CATANIA – Dal lutto alla luce. Il titolo, capovolto, del romanzo di Gesualdo Bufalino, si presta come nessun altro per annunciare la mostra che il Comune di Catania – Assessorato alla Cultura dedica a Luigi Rabbito, artista  originario di Comiso (Rg), come lo scrittore con cui condivide, per una misteriosa fatalità, il destino di una tragica morte in un incidente stradale. L’esposizione s’intitola semplicemente Rabbito ed è in programma a Palazzo della Cultura dall’8 al 30 settembre prossimo. Ingresso libero.
In mostra, a cura di Mercedes Auteri e Angelo Buscema, sono circa cinquanta opere, comprese quelle di grandi dimensioni e le istallazioni dell’ultimo periodo, che hanno per tema i paesaggi urbani, gli ingorghi stradali di auto, camion, moto e mezzi pubblici, le macchine agricole – trattori e mietitrebbia – e quei loro enormi pneumatici con cui percorrono la nostra contemporaneità e irrompono nei silenzi bucolici della campagna ragusana lasciando solchi inequivocabili. Gli stessi mezzi meccanici che, fatalmente, nel luglio dello scorso anno hanno posto fine alla vita dell’artista, vittima di un incidente in moto. “Già nella primavera del 2011- spiega la curatrice Mercedes Auteri che con Angelo Buscema condivide il progetto espositivo – lavoravamo a questa mostra di Catania: doveva essere la celebrazione dell’arte di Luigi Rabbito, della sua carriera, della maturità che aveva raggiunto. Vorrei lo fosse ancora, senza trasformarla in una commemorazione, lasciando parlare le sue opere, così attuali ed originali anche per via di frasi, commenti ironici e riflessioni sulla società contemporanea che Luigi consegnava alle sue opere e che non mancheranno di incuriosire vecchi e nuovi estimatori dell’artista. Proveremo a raccontarlo, Rabbito, attraverso l’allestimento articolato fra vuoti e pieni degli spazi di Palazzo della Cultura: proprio come l’avevamo pensata con Luigi un anno fa”.
Alla mostra, organizzata dagli eredi – fra cui la moglie Tiziana che nel novembre scorso ha dato alla luce la loro bambina – con il patrocinio del Comune di Catania – Assessorato alla Cultura è  dedicato un ampio catalogo con testi della curatrice e di Angelo Scandurra.
Nella primavera del 2011, a partire da Comiso, Luigi Rabbito aveva realizzato un progetto artistico che doveva essere itinerante nelle piazze d’Italia, intitolato Pneuma, dal greco: respiro, aria, soffio vitale, principio originario. Protagonisti dell’azione performativa, come di molte sue opere inserite nell’esposizione del prossimo settembre a Palazzo della Cultura, erano stati gli pneumatici di auto, camion, moto, caterpillar o biciclette che, per l’occasione di settembre, saranno riallestiti in mostra.
Orari: dal lunedì al sabato 9-13, 15.30 – 19. Domenica 9-13. Ingresso libero.

Luigi Rabbito - Palazzo della Cultura - 8/30 settembre 2012

Palazzo della Cultura – Via Vittorio Emanuele 121 Catania
Estate Catanese 2012 – Catania… in “Prima”
Mostra delle opere di Luigi Rabbito – dall’8 al 30 settembre 2012
Inaugurazione sabato 8 settembre ore 19,00

Rabbito a cura di Mercedes Auteri e Angelo Buscema
Palazzo della Cultura, Catania 8 – 30 settembre 2012

Testi Mercedes Auteri e Angelo Scandurra
Traduzione in lingua inglese Rita Baiamonte
Foto opere Franco Noto
Foto performance “Pneuma” Maurizio Cugnata
Progetto grafico Alessandra Roccasalva
Realizzazione Officina delle immagini
Mostra promossa dagli eredi Rabbito con il patrocinio del Comune di Catania
Per la loro disponibile e preziosa collaborazione si ringraziano i collezionisti prestatori e gli amici che hanno sostenuto il progetto

Luigi Rabbito - Palazzo della Cultura - 8/30 settembre 2012


Breve nota biografica 

Luigi Rabbito nasce a Comiso il 2 febbraio del 1968. Qui intraprende, da autodidatta, il suo tirocinio pittorico, lavorando prima in un piccolo studio in via delle Fosse Ardeatine, poi in un altro più consono alla realizzazione di grandi formati, in via Piemonte. Il suo esordio avviene con la partecipazione a due mostre collettive, presso la Galleria Ibiscus di Ragusa e presso la Galleria Repetto & Massucco di Acqui Terme, a cura di Casciano Scribano. L’anno dopo è in Olanda, a Rotterdam, presso la Galleria Beukers. Nel 2004, presso lo Studio Nuova Figurazione di Ragusa, la sua prima personale. Nel 2005 prende parte alla mostra 50 artisti per Kaos. La magnifica visione, presso il Castello di Donnafugata, e alla mostra Pasqua Etiope, presso la Galleria degli Archi di Comiso, dove tornerà nel 2006 con la personale Dentro la materia. Del 2008 è poi la mostra itinerante tra Catania, Genova e Barcellona Luigi Rabbito: meccanico, una antologica che ripercorre le tappe salienti della sua carriera a cura di Michela Vittoria Sanfelici, con interventi di Massimo Onofri e Franco Milone. Partecipa quindi, nel 2009, alla collettiva Lo spazio dell’arte. Guardando il volto di Artemide, tenutasi a Comiso per le cure di Salvatore Schembari e Francesco Lucifora. A febbraio e settembre del 2010, Rabbito si esibisce in una performance, Pneuma, presso il tratto di carreggiata antistante il Castello dei Conti Naselli di Comiso: istalla sul manto stradale, per un totale di 200 metri quadrati, dei pannelli in polistirene che assorbono per alcune ore le impronte dei mezzi di trasporto di passaggio; una volta disinstallati, tali pannelli riproducono l’anima del veicolo, il suo “pneuma”. Nel 2011 costruisce per un’esposizione temporanea in piazza Fonte Diana, a Comiso, una scultura in lamiera chiodata che riveste due coppertoni vicini, uno più grande e uno più piccolo. I pannelli di Pneuma e le sculture di Fonte Diana sono pensati per essere esposti come istallazioni presenti alla grande mostra a cura di Mercedes Auteri che doveva tenersi a Catania e per cui era già tutto pronto ma muore in un tragico incidente il 14 luglio del 2011. Questo catalogo e il progetto di mostra sono gli stessi che la curatrice e l’artista avevano pensato insieme e intitolato, semplicemente, Rabbito.

Luigi Rabbito - Palazzo della Cultura - 8/30 settembre 2012

L’uomo pneumatico
Come l’anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano il mondo intero.
(Anassimene)

Quando Luigi Rabbito ed io abbiamo progettato questa mostra doveva essere una celebrazione, della sua arte, della sua carriera, della maturità e dell’importanza che avevano raggiunto le sue opere. Non avrei mai pensato che si sarebbe trasformata in una commemorazione e non riesco a pensarlo neanche ora, a ormai un anno di distanza dalla sua morte. Perciò non ho voluto cambiare nulla rispetto alle decisioni prese insieme per allestire gli spazi che ospiteranno i suoi pezzi e non aggiorno queste pagine (che lui aveva tanto apprezzato) declinadole al passato, Rabbito è presente come lo sono i grandi dell’arte di ogni tempo, non muore come non muiono le anime enormi come la sua.
Col sorriso ma senza scherzare, gli avevo detto che le sue opere avrebbero meritato spazi immensi come l’Hangar Bicocca a Milano, l’Hamburger Banhoff a Berlino, la Tate a Londra, la Galleria Hauser & Wirth o il Moma a New York e lui, senza sorridere e nonostante l’umiltà che sempre lo accompagnava, aveva risposto che avrebbe fatto di meglio. Quale immenso spazio sia andato ad allestire adesso non lo so ma spero di scoprirlo un giorno.
Questo testo scritto molti mesi prima della sua scomparsa, proprio attraverso le opere, racconta tragicamente moltissimo di quanto avvenuto nei mesi successivi: l’Italia un Paese sconvolto dall’economie mondiali e dalla vita frenetica; Luigi che trova la morte sulla strada travolto da uno di quei grandi mezzi che s’ostinava a dipingere visti da sotto, quasi a schiacciarci tutti, come è successo a lui; le sue ultime piccole tele che dipingeva a tempo perso, dal 2009, in serie, intitolate Resurgit a mostrare come immaginava lui la resurrezione. Dal lutto alla luce, avevo scritto di quelle opere (parafrasando il suo conterraneo poeta), perché a cercare la luce dentro a un buio dilagante ci aveva abituati Luigi. Ed è così, dal lutto alla luce, che immagino ancora l’ascensione a cui l’uomo pneumatico ci costringe tutti: parenti, amici, collezionisti, persone che lo hanno conosciuto e chi purtroppo non ha fatto in tempo, come sua figlia Esther ancora nella pancia di Tiziana nei giorni dell’incidente. Per lei, Luigi aveva pensato questo catalogo, nascondendo tra le righe un piccolo segno, il simbolo di un test di gravidanza positivo. Per lei, aveva costruito la grande ruota in lamiera accanto a una più piccola, nella sua ultima istallazione a piazza Fonte Diana a Comiso, per quella strada da percorrere che ancora doveva venire. A lei, per quando sarà grande, e a chi ancora non conosce le opere di suo padre dedico, celebrandolo al presente e non commemorandolo al passato, quanto segue.
Luigi Rabbito ha il suo studio in una casa del centro di Comiso, in provincia di Ragusa, l’ha scelto tra le strade strette dell’antico quartiere ebraico. Qualcuno, adesso che è morto, ha provato a sciacallarlo, senza rispetto di niente e di nessuno, ma sua moglie ha messo in salvo tutto e il mio augurio è che possa diventare un giorno una casa museo.
Tele e pennelli di ogni dimensione, colori in tubetti e barattoli, foto, giornali, libri, cd, candelabri a sette braccia ricordo di Gerusalemme e oggetti, i più disparati, riempiono la cantina, le scale, le stanze, il piccolo terrazzo che si affaccia sulle strade in cui si passeggiava Gesualdo Bufalino, il poeta. Cantore di questa Sicilia “a far da cerniera fra continenti e culture discordi”, “arca triangolare di sasso che galleggia sulle onde dei millenni”, “scampata a tante tempeste, sopravvivrà ai missili. Ma mettetevi in tasca un vocabolario di greco: potreste incontrare , emersa dalle acque e vogliosa di scambiare due chiacchiere, Afrodite Anadiomene” (La luce e il lutto, Palermo, 1990).
Rabbito, sulla sua scrivania a sovrastare mille altre cose accumulate, tiene il vocabolario di greco, forse per Afrodite, forse perché da autodidatta è appassionato di archeologia e storia. Si è deciso di chiamare il progetto artistico che ha proposto al Comune, Pneuma, dal greco: respiro, aria, soffio vitale, anima, principio originario, connesso alla vita, impalpabile e invisibile, immateriale ma anche materiale come dimostra un palloncino vuoto quando, soffiandovi dentro, si gonfia riempiendosi di materia. Si è pensato a questo nome perché protagonisti dell’azione, come di molte sue opere dentro cui si ritrovano raffigurati, a fare da cornice al quadro, a comporre un nuovo oggetto o ammassati in una installazione, sono: gli pneumatici (stessa etimologia, dal verbo greco pnein, soffiare) di auto, camion, moto, caterpillar o biciclette. Durante l’azione, il centro di Comiso rimarrà chiuso al traffico per montare al crocevia di due delle strade principali della città, tra la Chiesa e il Castello, 266 pannelli di poliestere, 120×60 cm l’uno, spessi 4 cm, colorati di bianco e numerati, in un rettangolo di 25×8 m. I passanti si ritrovano, prima, coinvolti in una scena surreale in cui il traffico impazza ai margini di questa isola bianca e, dopo, invitati a entrare dentro l’opera in un’esperienza fisica che esalta l’impressione visiva. Riaperte le strade, i mezzi transitano sopra la struttura lasciando sulla superficie il peso del loro avanzare, le tracce dei copertoni. Infine vengono smontati i pannelli, strutture elementari assemblate come moduli o giustapposte orizzontalmente sulla terra come sculture-superfici, Rabbito ne seleziona alcuni da esporre, giocando sull’alternanza dei pezzi, riportati al bianco, levigando la superficie con la carta vetrata, lasciando emergere i solchi dei battistrada delle ruote a quell’incrocio tra le 10 e le 13, come radiografia del loro passaggio. L’azione è catartica fino in fondo: bloccare il traffico, arrestare il flusso, lasciare che si riattivi, rilevarne lo scuro passaggio, mondarlo e purificarlo riportandolo all’originario candore.

Rabbito propone una nuova visione del paesaggio, modificabile, dentro e fuori l’opera d’arte.
Forse non si può frequentare l’Istituto d’arte a Comiso, come lui ha fatto, senza ingurgitare voracemente i paesaggi rappresentati nei quadri della Scuola di Scicli, senza farli propri, senza desiderare, a quell’età in cui si è così desiderosi di maestri, di sentire vibrare quelle atmosfere della campagna ragusana anche nel proprio pennello, con “quei colori del cielo, della terra, del mare, sulla tela intatti, restituiti alla loro remota verginità” (come aveva scritto Bufalino delle opere di Piero Guccione, pilastro della scuola sciclitana). Rabbito ne fa il suo lauto pasto per poi, bulimicamente, vomitarlo. L’evidenza con cui la “remota verginità del paesaggio” è stata stuprata dalla città comincia a popolare le sue tele di contesti urbani, estremi, affollati dalla macchina più che dall’uomo, densi delle immagini della pubblicità, delle parole della carta stampata, della quotidianità che bombarda la vita di ciascuno. Passa dalla rappresentazione della campagna all’autostrada, dai ritratti di persone ai ritratti di camion, riuscendo a non mutare l’intensità della resa pittorica nonostante i soggetti risultino opposti.
La padronanza della tecnica del disegno e del colore è nella sua fortunata mano e non lo lascia mai. A cominciare dagli esordi, nella perizia delle proporzioni, nella luce con cui illumina gli sguardi dei suoi ritratti, nelle ombre che rendono obliqui gli orizzonti e infiniti i cieli dei suoi luoghi (Lo sguardo fiero di Gino, 2003; Verso Modica, 2003). Non lo lascia quando abbandona le tele più piccole per le grandi, utilizzando cinquanta barattoli da mezzo chilo di olio per dipingere un quasi irriconoscibile paesaggio condensato negli strati di colore (la serie dei Volo, 2005-06), primo momento del suo meditato rigetto della natura intatta. Non lo lascia quando abbandona le grandi tele per le enormi, tele alte quattro metri e larghe tre, che dipinge a più riprese e che cinque mesi dopo averle ultimate ancora trasudano olio (Good Year Africa, 2009), su cui decide di intervenire anche con tecnica mista (piccoli, a volte impercettibili, collage, decollage, assemblaggi) dove ricompone una realtà urbana e quotidiana. Non lo lascia, nemmeno, quando abbandona il quadro per uno spazio più grande, le stanze in cui crea le sue installazioni riutilizzando oggetti inusuali (la serie Antropomorfico, 2009-10), o per uno ancora più grande, la strada e la città su cui interviene con azioni perfomative (Pneuma, 2010): c’è sempre una ricerca estetica, geometrica, cromatica nelle forme piramidali in cui sovrappone gli oggetti, nella ripetizione del segno-traccia dei copertoni sui pannelli di poliestere che compone sulla strada in un enorme rettangolo.
In America, nella seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento, questa tensione a estendere alla realtà e al pubblico lo spazio pittorico, nel tentativo di colmare il vuoto tra arte e vita, fu detta happening, evento, accadimento. Nel 1959 Allan Kaprow presentò il primo happening pubblico alla Reuben Gallery di New York mettendo insieme scultura, pittura, musica, danza, teatro, casualità e autocoscienza. Nel 1961, il suo evento più noto, Yard, con cui riempì il cortile della Martha Jackson Gallery di centinaia di pneumatici, invitando gli spettatori a calpestarli, spostarli, vivere sensorialmente l’installazione. Le caratteristiche di un ambiente venivano trasformate in evento e viceversa. La portata di questo gesto ha un’eco su tutta l’arte successiva, uscendo dalle mura di gallerie, studio, musei, per riversarsi sulla strade con gli sviluppi più vari.
Poco prima, stessi luoghi, Robert Rauschenberg e altri artisti, chiamati New Dada, avevano creato opere dallo spirito totalizzante, dentro le quali confluivano forme e oggetti della vita di ogni giorno, abbandonati, relitti di un mondo completamente trasformato dall’uomo e dal processo industriale, accatastati nelle enormi discariche cittadine come nuova forma di paesaggio (continuando a dare soluzioni aggiornate al problema di cercare un ordine per il caos del mondo e di superare i limiti di pittura e scultura introducendo materiali ed eventi della vita quotidiana, che gli artisti Dada, insieme a futuristi e surrealisti, si erano posti cinquanta anni prima). Nei combine paintings, dipinti integrati, i vari oggetti che compongono l’opera vengono inglobati dal colore che ne diventa il collante, incorporandoli così nella questione dell’arte. Uno degli esiti più sconvolgenti è forse il caprone impagliato che Rauschenberg avvolge in un copertone di automobile e colloca su una base di legno, unendo la struttura dell’opera tramite le sgocciolature di colore (Monogram, 1955-59). Il critico Lawrence Alloway li battezzerà, poi, esperimenti di Pop Art, identificando nella cultura pop, nelle immagini banali, legate al consumo di massa, a stereotipi e semplificazioni veicolate dai mass media, la portata innovativa di questo momento artistico. In Europa, però, a differenza che in America, come è inevitabile che sia per questioni d’anzianità, per la diversità storica che distingue il Vecchio continente dal Nuovo, le nuove mitologie pop vengono affrontate con uno sguardo carico di passato e tradizione, con un differente impegno umano e sociale sui temi della storia e dell’attualità (riscontrabile negli esiti del Nouveau Realisme e della Mec Art).
Nell’azione Pneuma, nelle installazioni della serie Antropomorfico (II e III, 2009-10), nelle tele raffigurato o come cornice del quadro: il copertone diventa un simbolo ricorrente. Come durante la seconda guerra mondiale o come in Vietnam, lo pneumatico viene riciclato dalle popolazioni in difficoltà per costruire sandali funzionali e durevoli, così Rabbito in Antropomorfico III, costruisce piccole scarpe, per bambini, e le pone su un piedistallo provocando lo spettatore su ciò che è arte nell’era del consumismo, riutilizzando il copertone come comune denominatore delle sue opere.
In un saggio in cui prende in esame alcune opere di Paolo Canevari, facendo riferimento ad altre, da Gilberto Zorio a Lygia Clark, Germano Celant scrive: “Il copertone è uno dei simboli della decadenza della civiltà e dell’impero occidentale con tutti i suoi richiami ai conflitti in nome del petrolio e della difesa di un’economia e di un benessere che si basano sul petrolio stesso. In questo senso c’è quasi un aspetto archeologico nel copertone in quanto oggetto contemporaneo che allude ad un mondo in cui si vive in modo frenetico e consumistico” (Odi et amo, Roma, 2010). Un altro elemento presente nelle opere qui selezionate per l’esposizione di Catania di Rabbito: l’aspetto archeologico, che si lega alla passione per la sua terra fertile di storia, allo scavo che sottende la scoperta, al colore stratigrafico con cui compie i passaggi di tempo sulle sue tele, al simbolo della velocità con cui nella società attuale un oggetto diventa archeologia.
Gli artisti si sono posti, dalle origini del mondo a oggi, delle domande che trovano risposte e soluzioni diverse, in società in continuo cambiamento, mostrando in molti casi importanti continuità. Dai collages di Picasso ai merz di Schwitters, dai ready made di Duchamp alle pubelles di Arman, dai combines di Rauschenberg agli happenings di Kaprow, dai decollages di Rotella agli impaccaggi di Christo, la lunga storia dell’oggetto, specchio di un tempo preciso, nascosto, integrato, svelato e rivelato.
Si giunge, così, all’oggi, alle soluzioni del nuovo millennio in cui si inseriscono anche quelle di Rabbito, l’artista alla ricerca delle impronte dell’umanità. Le camere d’aria, le lattine, i tappi, i jeans, le plastiche, le carte, i biglietti, le foto, le piccole e grandi cose che rimangono intrappolate nel traffico insieme a noi all’ora di punta e, in quel tempo inutile, in cui viviamo fisicamente bloccati a fissare le automobili, non possiamo fare a meno di accorgerci di loro. In un momento in cui alla moltiplicazione delle reti televisive che invadono le case con informazioni, messaggi pubblicitari, programmi che si propongono come reality, dunque di realtà in tempo reale, corrisponde una necessaria richiesta di attenzione che salvi dal flusso ciò che è veramente reale e importante, che solleciti la coscienza critica dell’uomo su quella che è la nostra vita e la Storia, del nostro paese e del mondo, veicolata dai mass media come fonte ufficiale a volte ingannevole.
L’oggetto capace di narrare una storia, individuale o collettiva, con un forte richiamo alle vicende del popolo ebraico come succede nell’installazione di Rabbito, Antropomorfico II (2010). La piramide di centinaia di calchi per scarpe, usati un tempo dai calzolai per fare le calzature ai loro clienti, personalizzati, ogni persona aveva il suo calco, le sue correzioni ortopediche quando era richiesto, ricordano vite vissute, presenze che diventano simulacro di assenze. Antropomorfico II, come I e III (2010), rimanda ancora una volta al passaggio e alla traccia dell’uomo sulla terra ma induce a una più alta riflessione sull’identità e trova un significato comune nelle opere di artisti come Anselm Kiefer (la piramide di corpi in gesso ammassati nella serie The Heavenly Palaces) o Christian Boltanski (la piramide di vestiti dismessi nella serie Personnes).
Dalle opere pittoriche di Rabbito emergono frammenti, indizi, dettagli di lettere, di giornali, di documenti. Riferimenti alla microstoria, come il suo inutilizzato libretto di lavoro incollato sulla tela (NY – LON, 2009) o una busta dentro cui conserva alcuni ricordi, una fotografia, uno scontrino, una chiave, una carruba attaccati a margine (Consummatum est, 2009). E alla macrostoria, titoli o foto di giornale dentro cui leggiamo o riconosciamo, tra gli altri, riferimenti a Rifkin, al protocollo di Kyoto, all’ambientalismo, alla globalizzazione, ai rifiuti, alla Tav, ai traghetti, all’Eni, all’Alitalia, alla Parmalat, all’omologazione, al voyerismo, a Berlusconi, D’Alema, Prodi, Murdoch, Hitler, Stalin, Polpot, Ghandi, Obama, Claudia Schiffer, Marx, Gramsci, Magris, Saviano o Troisi (Riuscirai a dire basta, 2007; Da consumarsi preferibilmente entro, 2008; Caos in Corso Gelmini, dittico, 2008; Lato B, 2008; Senza Pd, 2008; Kyoto Club, 2009; Via Claudio Magris, 2009; Politicamente corretto, 2009; Intimissimi, 2009, Il silenzio è sacro, 2009; Codice a barre, 2010), creando un personale compendio sulla memoria storica. Il prodotto di consumo e l’ideologia sembrano coincidere nella società occidentale, l’Europa è grande produttrice e consumatrice di ideologie, come ricorda Fabio Mauri nella sua opera (Ebrea, 1971, ripresa alla Biennale di Venezia del 1993). Assistiamo a una nuova interpretazione di un genere antico, la pittura di storia, dove alle battaglie di un tempo si sono sostituite le battaglie, meno epiche solo a chi si ferma a guardarle superficialmente, che combattiamo ogni giorno, nella quotidianità del pianeta, nei momenti più cupi.
Rabbito ama il nero, anche nei ritratti più recenti, che in questa sua fase pittorica però sono sempre più rari, pensa al nero di Burri, ai grumi di Pollock, ai fondi di Caravaggio, perché quel nero gli piace, dopo strati di neri, portarlo alla luce, alla luminosità dei volti (1515/3, 2009; 1513/2, 2009). Dal lutto alla luce, si potrebbe pensare invertendo il titolo dell’opera di Bufalino, guardando la piccola tavola Resurgit (2009), seguendo il suo moto ascensionale. Perché l’immobilismo di alcune opere di Rabbito, soprattutto quelle cristallizzate dietro ai parabrezza in un ingorgo, è solo apparente. Ogni frammento sta generando un movimento, nel suo aggiungere, cancellare, graffiare il colore, nel suo condurre lo sguardo altrove.
Rabbito, sulla sua scrivania a sovrastare mille altre cose accumulate, insieme al vocabolario di greco, tiene La Bibbia, fonte d’ispirazione dei poeti, nei secoli dei secoli. Alcuni titoli delle sue opere sono citazioni da Tito, da Giovanni, dall’Ecclesiaste (La verità vi renderà liberi, 2008; Omnia munda mundis, 2008; Niente di nuovo sotto il sole, 2008; Consummatum est, 2009). La sua poetica sembra sottendere un messaggio profondo, “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, “tutto è puro per i puri, niente è puro per gli increduli che hanno contaminata l’intelligenza e la coscienza”. E una continua e faticosa ricerca che ciascuna delle sue tele rivela, “Io, Qoèlet, sono stato re d’Israele in Gerusalemme. Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. È questa un’occupazione penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino. Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento”. Pneuma, per i greci, è anche quel vento, è un movimento d’aria, un soffio gentile, è il fiato delle narici o della bocca, è la fonte di qualsiasi forza, affezione, emozione, desiderio, è la disposizione d’animo che orienta e influenza l’uomo, è l’anima stessa che è nell’uomo, è l’aria che circonda il mondo. La teologia cristiana userà questa parola per tradurre il termine ebraico, ruah hakodesh, la potenza divina, lo spirito che può riempire gli uomini e i profeti della sua sapienza.
L’uomo pneumatico (pneumatikòs) è un’invenzione di Paolo di Tarso, opposto all’uomo fisico (psichicòs), è colui che sa intendere le cose dello spirito perché è con lo spirito (pneuma) che le giudica. Questo ho pensato di Rabbito vedendo nel suo studio, sommerso da tele e pennelli di ogni dimensione, colori in tubetti e barattoli, foto, giornali, libri, cd, candelabri a sette braccia ricordo di Gerusalemme, pannelli di polistirene, calchi per scarpe, copertoni e da quel soffio vitale che ispira gli artisti e che gli artisti sanno rendere visibile a tutti gli uomini.

Mercedes Auteri

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