Caro Tito, questa “Lettera n. 120” te la scrive direttamente il prof. Felice Càmpora di Amantea (provincia di Cosenza), un personaggio particolarmente creativo e assai poliedrico che dovremmo conoscere meglio, così come i meravigliosi temi che ci propone e che contribuiscono a renderci meglio l’anima più profonda della nostra Calabria. Eccoti questa sua lettera alquanto “colta”… è uno scritto che gli ho chiesto tanto tempo fa e che, letto adesso, appare (che strana ma splendida coincidenza!) appaiata e consequenziale alla mia precedente “Lettera n. 119 – Più vale il denaro e meno vale l’uomo” datata 2 giugno 2015, Festa della Repubblica Italiana. Pure questa è un’altra lieta coincidenza poiché tale Festa dell’Italia repubblicana di ieri 2 giugno ci ricorda, tra tanto altro, come il nome del nostro attuale Stato dal 1861 e già da molto prima della nostra Nazione “Italia” sia nato proprio nella Terra dell’odierna Calabria e derivi proprio da quell’Italo (nostro eroe eponimo) che qui ci descrive il prof. Felice Càmpora.
Nel PDF allegato c’è l’elenco della Opere di cui il prof. Càmpora è stato autore fino a questo momento. Buona lettura! Grazie a te e grazie a tutti!
Cordialità, Domenico Lanciano
(Agnone, mercoledì 03 giugno 2015 ore 16,55).
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Caro Tito, vorrei con questo breve testo partecipare a ciò che con una certa continuità e per merito di Domenico Lanciano accade in questo spazio: il mantenimento di una specie di dialogo sulle relazioni tra il passato e il presente della Calabria. Io sono Felice Campora e insegno letteratura inglese al Liceo Scientifico di Amantea, sul Tirreno cosentino. Nella lettera numero 16 Domenico ha anche scritto qualcosa su un mio lungo racconto fantastico, Italo, il re degli Enotri; poiché in molti luoghi di Italo ho scritto dei rapporti tra passato e presente della Calabria, ecco la ragione della presente lettera: partecipare al suddetto dialogo. A dirla tutta, io scrivo solo quando sono chiamato a farlo da certi Spiriti, dal mio preside o da un amico; in questo caso ho ricevuto un preciso invito da Domenico, che ho accettato e che oggi onoro.
Per il tempo di Italo intendo il XIV secolo prima dell’Era Comune (cioè gli anni che vanno dal 1400 al 1301 a.C.); seguo le indicazioni di Renato Peroni (1930-2010) già docente di Protostoria Europea presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità a La Sapienza di Roma, che colloca la figura di questo leggendario re nella seconda metà di quel secolo. E’ la Protostoria della Calabria. Ambientare un racconto di fantasia in un periodo così lontano potrebbe apparire azzardato, ma la parola Protostoria non deve generare connotazioni negative in fatto di progresso umano. E’ certo una fase arcaica della Storia, ma vi erano società altamente organizzate e operose, con salde istituzioni, culti completi in sé, economie semplici ed autosufficienti, sistemi di relazioni tra i popoli, un rapporto direi perfetto con la natura; certo erano società senza scrittura propriamente detta, con un senso storico diverso da quello odierno. Sono i secoli di mitici popoli come gli Enotri, gli Ausoni, i Sicani, i Micenei, gli Japigi ma anche degli Itali, Choni, Morgeti, Siculi, Taureani.
Erano genti di salutare tradizione orale, liberi nel Mediterraneo, tra le quali sono rintracciabili molti tratti caratteristici dei calabresi d’oggi, come la sacralità delle relazioni che si celebrano intorno a un pasto, la superiorità dei rapporti amicali rispetto a quelli regolati dalle leggi scritte, la speciale naturalezza originata dall’essere circondati da una natura estremamente viva e rigogliosa, la diffusa pratica di riti sacrificali, le melodie suonate ancora oggi da zampogne o flauti, i consonantici richiami dei nostri pastori. Popoli ignorati dagli studenti calabresi d’oggi ma i cui valori e il cui stile di vita costituiscono, specialmente alla luce dei velenosi pericoli dell’industrializzazione, un vero modello di vita.
La Calabria oggi, fortunatamente e grazie anche a questi popoli, vive ai margini di quella civiltà industriale che insidia l’intero Pianeta, che propone accattivante i suoi falsi bisogni al solo inconfessato scopo di generare dipendenza economica e morale, instillando subdola nelle nostre menti i suoi banali procedimenti mentali, assalendo e depredando le risorse naturali per ottenere miseri profitti individuali, inducendoci a dimenticare la nostra lingua e la nostra cultura per ottenere sempre più controllo e consenso sociale, proponendo lo stupido dio denaro come perno delle relazioni sociali al posto della solidarietà, dell’amicizia e dell’ospitalità tipiche dei calabresi forse di sempre.
Anche se Italo a prima vista può essere visto come un romanzo che appartiene al genere fantasy, anche se potrebbe persino essere catalogato come un romanzo storico, quello che ho inteso fare prima di tutto è scrivere un testo politico e sociale privo di ideologismi. Ma ora parliamo del senso del tempo nel mio Italo, il re degli Enotri. In Italo le relazioni tra i tempi costituiscono la ragione principale dell’esistenza del libro. I riferimenti ai tempi sono così numerosi e costanti da imporre al lettore un continuo andirivieni tra quel passato e il nostro presente, tra il presente di noi lettori d’oggi e il futuro che ci attende; ma anche tra il tempo di Italo e quello specifico futuro che non arriva a noi e che rimane un nostro passato.
I riferimenti ai tempi compaiono sia in forme legate alle vicende che accadono all’interno del racconto sia attraverso citazioni che riguardano personaggi ed eventi che hanno popolato la storia della Calabria; straordinari filosofi, scienziati, mistici, poeti ma anche eventi come le invasioni storiche o l’emigrazione. Un elenco completo è impossibile, io stesso dovrei rileggere tutte le 254 pagine del volume. C’è però un luogo del testo, nel capitolo XIV, a pagina 70, in cui i tempi intorno al protagonista sono particolarmente uniti; Italo è adolescente e Verità (la sua magica tutrice) gli sta parlando di Enotro, padre eponimo di Italo e di tutti gli enotri. Verità gli ha appena raccontato che Enotro ha continuamente combattuto contro il Male ma, Italo comprende amaramente, non lo ha mai definitivamente sconfitto. I due sono vicinissimi, uno di fronte all’altro.
«Ma così il male non muore mai» protestò mestamente il discendente, raccogliendo le mani di Verità nelle sue. «Sì. Heriam non è scomparso per sempre nella capanna del pastore Pelleno. E, allo stesso modo, gli esseri di ghiaccio e l’ombra del gigante genereranno nel futuro altri corpi malvagi. È così: il male si presenterà continuamente, cercando in modi sempre più astrusi di imprigionare la verità e il ricordo delle storie degli uomini.» Questo diceva, posando le labbra sulle mani unite.
Italo insiste nel voler sapere ogni cosa dei suoi antichi padri – ecco la domanda del protagonista e la risposta di Verità (un nome da leggere anche come sostantivo).
«Ma se Heriam è solo una fra le tante forme del Male, allora il sacrificio di Enotro è stato inutile?» Verità lo guardò malinconica. «No. Enotro era giusto, e nella giustizia io regno indisturbata. Mio amato sospiro della notte» disse poi accennando un sorriso, «alcuni credono che queste storie siano leggenda senza materia, flebili presenze inventate da sognatori; che i personaggi di questi racconti non siano reali e veri, ma solamente il frutto della fantasia di narratori senza sonno. Ma verrà un giorno in cui questi uomini torneranno tra di noi corposi e veri, in tutta la loro forza, e saranno artefici di cambiamenti belli e consonanti alle antiche tradizioni. Guarda: questo mio petto allatterà il loro ricordo. Prendilo, pesa i miei seni sulle tue mani, sostienili. Allo stesso modo di come tu ora sollevi questa vita mia, i saggi e potenti re della tradizione torneranno in vita e scacceranno i mercanti egoisti che vogliono l’oblio delle storie e delle leggende della tua terra. […].»
Questo passo è stato scritto nel XXI secolo pensando al presente del XXI secolo, ma unisce il passato storico di Italo (cioè il tempo di Enotro, tre o quattro secoli prima di lui secondo un certo computo), il presente di Italo e Verità che (nella mia fantasia) stanno conversando, il futuro a cui le predizioni di Verità fanno riferimento (cioè l’oggi) e il nostro stesso futuro attraverso questo sogno di ritorno degli antichi miti. Il continuo andirivieni tra i tempi di Italo, quelli a lui precedenti, i nostri di oggi e quelli del frattempo come anche quelli del futuro di tutti è spesso presente in espressioni simili ad aforismi, messaggi lampo come […] le profezie hanno bisogno di essere interpretate. Esse non ci rivelano il futuro per quello che sarà, ma si inseriscono tra noi e gli eventi conosciuti e ci spingono a trovare relazioni prima impensate (cap. XIX, p. 93). Oppure: Io ti dico dalla mia fermezza che colui che sa ascoltare le storie del passato comprenderà il presente e conoscerà ogni tempo a venire (cap. V, p. 32). Ecco un altro minuscolo estratto che, direi, spinge il passato verso l’oggi: Ma può essere mai dimenticato un Regno in cui tutto si compie per armonia naturale e non per comando odioso? (cap. LVIII, p. 242). Il passo che voglio citare ora non fa più parte del testo definitivo poiché l’ho tolto nel 2009 (il libro è stato pubblicato nel 2012); segue comunque la stessa logica dei precedenti: Questi giorni sono buoni perché tu li confronti con il doloroso, recente passato; ma è il coltivare il futuro che dà la vera misura della felicità dell’oggi.» (ex cap. XIV).
L’estratto che segue è invece collegato alla nominabilità delle cose e al suo (terribile) valore nel tempo; si tratta del cap. LV, in fondo a p. 172, Sono parole pronunciate da un vecchio conoscitore delle antiche tradizioni non solo enotre; l’uomo è con Italo e sta parlando di Verità, ma il vecchio non intende pronunciare il nome di lei e ne rivela la ragione.
«Conosco anche il nome della donna, ma non voglio pronunciarlo poiché orribile è la profezia dei nomi, giovane re, per il terrore che induce in colui al quale viene rivelata, per il senso di straordinaria rivelazione che genera, per l’appagamento e nello stesso tempo per l’ansia dell’inconosciuto che provoca, per l’inganno del tempo che propizia, avendo il pronunciatore dei nomi e i loro ascoltatori raggirato il suo naturale corso. Come anche per gli spettri che crea dal nulla, materializzandoli davanti agli ascoltatori.»
Vi sono anche passi che parlano indirettamente del trascorrere del tempo, come il seguente (cap. 21, p. 98), che si legge durante l’inseguimento enotro di alcuni predoni siculi. I suoni dei nomi dei viventi durano molto più di quanto ritenete, e si possono ascoltare a distanza maggiore di quella che il parlante crede […]. Il seguente, l’ultimo in questa breve elencazione semigiornalistica, ha una vasta gamma di possibili rimandi (anch’esso non è più presente nella edizione del 2012): Italo sta combattendo su di una radura la sua ultima lotta contro il Male, tra indietreggiamenti e attacchi vincenti; in questo momento acquisisce un vantaggio. Era […] un segnale di liberazione, che giungeva proprio quando il nemico di sempre era stato colpito. Italo ne fu felice, poiché, il Narratore afferma, per quanto le forze del male possano essere invadenti e fornite di potenti armi, l’uomo libero che inizia ad affrontarle vede diminuire senza sosta quella potenza nera, riuscendo infine a sconfiggerla man mano che avanza la propria opera per il bene.
La presenza di un particolare senso del tempo nel mio libro è data anche sia da fattori linguistici (intendo la qualità della scrittura che ho voluto) che da altri fattori estranei al racconto ma facenti parte dell’intera esperienza di scrittura, che va dall’ideazione del libro fino alle modalità della sua attuale circolazione. Questi due argomenti, sebbene legati alla stesso senso del tempo qui espresso, devono essere trattati a sé.
Cosa rimane oggi del tempo di Italo lo ha ben detto anche il grande Salvatore Mongiardo, in una lettera ai suoi amici del 6 marzo scorso; parlando del grano il Maestro scrive: La storia dimostra ampiamente che attorno al grano si sono sviluppati valori di convivialità, amicizia e superamento della morte. Questi valori sono tuttora rappresentati in Calabria col Sissizio, il Grano Bianco del sepolcro del Giovedì Santo, l’Ostia bianca e rotonda, i mostaccioli di Soriano fatti con farina e miele a forma di animali, il Bue di pane pitagorico e il Muscolo di grano. Questi valori invitano costantemente verso una vita libera dalle angosce generate dalla violenza e dalla paura della morte. Ai cibi naturali da lui elencati, l’autore del presente testo aggiunge il vino, di modo che possiamo fare un sissizio dove si mangia, si beve, si parla di Storia e di vita e si sta insieme proprio come ai tempi di Italo.
Felice Campora
Opere di cui è autore FELICE CAMPORA DI AMANTEA – 2015