Venerdì 16 dicembre 2016 pomeriggio è stato presentato in Isernia, nel Molise, nella sala conferenza dell’Istituto europeo di riabilitazione “Gea Medica” (Via Acqua Solfurea), il terzo libro dato alle stampe dallo psichiatra e psicoterapeuta isernino Domenico Barbaro, originario di Platì (paese aspromontano nella provincia di Reggio Calabria), intitolato “La Pedagogia dell’onnipotenza”. Alla presenza dell’Autore, hanno relazionato la professoressa Gaziella Iannuzzi (docente di Scienze umane all’Istituto Cuoco-Fascitelli di Isernia) e il giornalista Domenico Lanciano. Nel corso della cerimonia è stato assegnato a Domenico Barbaro il “Premio Cultura 2017” dell’Università delle Generazioni di Agnone del Molise. La stessa Università delle Generazioni ha intervistato il dottore Barbaro, chiedendogli, innanzi tutto, il perché di questo terzo libro che segue a “Da un capodanno all’altro” (1999) e a “Se Giulio non cambia…” (2013), tutti frutto della sua esperienza professionale.
Ho pubblicato questo terzo libro per non commettere un peccato di omissione. Non potevo, cioè, sottrarmi al dovere di esprimere, a beneficio di chi potrebbe leggermi, l’evidenza di un meccanismo spesso presente nel determinarsi di un disturbo del versante affettivo, e non solo. E’ naturale che il sentimento depressivo possa derivare da un evento doloroso della vita. Ma esso nasce anche quando le aspettative dell’uomo sono ridondanti rispetto alle sue reali possibilità in merito alle vicende della vita quotidiana. E queste aspettative, dettate da un Super-Io ipertrofico, sono correlate ad un diffuso sentimento di onnipotenza che oggi pare aver contagiato irrimediabilmente l’uomo.
Da dove può nascere questo sentimento eccessivo se non da una dilagante cultura dell’onnipotenza, che appare sempre più affermarsi in ragione delle conquiste tecnologiche, ma certamente anche a motivo di una vera e propria pedagogia dell’onnipotenza mediata da una comunicazione profondamente sovvertita?
In cosa consiste la pedagogia dell’onnipotenza?
La famiglia e la scuola hanno perduto ormai, come si sa, il ruolo esclusivo di agenzie formative e ne hanno perfino sottratto la consistenza. La formazione dei giovani e dell’uomo in generale è stata assunta sempre più dai media che posseggono strumenti più penetranti ed assolutamente insidiosi. Mi riferisco non tanto alla TV o alla carta stampata, ma al Web che spadroneggia nell’informazione in comunanza con il cellulare divenuto, lo dico con una metafora, “il mondo in tasca.”
La pedagogia mediatica è divenuta così la pedagogia dell’onnipotenza. Essa è strutturata prevalentemente non da messaggi verbali, ma da modelli, da immagini, da suggestioni che ricreano un uomo forte, perfetto, bello esteticamente, vincitore in qualsiasi condizione, dal potere smisurato, dallo sguardo illimitato, senza orizzonti o confini, dalle capacità infinite. Un uomo-dio, insomma. Un uomo convinto di non avere ostacoli, di poter schivare la sofferenza, di poter fare a meno di qualsiasi altro dio. Non per niente si va sempre più oscurando la dimensione trascendente e si va imponendo contestualmente una visione atea ed esasperatamente materializzata del mondo.
Sembra che nella pedagogia dell’onnipotenza non ci sia spazio per le sofferenze e le avversità della vita. E’ proprio così?
In questa spocchiosa ascesa dell’uomo contemporaneo non c’è spazio per le sconfitte, le delusioni, la sofferenza, la morte. Queste cose sono censurate, negate, ostinatamente rimosse. Abbiamo ricreato la società dell’edonismo più esasperato, del benessere a tutti i costi, degli incantesimi, fino all’approdo a un mondo virtuale dove si è prodighi solo dei “mi piace”, pretesi anche se non meritati, dove le relazioni si snodano con una velocità incredibile, con una superficialità disarmante e con una emotività stantia e mendace, dove emozioni e sentimenti sono delegati ai cosiddetti emoticon.
Allora, la delusione che la realtà esistenziale impone non si trasforma soltanto in depressione, che pure rappresenta l’espressione congrua di una ferita subita, ma si trasforma soprattutto in un sentimento di fallimento cosmico, di definitiva e bruciante sconfitta che può condurre ad una rabbia mai sopita, quando se non al rifiuto della vita stessa.
Oltre questa reazione depressiva ci sono anche altri possibili effetti della pedagogia dell’onnipotenza, e sono quelli più devastanti.
Il femminicidio o il bullismo o altri comportamenti violenti hanno una qualche relazione con il sentimento di onnipotenza dell’uomo contemporaneo?
Certo che sì. Probabilmente siamo restii o forse rinunciamo a credere che il femminicidio possa derivare da questo sentimento di onnipotenza che rende l’altro il proprio oggetto d’amore, esclusivo ed irrinunciabile. In realtà è proprio quando si profila una perdita che l’idea del possesso può facilmente trasformare l’uomo in assassino. C’è qui l’incapacità di perdere, l’incapacità di sopravvivere a questo affronto, ed insieme il desiderio inconscio di introiettare l’oggetto d’amore in una suggestione di relazione simbiotica, non più possibile dopo quella materna. Sono entrambi dettati dal sentimento di onnipotenza.
Anche per il bullismo c’è da fare una simile riflessione. Esso è l’epifenomeno della stessa dinamica di autoesaltazione.
Ecco perché credo che non esista legge punitiva, né proclama sterile, né corteo di solidarietà che tenga. Bisogna prendere coscienza di questo meccanismo e promuovere una cultura che sia controcorrente, che sappia ridimensionare questa idea eccessiva della vita e delle sue vicende esistenziali. Solo così potremo sconfiggere seriamente femminicidio e bullismo.
La pedagogia dell’onnipotenza può riportare un effettivo potenziamento da internet o dalla comunicazione del web e del cellulare?
L’ossessione di internet, dei social, dei reality, delle dipendenze di vario genere, conduce ad una inevitabile prevaricazione della condizione umana e ad un’auto esaltazione e celebrazione fino al punto di sviluppare una tolleranza zero ai minimi segni che fanno riferimento alla fragilità umana. Si è così disponibili ad ostentare solo la propria forza e la propria spavalda performance. Mi viene in mente la campagna per le presidenziali in America. Una guerra condotta anche a suon di certificati di ottima salute. Come dire la scelta di un uomo che coniughi il suo potere politico alla prestanza fisica, alla sua immagine performante, al suo successo personale, alla sua spettacolare condizione sociale. Ma come sarebbe bello pensare invece che anche con un fisico debilitato, stanco e fragile si può essere in grado di governare perseguendo il bene comune. Esempio indimenticabile Giovanni Paolo II.
Il linguaggio della pedagogia dell’onnipotenza è fatto di parole e modelli violenti. Forse l’uomo oggi ha smarrito la bussola e crede di essere dio per effetto del suo senso di onnipotenza?
Il linguaggio violento della politica che si sovrespone e della stampa che vi si accoda costituisce un modello profondamente negativo. Per sostenere la violenza spesso si sacrifica anche la verità. L’equivoco di un uomo-dio viene brandito come una conquista reale che consente di superare e forse anche di ignorare ogni principio etico e morale, oltre che una possibile dimensione trascendente.
Nella cronaca recente si è parlato di una coppia, lei infermiera e lui medico, che apertamente si sono attribuiti il potere della vita e della morte, usurpando il ruolo del vero Dio. Lei si rivolge a lui: “- Tu sei l’uomo più importante del mondo” e lui risponde: “- Io di fronte gli ammalati sono dio.” Qui c’è la formale ed esplicita dichiarazione di questa incredibile patologica metamorfosi dell’uomo contemporaneo.
I casi clinici che Lei descrive in questo libro sembra abbiano in comune questo meccanismo profondo, di seguire un senso di onnipotenza accodandosi proprio alla cultura contemporanea. Forse da qui si origina delusione e depressione?
Nei casi clinici compresi nel libro questi meccanismi si svolgono al livello inconscio ostacolando spesso sia la coscienza di malattia sia il possibile accesso ad una relazione terapeutica.
Qual è il percorso da seguire per sfuggire al rischio di un’angoscia esistenziale e quindi ad un conclamato disturbo depressivo?
Il percorso riabilitativo è esattamente inverso a quello della cultura corrente. L’obiettivo fondamentale è dunque la cultura del limite che sappia professare la propria fragilità. Questo è il messaggio autentico e sostanziale. Bisogna fare attenzione a non farsi penetrare dalla pedagogia dell’onnipotenza che i media profondono in tante forme. Ritornare alla cultura del limite vuol dire assumere la propria fragilità come condizione per incontrare l’altro nella reciprocità, che è requisito inderogabile per “vivere-insieme-nel-mondo”.
La cultura del limite è la sola arca di salvezza in questo diluvio universale per sfuggire ad uno dei più importanti fattori di rischio del dilagante disturbo mentale.
Università delle Generazioni
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