva rialzarsi ma non riusciva nemmeno a muovere gli arti. Verso mezzogiorno era già morto. Mia madre era fuori di sé dal dolore. Urlava e malediceva il medico che gli aveva dato la medicina sbagliata.
Anche la mia sorella più piccola aveva la stessa malattia di mio fratello. I medici dicono che entrambi i bambini si sono ammalati perché il latte di mia madre era cattivo. Mia madre era nervosa quando erano appena nati. Non avevamo molto denaro, e lei doveva far sì che tutti potessimo mangiare a sufficienza. Provvisoriamente andò anche a lavorare. Trasportava pietre per il cantiere stradale. Le portava in ceste sopra la propria testa. Era molto dura per lei, ma cos’altro poteva fare?
Mia sorella deve recarsi regolarmente in ospedale a Catanzaro per fare delle trasfusioni. Una o due volte al mese deve rimanere in ospedale per un’intera settimana. Ciò le ha impedito di frequentare la scuola. Si stanca sempre molto in fretta. Per questo ho un affetto particolare per lei. Le porto sempre qualcosa quando torno a casa. Adesso sta imparando anche a scrivere. Già talvolta riesce a scrivermi un’intera lettera tutta da sola. Guarda qua, questa foto me l’ha mandata lei di recente. Non è carina?
Anche l’altra mia sorella è carina. Avrebbe potuto sposarsi subito, se solo avesse voluto. A lei non ho mai voluto così bene. Certo, è pur sempre mia sorella, farei qualunque cosa per lei. Ma è un affetto più freddo e distaccato. Da bambini abbiamo sempre litigato parecchio. Adesso non lo facciamo più perché lei fa sempre quello che le dico.
Anche con il mio fratello maggiore sento meno affiatamento. Ha cinque anni più di me e prima era molto più forte di me. Allora dovetti incassarne parecchie. Ma successivamente sono riuscito a restituirgliele. Del resto non abbiamo mai avuto molto a che vedere l’uno con l’altro. Lui aveva i suoi amici e io i miei.
Mio padre è sempre stato un emarginato in famiglia. Prima con lui ci scontravamo di rado ma nemmeno l’amavamo. Era sempre molto severo. Non trattava bene nemmeno mia madre. Spesso la picchiava. E noi allora lo odiavamo. Ha sempre avuto una o due amanti in paese. Questo faceva molto male a mia madre. Una volta ha persino portato a casa la sua amante. Divideva lo stesso letto con lei e con mia madre. Mia madre ha pianto molto. Quando finalmente ha detto basta, lui l’ha minacciata. Quasi un anno è durata questa storia. Poi mia madre ha detto che non ce la faceva più e lui allora ha scacciato l’altra donna.
Mio padre era un lavoratore occasionale prima di andare in Svizzera. Sgobbava di tanto in tanto per due mesi in un cantiere, poi per un mese rimaneva disoccupato, poi trovava di nuovo un lavoro e rimaneva di nuovo a casa. La sua posizione a casa era altrettanto instabile. Nessuno si preoccupava davvero che lui ci fosse o meno. Non posso dire che facessimo la fame nel vero senso della parola quando lui era disoccupato. Ma nemmeno so come mia madre riuscisse ad apparecchiare in tavola. E’ vero che avevamo pur sempre un orto e tenevamo un maiale e delle galline. In questo modo l’essenziale non ci mancava.
Il primo della famiglia ad emigrare è stato mio padre, circa otto anni fa. E’ andato in Svizzera come stagionale. Ogni anno lavora nove o dieci mesi, per lo più come manovale per una impresa di costruzione stradale. Poi torna a casa e ci rimane due o tre mesi. Lì non fa proprio nulla. Si sbronza, passa la notte con le sue amanti e di tanto in tanto lavora nell’orto. Mia madre soffre sempre molto quando lui è a casa, ma soffre anche senza di lui. Lui ha vissuto in Svizzera abbastanza a lungo da poter richiedere un permesso di soggiorno di durata annuale. Ma non se ne cura. Eppure questo porterebbe dei vantaggi alla famiglia.
Mia madre di tanto in tanto vive da lui in Svizzera, e anche le mie sorelle ci sono già state due volte. Ma possono andarci solo con visto turistico e rimanerci per non più di tre mesi. Se mio padre avesse un permesso di soggiorno annuale, potrebbero abitare tutte in Svizzera e non dovrebbero più tornare sempre in Italia. Ma mio padre è un po’ strano. Forse non vuol cambiare il suo status qui in Svizzera semplicemente perché non vuole rimanere qua. Mette in conto la sofferenza della sua famiglia pur di non dover mettere radici.
Mio fratello ed io siamo emigrati subito dopo la scuola. Mio fratello ha la licenza media. Sa scrivere proprio bene. Ma io allora ancora non sapevo cosa rappresenta la scuola per la vita. Ho lasciato la scuola a 13 anni. Allora era ancora possibile, oggi bisogna andare a scuola fino a 15 anni. Volevo andarmene via da Santa Caterina per vedere e sperimentare qualcos’altro. Ho seguito mio padre e mio fratello in Svizzera. Avevamo due stanze. Per quattro mesi mi sono occupato dei fabbisogni domestici. Quando non c’era niente da fare in casa ero in giro in bicicletta. C’erano anche altri ragazzi italiani della mia età con cui uscivo.
Ma in genere passavo molto tempo da solo. Non è stato un brutto periodo quello. Ero molto autonomo. A dire il vero continuo ad apprezzare la solitudine. Certo, mi piace stare con gli amici. Ma quando sono preso da qualcosa, allora devo ritrarmi. Non sono come mio fratello che mostra sempre tutti i suoi stati d’animo e ne parla anche. Io non riesco a parlare con nessuno dei miei problemi.
Dopo quattro mesi in Svizzera sono di nuovo tornato in Italia. Non sapevo esattamente cosa ne sarebbe stato di me. Ho aspettato. Di tanto in tanto trovavo un lavoro, talvolta in un cantiere, talvolta nella costruzione di una strada, talvolta come boscaiolo. Ma non era mai qualcosa di definitivo. Dopo otto mesi mio fratello è tornato per le vacanze. Nel frattempo aveva trovato in Germania un lavoro in una tessitura, nelle vicinanze di Düsseldorf, e aveva procurato un posto di lavoro anche per me. Sono tornato con lui e dovetti iniziare a lavorare subito la mattina successiva al mio arrivo. Avevo solo 14 anni e non avevo documenti. Al caposquadra abbiamo detto che ne avevo 17. Dovevo sorvegliare diversi macchinari. Ad esempio, quando un filo si spezzava dovevo riannodare i due capi. Quando il rocchetto si esauriva dovevo sostituirlo.
Sgobbavo al pari di un uomo, tutto doveva essere eseguito con rapidità. Facevo lo stesso lavoro degli altri ma per meno soldi, perché ero ancora giovane. Però erano lo stesso un sacco di soldi, circa 800 marchi. Non dovevo nemmeno pagarci le tasse perché lavoravo in nero. Però non avevo nemmeno l’assicurazione per la malattia o per gli infortuni. Ma per me era lo stesso. Guadagnavo, quindi ero un uomo. Lavoravo come un uomo e mi sentivo tale.
Ma quel periodo è stato molto duro. Per quanto guadagnassi un sacco di soldi, non ne avevo mai per me. La ditta versava la mia paga a mio fratello. Cosa ne abbia fatto non lo so. Si comprava un sacco di vestiti e mandava anche qualcosa a casa. Ma il grosso lo spendeva nel fine settimana. Il sabato usciva presto di casa e tornava solo la domenica a notte fonda – con le tasche vuote. Quando gli chiedevo anche solo 10 marchi mi derideva: “A che cosa ti servono i soldi, puoi pure rimanere a casa così non hai bisogno di soldi!” Non metteva da parte nemmeno abbastanza soldi per comprarci da mangiare a sufficienza.
Così accadeva che dovessi lavorare tutti i giorni da mattina a sera senza nemmeno un boccone nello stomaco. Una volta ero così arrabbiato con mio fratello che gli puntai persino un coltello contro. Dopo questo episodio le cose sono andate meglio tra di noi.
Allora ho avuto anche il mio primo rapporto sessuale con una ragazza di vent’anni. Mio fratello mi prendeva con sé talvolta nel fine settimana nel suo lungo peregrinare da un bar all’altro, e una volta mi ha portato da una ragazza da cui andavano tutti. Non ebbi una relazione con lei, ci andavo solo di tanto in tanto. Gli altri pensavano semplicemente che dovevo farlo, altrimenti non sarei stato un vero uomo.
Dopo dieci mesi mio fratello ed io siamo tornati di nuovo in Svizzera. Mio padre voleva che la famiglia si riunisse. Per un anno ho lavorato come lavapiatti in una locanda. Anche allora non avevo ancora documenti. Guadagnavo 400 franchi più vitto e alloggio. Il capo era un nostro conoscente. Diceva di avermi assunto per fare un piacere alla mia famiglia. Ma dovevo lavorare sodo, dalle 12 alle 14 ore al giorno, a seconda di quanto c’era da fare. Questo lavoro non mi è mai piaciuto. Dovevo farmi comandare da tutti. Ma ero ancora quasi un bambino e per di più non avevo documenti. Dovevo già essere contento di avere un lavoro.
Solo nel 1968 ho potuto lavorare in regola. Sono stato assunto dalla ditta dove lavorava mio padre e lavoravo con pala e piccone. Questo lavoro invece mi piaceva. Ma era dura, soprattutto quando pioveva e faceva freddo. Allora non c’era modo di ripararsi. Perciò dopo un anno ho cambiato di nuovo lavoro. Ho trovato da lavorare come autista di spianatrice. E’ quanto faccio ancora oggi, per quanto sia cambiata nel frattempo la ditta per cui lavoro. La mia mansione in sé è più monotona di quelle eseguite fuori: sempre gli stessi movimenti, sempre lo stesso pezzo di strada davanti a me. Ma se non altro rimango all’asciutto quando piove. Di tanto in tanto avviene che debba darmi da fare con la pala, quando ad esempio in un certo posto ho terminato di lavorare con la spianatrice e prima che il lavoro si trasferisca in blocco in un altro luogo. Anche questo rappresenta un diversivo, e riacquisto di nuovo la percezione del mio corpo.
Anche mio fratello ha lavorato per un po’ nella cantieristica stradale. Ma poi ha fatto l’imbianchino. Un apprendistato non l’ha mai fatto, ma se la cava ugualmente bene. Sa anche disegnare, ritratti e cose di questo genere. Giacché è andato a scuola per più tempo, sa anche scrivere molto meglio di me. In passato ci siamo spesso bisticciati ma ora vado d’accordo con lui. Sono un po’ più forte di lui e questo lo fa terribilmente arrabbiare. Per questo preferisce evitare gli scontri. Lui mi racconta tutto di sé, le sue storie d’amore e tutto il resto, per quanto sia molto più vecchio di me. Ma di me non gli dico nulla. A dire il vero andiamo più d’accordo quando non siamo insieme, quando lui è in Italia e io qui o viceversa. Allora sentiamo nostalgia l’uno dell’altro, ci scriviamo delle lettere o anche ci telefoniamo. Quando però siamo di nuovo insieme litighiamo un sacco.
Io veramente non cerco lite. Con nessuno. Se mi si lascia in pace sono contento. Altrimenti può ben accadere che perda il controllo. Una volta ero in discoteca con un amico e con due ragazze. Si sono avvicinati due svizzeri che volevano sedersi al nostro tavolo e mandarci via. Li abbiamo ignorati perché erano ubriachi. Ma improvvisamente una bottiglia di vino rosso è volata sopra il nostro tavolo infrangendosi contro la parete. Il vino è schizzato macchiandoci di rosso, soprattutto me e la ragazza che mi sedeva di fronte. I nostri abiti migliori erano rovinati. E poi la bottiglia avrebbe potuto colpire qualcuno! Mi alzai subito, afferrai uno dei due e lo trascinai fuori dal locale: lo colpii alla fronte, poi allo stomaco e poi ancora in fronte. Era brillo, non è stato difficile. L’altro mi ha afferrato da dietro. Gliene assestai uno anche a lui. Ma nel frattempo il primo si era rialzato, e ne ho buscate parecchie. Il bar dietro di noi si era svuotato.
La polizia è arrivata. Ma quando vide che avevamo solo fatto a pugni e che nessuno aveva messo mano a coltelli o a pistole si preoccuparono solo di dividerci. Non fecero altro. Se gli aggressori fossero stati italiani avrebbero di sicuro fermato qualcuno. Anche un’altra volta sono stato coinvolto in una rissa, al termine della quale è intervenuta la polizia. Anche in quel caso non hanno fatto nulla perché l’oste ha confermato che era stato l’altro a iniziare. Io penso che ci si debba difendere se si è aggrediti. Non si può accettare tutto! Per potermi difendere decisi di imparare la boxe. Dopo poco però ho smesso perché un colpo mal assestato mi aveva rotto il naso. A dire il vero era stata colpa mia. Il pugno era diretto in fronte ma all’ultimo secondo ho alzato lo sguardo. Allora ho intrapreso lo judo. Costava 30 franchi l’ora. Per un mese andai due volte alla settimana, ma mi costava troppo. Sono pur sempre in grado di atterrare qualcuno se serve.
Da circa nove mesi mia madre abita da noi. All’inizio stavano da noi anche le mie sorelle, poi sono state rimandate in Italia. E’ meglio così. Cosa ci fanno qui? La piccola non può nemmeno andare a scuola perché le donne sono qua illegalmente. E la maggiore è persino più al sicuro in Italia. Là dormono a casa di una vicina, una vecchia che bada a che tutto sia in ordine. Durante il giorno si occupano della nostra casa e dell’orto.
Inoltre le mie sorelle hanno dovuto tornare in Italia perché mio padre – in quanto stagionale – non aveva diritto all’appartamento aziendale e tutti noi abbiamo dovuto lasciare l’appartamento. Allora è ricominciata la ricerca di un alloggio. Da quattro mesi abitiamo qua. Abbiamo due sottotetti e un bagno. Non c’è spazio per tutti. Mio padre ha avuto dalla ditta una stanzetta. Ci tiene persino un frigorifero e un fornelletto. Dapprincipio abitavo con lui, ma poi ho dovuto andarmene, quando ho cambiato posto di lavoro. Così ora sto qua con mia madre e mio fratello. Si sta un po’ stretti e d’inverno fa anche terribilmente freddo. Sì, e l’intonaco casca dalle pareti e dal soffitto. E abbiamo anche qualche topo come coinquilino. Ma queste camere le abbiamo trovate privatamente e non siamo costretti a trasferirci di continuo. Certo, al piano di sotto abita la proprietaria con una vecchia signora.
Sono entrambe pazze. Non si può far rumore e la sera dopo le sette non si può nemmeno ascoltare la musica. Inoltre si arrabbiano se vengono a trovarci troppe persone. Nessuno può pernottare da noi, lo si può fare solo di nascosto. Se qualcuno vuole dormire da noi deve sgusciare sotto le loro finestre. Loro guardano sempre fuori e controllano chi va e chi viene. Ma non è facile trovare qua qualcosa di ragionevole.
Mio padre non mette quasi mai piede qua. Fa visita a mia madre solo quando sa che non siamo in casa né io né mio fratello. Quando uno di noi fa ritorno se la svigna subito. Con lui non andiamo proprio d’accordo. Non so esattamente perché ma lui è un po’ strano. Si arrabbia sempre, in particolare per via di mio fratello. Pensa che mio fratello sperperi troppi soldi e non mandi nulla alle mie sorelle. Neanch’io mando molto in Italia. E perché dovrei? Voglio bene alle mie sorelle, certo, ma perché dovrei risparmiare se mio fratello getta via il denaro. Mia madre va regolarmente da mio padre, cucina, lava e gli tiene in ordine la casa.
Talvolta dorme anche da lui. Ma questo il capo non lo deve sapere. Una volta l’ha beccata da lui e ha fatto una scenata. Questa casa non è un bordello e cose di questo genere. Il più del discorso mio padre e mia madre non l’hanno capito. La conclusione è che devono essere prudenti. Così per la maggior parte del tempo mia madre sta qua. Dice: “Il mio posto è accanto ai miei figli”.
Di tanto in tanto mia madre fa ritorno dalle mie sorelle in Italia. Scrivono sempre che hanno nostalgia di noi. Inoltre mia madre ogni tre mesi deve lasciare la Svizzera perché è qua con visto turistico. Ogni commiato da qua è drammatico. L’ultima volta avevamo messo in funzione un registratore per sentire canzoni calabresi. Lei riascoltava di continuo sempre la stessa canzone, in cui un emigrante si rivolge alla Madonna. Nell’ascoltarlo piangeva forte. Io le parlavo, poi ho spento il registratore. E nel farlo scoppiai a ridere. Era sempre così. Cosa potevo farci? Dovevo mettermi anch’io a piangere? Mentre attendeva il taxi sotto con accanto le valige, si sedette su una pietra, tutta raggomitolata su se stessa.
D’improvviso si levò in piedi e mi pregò di riportare sopra le valige. Partì solo la settimana successiva. Quando poi è di nuovo in Italia, le cose si rimettono a posto. Allora è il commiato dalle figlie a risultarle penoso. E’ condannata a doversi sempre accomiatare da qualcuno.
A dire il vero non volevo nulla di diverso da quello che la vita mi ha offerto. Ho sempre dovuto lavorare ed è giusto così. Per due volte sono stato segretamente fidanzato. La prima volta è stato qua in Svizzera due anni fa. Avevo un amico siciliano e una volta ho visto sua sorella. Notai subito che mi desiderava e anch’io la desideravo. Era molto bella. Di tanto in tanto l’ho rivista e abbiamo parlato di matrimonio e famiglia. Ma non voleva che nemmeno la sfiorassi. Quando andavo a trovarla a casa, c’era sempre qualcuno con noi in stanza. Come ci si può innamorare di una ragazza che non si può nemmeno toccare? Sedevo di fronte a lei su una sedia e non sapevo nemmeno bene cosa ci facevo lì.
Dopo qualche tempo le dissi che eravamo entrambi troppo giovani e che era meglio che non la vedessi più. Non mi ha preso sul serio, credeva che sarei tornato. L’ho rivista soltanto un’altra volta. Io ero in compagnia di altri e mi sono limitato a salutarla, senza parlare con lei. Allora ero davvero troppo giovane: avevo 18 anni e lei ne aveva 16 e andava ancora a scuola.
La seconda volta mi sono fidanzato in Italia con una ragazza di Badolato. Per più di un anno siamo stati insieme, la rivedevo sempre quando tornavo per le vacanze. Una volta eravamo insieme nella cantina di suo padre. Notavo che mi desiderava, e anch’io la desideravo follemente. Ci siamo amati. Era ancora vergine. Per quanto fossi sicuro di non averla messa incinta, si fece prendere dal panico e raccontò tutto a suo padre.
Quello divenne terribilmente furente perché era già una persona irascibile. Insisteva che la sposassi. Ma mi rifiutai. Non volevo ancora sposarmi. I miei amici che si sono sposati non possono più divertirsi nei bar come noi. Hanno le loro preoccupazioni, i figli e così via. La ragazza non ebbe più il permesso di vedermi. Meglio così. Del resto, stavo quasi sempre in Svizzera, e come ci si può innamorare se non ci si vede quasi mai?
Prima o poi mi sposerò di certo. Mi piacerebbe avere 50 figli, se potessi. Mi piacciono i bambini. Più di tutto vorrei avere subito un figlio maschio. Dovrebbe assomigliarmi – per aspetto fisico e carattere. E mi assomiglierebbe davvero, sarebbe sangue del mio sangue. Vorrei essere ancora giovane quando i miei figli saranno già grandi. In questo aveva ragione mio padre. Il suo primo figlio l’ha avuto a 18 anni, e ancora oggi non è anziano. Anche una figlia mi piacerebbe avere ma più di tutto un figlio maschio. Mia moglie mi amerà.
Così come mia madre per tutta la sua vita amerà mio padre, per quanto lui l’abbia fatta soffrire così tanto. Non potrebbe nemmeno sognare di andare con un altro uomo. Se mio padre venisse a sapere che si è accompagnata con un altro, la ucciderebbe subito. So che qui in Svizzera le cose vanno diversamente. Forse per le donne non è bello avere sempre soltanto un uomo ma sono sicuro di essere in questo figlio di mio padre.
Ma quando mi metto a riflettere, come sto facendo ora, non so bene che senso dare alla mia vita. Lavoro tutto il giorno e i miei pensieri si fermano su questo e su quello. La testa non è presa dal lavoro. A lavorare sono solo i miei piedi e le mie mani, la testa non ne è coinvolta. Così ho molto tempo per pensare. Ad esempio penso a cosa voglio fare la sera, se uscire o coricarmi subito. O penso alla persona cui voglio bene, o ancora a un film. Ma tanto più penso quanto più lento scorre via il tempo. Talvolta i giorni mi paiono lunghi quanto un intero anno, soprattutto se sono triste. In altri giorni il tempo scivola rapido. Ma ogni giorno è sempre la stessa vita. Se qualcosa mi tiene occupato, vorrei avvolgermi completamente nei miei pensieri e nei miei sentimenti e non dovermi più preoccupare di null’altro. Ma quando lavoro non è possibile.
Devo pur sempre badare a quello che faccio. Mi è già accaduto che per un istante non facessi caso a quanto stavo facendo. E’ lì che si annida l’incidente. Di recente non ho sentito il richiamo alla pausa. Ho continuato a lavorare. Qualcuno mi si è avvicinato per urlarmi nelle orecchie che c’era la pausa e mi ha canzonato. Per il resto sono un bravo lavoratore. Sono tutti contenti di me anche se io sono stanco. Ma quando sono sprofondato nei miei pensieri, non posso dare garanzie.
La sera esco spesso o resto a casa e vado subito a dormire o al massimo sfoglio una rivista. Mi chiedo spesso che senso abbia tutto questo. Si lavora e si vedono sempre le stesse persone, si ascoltano sempre le stesse storie, si gioca a carte, si beve, si fuma, e molte delle cose che si fanno le si fa solo per occupare il tempo. C’è qualcosa che manca in tutto questo. Sposarsi e avere dei figli può essere la soluzione? Non lo so. Ma allora cosa dovrei cambiare? Se anche imparassi un lavoro – ad esempio quello di muratore – le cose non andrebbero poi troppo diversamente. O cos’altro potrei fare? (17 settembre 1973) – stop –
8 – ALLA RICERCA DI LAVORO
L’anticamera dell’ufficio assunzioni della ditta di macchine per scrivere è nera per via delle persone in cerca di lavoro. Siedono attorno a due tavoli di legno quadrati e spogli oppure attendono in piedi che ci si occupi di loro. Il loro atteggiamento è dominato dalla pazienza, non la pazienza che scaturisce da una speranzosa tolleranza, ma una pazienza intrisa di disperazione e rassegnazione. Un turco, al mignolo un enorme anello di latta dorata in cui è incastonata una grossa pietra rossa, si passa nervosamente i pochi documenti da una mano all’altra, contandoli ripetutamente nel timore che qualcosa manchi e nella speranza di non averne più bisogno. Un nero africano siede immobile su una sedia – da quanto tempo ormai?
Ha già avuto un colloquio? Il suo viso esprime sofferenza: non la sofferenza che si dissolve quando viene lenita ma una sofferenza incistata nella carne per via di una discriminazione che dura da generazioni. Attende e sa perfettamente che il suo turno verrà da ultimo. La maggior parte di coloro che cercano lavoro sono italiani, greci o turchi. Di tanto in tanto è un tedesco a varcare la soglia, ma se la cava in fretta. Le donne sono in minoranza. Si distinguono a malapena dagli uomini. Tutti hanno visi stanchi, avvizziti, pallidi, indossano cappotti scuri e tacciono immobili, senza speranza. Nonostante il grosso assembramento di persone c’è silenzio. Solo un mormorio soffocato serpeggia quando la porta si apre e si chiama il nome di qualcuno. Allora gli uni o gli altri si scambiano un sorriso sconsolato perché non è ancora giunto per loro il momento di essere liberati da quella fissità immota. Oppure qualcuno offre una sigaretta al vicino.
Nessuno sa se l’altro capirebbe se gli rivolgesse la parola. L’anticamera manca quasi del tutto di colori. Le pareti sono dipinte di un verde che tende al giallo e sono sporche, decorate solo da pannelli che decantano le qualità delle macchine per scrivere prodotte dalla ditta. Come se qualcuno in questa stanza potesse avere interesse per una macchina per scrivere Contessa! Chi attende qua e rimira i pannelli è a malapena in grado di compilare e mani i documenti principali. Nessuno fa caso alla pubblicità, anche se qualche sguardo vagante e carico di nervosismo si sofferma su di lei per qualche secondo. Uno jugoslavo tenta faticosamente con l’aiuto della graziosa moglie di decifrare parola per parola il modulo d’assunzione e a caratteri rigidi e con il massimo zelo inserisce nelle apposite righe le informazioni richieste.
Gli altri siedono tutti sprofondati in se stessi pensando a un’unica cosa: IL LAVORO. Ma a novembre e sull’onda della crisi del petrolio è difficile da trovare. Nessuno guarda fuori dalla finestra, la cui fila inferiore delle piccole lastre quadrate di vetro è coperta da una patina giallastra. Uno sguardo all’esterno non farebbe sentire più liberi: sotto corre una strada priva di alberi su un lato del quale si allineano edifici di fabbriche, mentre sull’altro si susseguono casermoni di case popolari prive di vita. Si fuma molto: per ammazzare il tempo, per soffocare la tensione. “Ho fumato sei sigarette da che son qui”, pensa uno che contabilizza il suo consumo di sigarette mentre si accende la settima, con in mente le 15 sigarette fumate la settimana precedente attendendo il suo turno presso una ditta per poi sentirsi dire che purtroppo non c’era posto per lui.
Un unico foglio scandalistico viene passato di mano in mano tra coloro che sono seduti attorno ai tavoli: un uomo ha colto in flagrante la sua giovane moglie in compagnia dell’amante e ha sparato a quest’ultimo, numerose rapine, sequestri e pagine e pagine di sport. Piccolo, al centro, il resoconto della guerriglia di strada che in Grecia è costata nove morti. Almeno i greci presenti in questa stanza saranno in grado di capire l’assurdità di questo modo di dare informazione? O anche loro, che provengono dalla campagna e sono qui nella Repubblica Federale Tedesca in cerca di salvezza, sono tanto estranei agli scontri di Atene quanto ai quotidiani fatti di sangue di Chicago o di Hong Kong? Sto accompagnando il “lavoratore ospite” italiano. Posso aiutarlo. Si mette in fila e trova lavoro. – stop –
9 – DOPO QUASI QUARANT’ANNI
Avevo dimenticato tutto. O almeno quasi tutto. Da qualche parte nella storia della mia vita erano riposte immagini che appartenevano a Badolato e che si ricollegavano a quelle due estati che avevo trascorso nell’Italia meridionale. Notti estive che avevo trascorso quasi in preda a uno stato di ebbrezza, tenere e selvagge. Al bar di Mario sul Lido una banda suonava la tarantella. E io ballavo, ballavo. Non conoscevo i passi ma ballavo e la folla intorno a me mi incitava. Da qualche parte stava anche Domenico. Sapevo che mi osservava perché era sempre presente, ovunque io fossi. Ma non me ne preoccupavo, ero tutta compresa da me stessa; ballavo per me stessa. Ballavo per esprimere la mia gioia di vivere, era la forma in cui la esprimevo. Qui l’avevo trovata. Alla folla sembrava piacere la mia irruenza, io le lasciavo libero sfogo.
Altri ricordi erano il profumo dei cipressi accarezzati dal sole, il frinire delle cicale, i panni lavati al fiume, il vino rosso denso. Dov’era sepolto tutto questo dentro di me? Quale ruolo aveva giocato Badolato nella mia vita? La seconda estate l’avevo voluta trascorrere con Domenico ma era andata diversamente da quanto avevo progettato perché era comparso suo padre e gli aveva ordinato di fare ritorno in Svizzera. Io vissi l’amicizia con Mimma che aveva qualcosa di misterioso e che era così diversa dall’amore che provavo per Domenico.
Domenico per un po’ aveva vissuto a Francoforte per godere della mia vicinanza e aveva trovato lavoro in una fabbrica. Quando lo raggiunse la coscrizione al servizio militare, insistetti perché tornasse. Se non lo avesse fatto, avrebbe dovuto volgere le spalle al suo Paese per sempre, in quanto disertore, e il suo status in Germania era tutt’altro che sicuro. Sapevo che questo avrebbe rappresentato la fine del nostro rapporto e glielo dissi anche. Lo amavo ma non vedevo alcun futuro con lui.
Lo avevo introdotto nella mia famiglia ma le nostre reti sociali erano troppo diverse. Occasionalmente lo avevo accompagnato dalle sue conoscenze calabresi a Offenbach, dove trascorreva il suo tempo libero nelle osterie in cui si incontravano i suoi conterranei. Ma tra i miei amici non si sentiva a suo agio. Parlava a malapena il tedesco, non aveva istruzione, non riusciva a integrarsi nel mio ambiente culturale. Domenico capì e partì. Mi telefonava di tanto in tanto e mi dichiarava di amarmi sempre. Le telefonate divennero più rade, e sempre più raramente mi chiedevo come stesse. Poi – dopo dieci anni – giunse una telefonata in cui mi comunicava che si sarebbe sposato. Fui contenta per lui e gli feci le mie congratulazioni. Mi rimanevano degli oggetti a ricordarlo: una bottiglia di liquore antropomorfa, in cui lui aveva visto delle rassomiglianze con me, una scatola da scarpe piena delle lettere che lui mi aveva scritto prima di venire a Francoforte, e alcune pagine del mio album fotografico piene delle foto del tempo che avevamo condiviso.
E poi un giorno piovve a ciel sereno una mail di Domenico Lanciano. Era uno degli amici che avevano contrappuntato la mia prima estate a Badolato. Quell’estate l’avevo trascorsa con un gruppo di amici di Francoforte e lui veniva celebrato come un barlume di speranza per un turismo che stava sbocciando in quel paese.
Domenico Lanciano mi raccontò della sua vita in cui anch’io avevo lasciato un’impronta. Ne fui felice e lo informai della mia vita presente. Articoli di giornale relativi al mio primo soggiorno a Badolato furono scannerizzati e trasmessi per posta elettronica insieme ad alcune foto dell’epoca. Per un breve periodo Badolato tornò ad essere presente per me. Poi risprofondò nella macedonia dei ricordi fino a quando – mentre stavo cercando vecchi documenti – mi imbattei nella soffitta della mia casa estiva in una smilza cartelletta in cui erano raccolti i “racconti di Badolato”. Iniziai a leggerli.
Allora furono di nuovo presenti: Domenico, Mimma, la loro madre Providenza, la tenera Pina, la sorella malata, anche il padre e il fratello per cui io non provavo simpatia. Che ne era stato della famiglia? Inviai a Domenico Lanciano i racconti e lo pregai al contempo, poiché periodicamente faceva ritorno a Badolato, di indagare su quanto fosse loro accaduto. Me lo promise e mantenne la parola. E allora lo venni a sapere: il padre, il fratello, la piccola Pina e infine anche Domenico e sua moglie erano morti. Solo Mimma e sua madre erano ancora in vita. Providenza abita a Santa Caterina Marina e Mimma è sposata e vive a Locri. Domenico Lanciano mi diede un indirizzo e un numero di telefono.
Non fu solo la curiosità a spingermi a spedire una cartolina a Santa Caterina. Volevo sapere che ricordo avessero conservato di me. Allora mi ero introdotta nella vita della famiglia e poi mi ero di nuovo sottratta. Volevo in un certo senso fare ammenda. Fui sollevata quando giunse la risposta di Mimma e questa esprimeva gioia. Ci eravamo incontrate, presto ci eravamo perse di vista ma ognuna di noi aveva conservato dell’altra un ricordo affettuoso.
Mimma mi invitò a fare visita a lei e a sua madre. Ci misi un po’ per decidermi ad acconsentire: sì, volevo rivederle, volevo visitare i luoghi in cui avevo vissuto esperienze così intense. Volevo verificare quali sensazioni avrei provato – quasi quarant’anni dopo.
Mi misi in viaggio con un’amica. Viaggiai più comodamente di allora quando macinavo in auto i 2000 km che mi separavano da Badolato. Il volo partiva da Lipsia ed atterrava a Napoli, poi dovevo prendere il treno fino a Santa Caterina Ionio. Trovammo la casa dove abitava Providenza. Non la riconoscevo più. Lei però mi strinse subito tra le sue braccia e pianse. Cosa significava per lei la mia presenza lì? Riapriva le ferite della perdita di suo figlio, e indirettamente anche degli altri suoi figli che se ne erano andati prima di lei? Poi Mimma scese le scale. Sì, ci conoscevamo proprio bene. Il suo modo di attendermi con le mie pietanze preferite me la rendeva inconfondibile. Sedevo nella piccola casetta a schiera anni ’70 e lasciavo vagare il mio sguardo. Alle pareti erano appese foto che risalivano a diversi momenti della vita della famiglia: Domenico a cavallo della sua motocicletta. Sì, proprio così era rimasto impresso nella mia memoria: con i capelli al vento e la camicia aperta, mentre sfrecciava in moto con chissà quale meta. Che ne era stato di lui? E com’era proseguita l’esistenza di Mimma?
Mimma era rimasta in Svizzera tre mesi. Tre mesi che avevano rappresentato per lei l’universo intero; era stata felice là. Aveva un lavoro, aveva delle amiche, viveva non più sottoposta al pugno di ferro della sua famiglia patriarcale e tuttavia protetta da una famiglia svizzera con le cui figlie corrispose poi ancora per un po’. Perché non aveva potuto rimanere lì? Suo padre si ammalò e tornò in Italia. Pretese che la sua figlia maggiore si prendesse cura di lui. Lei ubbidì. Dal 1974 al 1979 gli stette vicino, finché morì di cancro ai polmoni. Un po’ di tempo dopo morì anche il fratello maggiore di tumore alla laringe e infine la sorella minore Pina, malata di leucemia. Dopo l’estate in cui l’avevo conosciuta visse ancora dieci anni. Rivedo ancora il suo sorriso pallido. Quel sorriso mi venne di nuovo incontro dalla foto posta sulla tomba. Aveva 22 anni.
Nel 2001 Domenico morì di una malattia al fegato. Allora era già vedovo da dodici anni. Sua moglie era morta d’infarto. Non avevano avuto figli. Mimma rimprovera a suo fratello di non aver fatto nulla per curarsi o per risparmiarsi, nonostante sapesse di essere malato, anzi di aver evitato pervicacemente medici ed ospedali. Providenza ha dovuto accompagnare alla tomba quattro dei suoi cinque figli e non le rimane nemmeno la consolazione di un nipotino…
Perché anche Mimma non ha avuto figli. Ha sposato un vedovo, quando già non era più giovane. I precedenti pretendenti erano stati respinti dai fratelli. C’era ancora bisogno di lei in famiglia. Solo più tardi fu data in sposa a un uomo con cui non era mai uscita e che non aveva mai davvero potuto conoscere prima del matrimonio. Mimma si sentì espulsa dalla famiglia ma sperava comunque di trovare nel matrimonio qualche diversivo e anche di che mantenersi. Con suo marito si trasferì per otto anni a Torino ma lasciava il suo appartamento soltanto per andare a fare la spesa.
Il marito di Mimma ci mise l’auto a disposizione. Con Mimma andammo in montagna a Santa Caterina e a Badolato Borgo. La strada con tutti i suoi tornanti faceva riaffiorare dei ricordi. La vista spaziava sempre più in lontananza. La rada vegetazione risvegliò in me quella canzone che allora si sprigionava da tutti i mangianastri. “Sol alla valle, sol alle colline” con il suo ritornello “amara terra mia, amara e bella”. Sì, così era la terra qua: “amara e bella”. Una terra di cui non si poteva non sentire la nostalgia ma che non sapeva nutrire i suoi figli. E’ cambiato qualcosa oggi?
La nostra prima visita fu al cimitero. Mimma aveva portato fiori per suo padre, per suo fratello e per sua sorella. Qui c’era anche la tomba del fratellino piccolo, qui Providenza mi aveva raccontato la sua tragica storia. Raramente veniva qua, disse Mimma, e per sua mamma il viaggio era troppo faticoso. Lei conserva i ricordi dentro di sé, non ha bisogno di tombe. I defunti giacciono l’uno accanto all’altro, i legami familiari perdurano anche dopo la morte. No, Domenico non è sepolto qui ma a Badolato dove aveva messo su casa.
Mangiammo un gelato nel caffè che si affacciava sulla piazza del mercato. Qui ci saremmo seduti e avremmo atteso che si sprigionasse l’atmosfera delle vacanze. Meraviglioso il cuore del paesino con le viuzze strette, il camioncino che vende le angurie, gli anziani appagati dal loro oziare. Ma no, questa non era la Santa Caterina che avevo conosciuto. Dove stava la casa in cui avevo trascorso alcuni giorni felici con Domenico, dove la casa in cui avevo abitato con mia figlia Freyja e in cui Mimma mi aveva portato da mangiare? Percorremmo qualche vicoletto, passando accanto al palazzo nobiliare che ancora attendeva un doveroso restauro e arrivammo alla spianata ingombra di macerie ai margini del paese. La casa della famiglia di Domenico era stata demolita, la mia dimora di allora era una rovina.
Cosa sentivo? Avevo avuto una qualche idea di quello che avrei potuto attendermi? Con fatica riaffioravano le immagini di come apparivano una volta quelli che ora erano sentieri che solcavano uno spazio aperto e che allora erano viuzze strette fra le case. Mi sentivo come in un antico scavo archeologico: qui allora c’era questo e quest’altro, qui era accaduto questo e quest’altro – con la differenza che allora ero stata parte di questa storia, che aveva avuto ripercussioni nella mia vita. Passata è la storia – l’una come l’altra – quindi anche la mia. Significa qualcosa che io sia qui in cerca di tracce? Ma sì, qui stava la roccia su cui era ritta Mimma quando l’avevo fotografata con il suo vestito bianco e rosso che le avevo regalato quando ci eravamo accomiatate. Qui ci eravamo incontrate prima che suo padre sapesse della mia presenza. Qualcosa dentro di noi rivisse in questo istante, qualcosa che avevamo in comune, qualcosa che ci legava. La mia vita era corsa lungo binari ben diversi da quelli lungo i quali si era mossa la vita di Mimma ma qui ci riabbracciammo mentre la nostra amicizia nuovamente divampava.
La nostra prossima tappa era il cimitero di Badolato, che si trovava fuori dal paese. Qui di norma non ci sono tombe ma file di loculi adorni di fiori in colombari che racchiudono cortili quadrangolari. Accostammo a un loculo in terza fila la pesante scala di ferro. Mimma mi premette in mano un mazzo di rose artificiali che io dovevo infilare nel vaso dinnanzi alla lastra di granito della tomba di suo fratello. Salii sulla scala e tolsi da uno dei due vasi i fiori per sostituirli con quelli che mi aveva dato Mimma. Ero così vicina all’immagine e al nome inciso nel granito della persona che una volta mi era stata tanto cara. Era la stessa foto che Providenza fissa a casa sua quando pensa a suo figlio. Risaliva a una fase successiva della sua vita ma lo rappresentava esattamente come io lo avevo conosciuto, le mani raccolte in grembo, lo sguardo fisso davanti a sé, radioso. Non potei trattenermi dall’accarezzare quella foto. Quanto mi spaventai al mero tocco della mia mano la pesante lastra di pietra si staccò e con un boato cadde contro il loculo. Turbata guardai Mimma, ma lei si limitò a sorridere: “Sta reagendo alla tua presenza”, sembrava dire. Ero perplessa. Cosa dovevo fare per rimettere a posto la tomba?
Non c’era un appiglio che io potessi afferrare, solo i due vasi, che non parevano molto solidi, offrivano una presa. Quanto mi stupii quando, tirandoli, la pesante lastra andò a posto da sé. Ebbi un brivido, nonostante la calura. Cos’era accaduto? Con le ginocchia che mi tremavano scesi la scala. “Ti ha salutato” – disse lei, questa volta per davvero – “Ho accarezzato la foto centinaia di volte e non è mai successo niente. Ti ha dato un segno che ti ha riconosciuto”. “Forse”, balbettai, e rivolsi lo sguardo ancora una volta verso l’alto. La lastra stava al suo posto come se non fosse mai accaduto nulla.
Andammo in paese e visitammo la casa in cui Domenico era vissuto. Il piano inferiore era un cantiere, evidentemente doveva essere ristrutturato. Mimma ci guidò su per le scale ed aprì le persiane. Dunque era qui che aveva abitato. L’arredamento, la vetrinetta, la stanza da bagno tutto era lasciato come se qualcuno fosse andato in vacanza e dovesse tornare il giorno dopo. Sul comodino vidi per la prima volta la foto della donna con cui Domenico era stato sposato cinque anni, la cui tomba però non era accanto alla sua. Mi sembrava di stare in un memoriale. Dal balcone godevo la vista superba in direzione del convento. “Puoi abitare qui quando vuoi”, propose Mimma, “metto in ordine e sistemo tutto come piace a te”. Annuì ma dentro di me non avevo preso alcuna decisione se accettare l’offerta. Forse con Freyja, che era dispiaciuta che io non l’avessi portata con me perché evidentemente associava a Badolato dei bei ricordi di infanzia.
Andammo nella piazza del paese. Estraneo mi pareva il luogo in cui avevo vissuto durante quella mia prima estate. La casa esisteva ancora, la pompa di benzina lì davanti aveva lasciato il posto alla fermata del pullman, il caffè lì di fronte, davanti al quale stavano i ragazzi a chiacchierare con o senza vespa, aveva un aspetto più moderno e grazioso. Ma … ma la collina su cui c’erano le rovine del castello era stata spianata. La vista su quelle rovine inselvatichite che allora mi si era impressa nella mente non c’era più. Al suo posto si distendeva un’ampia piazza costruita in stile urbano italiano, semplice e lineare, provvista di un parcheggio per automobili. Bene, mi dissi. Anche qui si fa strada la modernità, com’é ovvio. E se non avessi conosciuto la collina del castello, avrei trovato quella piazza addirittura carina.
La passeggiata attraverso quella località antica risvegliò dei ricordi, altri angoli del paese mi erano sconosciuti. Meraviglioso questo antico paese di montagna, che per tre lati aderisce alle pieghe della collina su cui giace, consentendo ovunque la vista della campagna che si estende ai suoi piedi fino all’orizzonte lontano. Se solo si potesse fare di più perché le case siano tenute in buone condizioni! Il tempo aveva messo a nudo l’interno di una casa a più piani, mettendo in bella vista anche un forno al primo piano, simile a quello in cui avevo visto Providenza infilare la legna ed estrarne le pagnotte calde.
Mi mancava ancora una visita: Rina Trovato, moglie dell’allora sindaco Antonio Larocca, che ci avrebbe voluto avere come ospiti fissi, ben sapendo che il turismo avrebbe potuto essere una possibilità per salvare il paese dal declino. Rina è vedova già da lungo tempo ed abita a Badolato Marina. La mia visita avrebbe dovuto essere una sorpresa, ma in qualche modo aveva sentito del mio arrivo e mi aspettava. Ci abbracciammo con gioia, felici di esserci riviste, come se fossimo rimaste vicine l’una all’altra per tutti questi anni. E non era forse stato davvero così? Quando infatti le porsi il mio piccolo dono – una foto di lei e del marito scattata sulla spiaggia – la guardò solo un istante e andò a prendere una cornice a forma di cuore che conteneva esattamente la stessa foto, solo nell’inquadratura verticale. La foto, che le avevo spedito poco dopo il mio soggiorno a Badolato, era assurta a ricordo del tempo felice trascorso con suo marito. Attraverso questa foto, la nostra visita del 1973 l’aveva accompagnata per tutti questi anni.
Ho rivisto Badolato. Ho incontrato nuovamente le persone che allora mi erano vicine, viventi e ormai non più viventi. Ne ho conosciute di nuove. Mi coglie un sentimento di gratitudine quando penso a questo piccolo angolo di terra. I miei soggiorni del 1973 e del 1974 sono stati episodi nella mia vita. E ciò nonostante hanno smosso qualcosa dentro di me. Per contro a tutta l’inospitalità in cui mi sono imbattuta in tanti luoghi della terra che ho visitato, questo è un luogo in cui mi sento accettata, che mi restituisce il senso della patria interiore. – stop – (estate 2011)
10 – IL 21° E’ IL SECOLO DELLE GRANDI MIGRAZIONI
Caro Tito, lo sappiamo bene: da che mondo è mondo, le migrazioni di interi popoli (o buona parte di essi) sono sempre state quasi all’ordine del giorno. Ne sappiamo qualcosa noi del meridione italiano che, dopo le predazioni del 1860 (e a seguìre) abbiamo subìto la spoliazione e lo svuotamento dei nostri paesi e delle nostre campagne. Alla base delle migrazioni ci sono quasi sempre le guerre imperialiste e colonialiste di qualsiasi tipo, più raramente le problematiche legati al clima (carestie, alluvioni e simili) o ai terremoti e a quanto altro non ipotizzabile o imprevedibile più di tanto. E’ l’uomo che prevalentemente provoca disastri e squilibri, piuttosto che la natura! Infatti pure alcuni disastri naturali sono causati dall’uomo, per via diretta o indiretta.
Il secolo che stiamo vivendo, il primo del terzo millennio, probabilmente sarà considerato come quello delle grandi migrazioni, in prevalenza da sud verso nord, da est verso ovest …. cioè, in genere, le popolazioni depredate vanno verso i paesi predatori. Con catene o senza (ad esempio con la valigia di cartone o con il barcone) … sempre di schiavismo si tratta. Non ci stancheremo mai di rivendicare il necessario, anzi urgentissimo, riequilibrio generale uomo-natura, uomo-uomo! Pure Godula Kosack sembra essere dello stesso avviso, per ciò che La conosca personalmente e attraverso i suoi libri ma anche con il suo impegno culturale, sociale ed umanitario.
11 – SALUTISSIMI
Caro Tito, come ti accennavo in apertura, oggi 27 ottobre 2021 mio fratello Vincenzo (classe 1932) compie 89 anni e (come si dice da noi) entra nei 90. Vogliamo dargli insieme questo caloroso e affettuoso “benvenuto!” nei Novant’anni, promettente inizio nella decade che precede il secolo di vita?…. Un grazie particolare alla moglie Caterina Giulia Carnovale con la quale fa bella coppia fin dagli anni cinquanta!
Pure mio fratello Vincenzo ha fatto, quasi sempre vita da emigrante o da fuori-sede. Nel 1955 espatriato in Argentina ma per qualche mese. Dopo essere stato Aiutante Ufficiale Giudiziario a Badolato Marina (1957-63), nel 1964 ha avuto l’impegno di custode di sala al Museo degli Uffizi di Firenze. Poi verso i primi anni ’70 Ufficiale Giudiziario a La Spezia, quindi a Tropea, Borgia, Davoli, San Donà di Piave, Lecco, infine Catanzaro. Ha già pubblicato tre raccolte di poesie. Ne stiamo preparando una quarta. In ogni silloge non manca mai almeno una poesia dedicata all’emigrazione e/o agli emigrati. Pure nostri familiari.
Penso che nel Sud Italia sia assai difficile trovare una sola famiglia che, in tutte le sue generazioni, non abbia mai avuto un emigrato in casa, tra familiari stretti o tra parenti, ma anche tra amici fraterni. L’esodo ha toccato tutti, più o meno profondamente, spesso tanto, troppo amaramente. Pure per questo, spero che i sei racconti di Godula possano essere graditi (pure come documento e riflessione) da tutti i lettori nostri e di altri siti che vorranno far gioire ma anche commuovere i loro utenti. A parte tutto (pure della letteratura che c’è), tale narrazione resta una pagina di storia o di sociologia o di antropologia. Tutto sommato alquanto triste, in generale. Dolente, in taluni particolari.
Intanto, ti ringrazio di aver ospitato questa “Lettera n. 360” con la speciale “esclusiva” storico-letteraria dei sei racconti, con l’augurio che questi possano essere condivisi al massimo possibile. In attesa della prossima “Lettera n. 361” ti saluto, con un pensiero ai nostri amati defunti (nella loro ricorrenza annuale del due novembre) ma anche ricordando tutti i Santi che sono in Cielo e (per fortuna) pure in Terra!
Cordiali ossequi, Domenico Lanciano (www.costajonicaweb.it)
Iter-City, mercoledì 27 ottobre 2021 ore 06.09 – Dal settembre 1967 il mio motto di Wita è “Fecondare in questo infinito il metro del nostro deserto” – (Le foto: sono mie la n. 2 – 3- 4 – 5 mentre la prima mi è stata fornita dalla professoressa Kosack).
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