Caro Tito, il 26 luglio 2020 hai pubblicato il mio appello al Comune di Squillace e a tutti gli altri Comuni del Golfo (che ne prende il nome) affinché potessero considerare la possibilità di realizzare una “Grande Festa del Golfo di Squillace” come motivo di identità non solo geografica ma anche socio-culturale e di antichissime radici (https://www.costajonicaweb.it/badolato-cz-luniversita-delle-generazioni-propone-di-fare-la-grande-festa-del-golfo-di-squillace/).
Adesso, dopo aver letto la riflessione “Il cavallo di Troia finisce in Calabria” scritta proprio oggi dal filosofo Salvatore Mongiardo di Soverato, mi convinco ancora di più come e quanto sia necessario realizzare questa “Festa del Golfo di Squillace”. Infatti, Mongiardo ci offre un motivo in più (oltre quelli elencati nel mio appello del 26 luglio 2020 pubblicato pure da numerosi altri siti web e da alcuni quotidiani cartacei). Basta leggere il testo qui allegato e che, oltre tutto, esalta la storia e la cultura nate in questo nostro territorio come PRIMA ITALIA.
Grazie per ospitare questo mio ulteriore appello a tutte le comunità che si affacciano sul Golfo di Squillace. Speriamo che nell’estate 2022 possiamo assistere o partecipare a questo importante evento, con il concorso di tutti. Nel darti appuntamento alla “Lettera n. 368” ti saluto molto cordialmente. Alla prossima!
Domenico Lanciano (www.costajonicaweb.it)
ITER-City, giovedì 18 novembre 2021 ore 20.26 – Dal settembre 1967 il mio motto di Wita è “Fecondare in questo infinito il metro del nostro deserto” – le immagini sono state prese dal web.
Il cavallo di Troia finisce in Calabria di Salvatore Mongiardo
La calda mattina del 4 agosto 2021 risalivo il corso del fiume Amato in compagnia dell’amico Peppino Scerbo Sarro, Riccardo Elia, dirigente dei camminatori Calabriando, e Francesco Gariano, persona di fiducia del barone Gian Pietro Sanseverino. Conducevamo una visita preliminare nella tenuta Sanseverino di Marcellinara, cittadina vicina a Lamezia, per organizzare il Cammino della Prima Italia, che poi si è svolto il 10 ottobre con la partecipazione del Prof. Armin Wolf, autore del celebre libro ULISSE IN ITALIA.
In esso Wolf espone le prove inconfutabili che la Terra dei Feaci, dove Ulisse approdò naufrago alla foce del fiume Amato, è la Prima Italia, cioè l’istmo Lamezia-Squillace nel quale re Italo operò la fusione tra i suoi Enotri e le popolazioni locali, dando così origine all’Italia. Italo istituì anche i banchetti comunitari, i sissizi, ai quali si portava il grano raccolto. Gli Enotri erano di origine greca come i Peucezi, gli Ausoni e i Coni che si stanziarono nel Sud Italia diversi secoli prima della colonizzazione greca classica, quella iniziata intorno al 750 a. C. con la fondazione di Crotone, Sibari, Locri, ecc.
Mi ero documentato sull’Amato che nasce nella Presila catanzarese e sfocia nel Tirreno vicino all’aeroporto di Lamezia, e scoprii che in antico il fiume si chiamava Lameto, Làmetos in greco, riportato dal geografo Ecateo di Mileto (550 a.C. – 476 a.C.). In passato c’era stato un errore nella scrittura del nome, cambiando la consonante elle iniziale in articolo e apostrofandolo, così il Lameto diventò l’Amato. Lo stesso era successo col fiume Ancinale, che nasce a Serra San Bruno e sbocca a sud di Soverato, fiume che in origine doveva chiamarsi Lacinale, perché attraversa la Lacina, la montagna selvosa simile a una Svizzera mediterranea, che si espande tra Spadola, Brognaturo, Simbario, Cardinale, San Sostene, Sant’Andrea e altri comuni limitrofi.
Quella mattina risalivamo l’argine del fiume che scrosciava rompendosi tra i massi di granito quando, all’improvviso, nella mia mente una luce mi rivelò la vicenda reale del cavallo di Troia. Rimasi indietro alla compagnia per riprendere fiato: non era la prima volta che mi succedeva quel fenomeno che poi mi lascia in uno stato di spossatezza. Mi sono chiesto perché mi succedono quei fenomeni che all’improvviso mi aprono nuovi orizzonti, e alla fine penso che essi provengono da quella che i pitagorici chiamavano theia prònoia, divina preveggenza. La vicenda del cavallo di Troia non è narrata da Omero nell’Iliade né nell’Odissea, ma è riportata da Virgilio nel secondo libro dell’Eneide: Enea, esule a Cartagine dopo la caduta di Troia, la racconta alla regina Didone. La guerra dei Greci contro Troia durava da dieci anni senza vincitori né vinti, e allora l’astuto Ulisse pensò di far costruire da Epeo un grande cavallo di legno, dentro il quale si nascosero alcuni tra i migliori guerrieri greci, sette o forse più. Quando il cavallo fu trascinato dai Troiani dentro le mura di Troia, i greci 2 uscirono di notte dal cavallo, aprirono le porte della città ai loro commilitoni che la espugnarono, massacrarono gli abitanti e la incendiarono.
Durante il ritorno a Itaca, Ulisse, l’ideatore del cavallo di legno, arrivò naufrago alla foce dell’Amato, come ha dimostrato Wolf. Quel cavallo era stato costruito da Epeo, che sarebbe poi stato fondatore di Makalla, in seguito rinominata Petelia e ora Strongoli in provincia di Crotone. Ulisse ed Epeo arrivati in Calabria si legano forse alla spiegazione del cavallo avuta a Marcellinara: quella vicenda non fu una favola antica, ma il ricordo ancestrale di fatti realmente accaduti. Difatti, l’antropologa e archeologa Marija Gimbutas (1921 – 1994) ha compiuto una ricostruzione storica del mondo neolitico tra l’8000 (ottomila) e il 3000 (tremila) a. C., quando i popoli della cosiddetta Antica Europa vivevano di agricoltura senza armi né guerre ed erano in sostanza governati dalle donne. L’Antica Europa comprendeva Ucraina meridionale, Ungheria, Romania, Moldavia, Balcani, Grecia e isole, Italia meridionale e Sicilia. Maggiori dettagli al riguardo si trovano nel capitolo 20 del mio libro Destino emozionale dell’universo, disponibile gratuitamente in rete: https://drive.google.com/file/d/1Iw3llzJkVKI4jcVY7sY2- gAHtbvPoT_2/view?usp=sharing Quel mondo primigenio, decantato dai poeti come leggendaria Età dell’oro o paradiso terrestre, è realmente esistito e la Gimbutas ce ne ha fornito le prove archeologiche.
Poi, a partire dal 3500 a. C., gli Indoeuropei o Kurgan, che provenivano dalle steppe attorno al Caucaso, al Volga e alla Siberia, sottomisero a diverse ondate i popoli dell’Antica Europa con l’uso del cavallo e delle armi. I loro capi guerrieri, inoltre, possedevano donne e schiavi: era un modo di vivere diametralmente opposto a quello dell’Antica Europa. La forza militare degli Indoeuropei era basata sulla domatura del cavallo, cosa che poi continuarono a fare anche i loro discendenti Sciti e i Mongoli di Gengis Khan. Ciò avveniva staccando il puledro dalla madre intorno ai sei mesi di età, mentre in natura il distacco non è brusco né forzato ed avviene tra uno e due anni in modo graduale, permettendo così al puledro di crescere sano in compagnia del suo gruppo familiare. Cavalli e puledri che galoppano liberi sui prati sono il simbolo stesso della libertà, ma con l’ammansimento e l’addestramento praticato dagli Indoeuropei, essi venivano resi docili agli ordini e dovevano abituarsi alla briglia e a portare il cavaliere sulla groppa. Tutto ciò era una violazione della legge di natura e diventò poi mezzo di sopraffazione di altri esseri umani i quali, con l’aiuto inconsapevole del cavallo, furono privati della libertà.
In sintesi, il leggendario cavallo di Troia permise la conquista della città con i guerrieri nascosti nella sua pancia, così come il cavallo con i guerrieri indoeuropei in groppa permise la conquista dell’Antica Europa. Si verificò allora un sovvertimento del principio di libertà che costituiva la base dell’etica dell’Antica Europa, quella che Pitagora formalizzò nei cinque principi o Pentalogo: 1) libertà, 2) amicizia, 3) comunità di vita e di beni, 4) dignità della donna, 5) vegetarismo. 3 Il fatto che la decifrazione di quel mito avvenga ora in Calabria conferma ancora una volta l’enorme potenziale di energie etiche che emergono da questa terra nei momenti di grave crisi, come quella che il mondo sta ora attraversando. Ricordiamo in breve che l’etica italica-pitagorica è la stessa etica di Cristo, al quale essa era arrivata attraverso i circoli ebrei-pitagorici dei Terapeuti di Alessandria di Egitto e degli Esseni di Israele. Nel mio libro menzionato c’è la spiegazione di come è avvenuta questa migrazione dottrinale. Allarghiamo ora il discorso alle popolazioni che vivevano nella Prima Italia, i quali avevano conservato l’etica del periodo matriarcale o gilanico, come viene chiamato quello scoperto dalla Gimbutas. Spostiamoci sulle rive dello Jonio, a Capo Lacinio o Capo Colonna, dove Pitagora tenne la sua Scuola e dove rimane una sola colonna del tempio dedicato a Hera Lacinia. Difatti, dopo la calorosa accoglienza riservata da Crotone a Pitagora al suo arrivo nel 532 a. C., egli si trovò poi in grave difficoltà nel far accettare ai Crotoniati l’ordinamento che prevedeva la comunità di vita e di beni. Andò allora a vivere con duemila indigeni che con mogli, figli e i loro capi abbandonarono i circonvicini villaggi barbari (cioè Italici non parlanti greco) e ne costruirono uno nuovo a Capo Lacinio, dove vissero in comunità e accolsero gli allievi che affluivano alla Scuola Pitagorica da terre vicine e lontane.
Questi dati,storicamente inconfutabili, non sono stati presi in seria considerazione e pertanto si continua ad affermare erroneamente che la Scuola di Pitagora si trovasse a Crotone. Comunque la maggior parte di allievi e allieve della Scuola provenivano proprio da Crotone col permesso, o almeno con la tolleranza, di genitori e autorità. Lapide che ricorda l’esistenza delle Scuola Pitagorica a Capo Colonna o Capo Lacinio 4 Ma, da dove provenivano quei duemila Italici che si stanziarono a circa 12 km da Crotone, che allora era al massimo della sua potenza? Come mai quella polis accettò uno stanziamento così importante nel suo territorio? La spiegazione più ovvia potrebbe essere che quei duemila Italici facessero parte del popolo dei Lacini che abitavano le terre attorno al Golfo di Squillace. Difatti, se da Capo Lacinio guardiamo verso ovest, vediamo difronte dall’altra parte del Golfo la foresta della Lacina, che esiste da tempo immemorabile e che tutti gli abitanti di quella costa, me incluso, conoscono da bambini. Sappiamo inoltre che il cosiddetto Villagio Enotrio di Broglio di Trebisacce, una cittadina sullo Jonio, fu abbandonato, non bruciato né distrutto, come attestano gli scavi archeologici, perché i suoi abitanti decisero di unirsi a Sibari, distante circa 16 km. La Lacina, invece, dista da Capo Lacinio circa 100 km, e tuttavia abbiamo evidenza dell’influsso culturale della Lacina su Pitagora con il Bue di Pane, che egli usò come offerta agli Dei in ringraziamento della scoperta del suo famoso teorema. Quel Bue di Pane è sopravvissuto fino agli anni 1960 a Monasterace, Badolato e altri comuni non lontani dalla Lacina, mentre ora sopravvive solo a Spadola, comune che si trova in piena Lacina. A ulteriore conferma di ciò, faccio notare che a poca distanza da Spadola c’è la zona della Lacina chiamata Torello, come piccolo toro, la stessa dove si trova la tenuta del Prof. Pino Nisticò.
Quei duemila Italici-Lacini elessero Pitagora come loro legislatore e si unirono entusiasticamente a lui, quando seppero che il filosofo raccomandava di vivere come essi vivevano da sempre. Inoltre, lo storico Timeo di Tauromenio (Taormina) afferma che a Crotone non c’erano schiavi. Sappiamo anche che non ce ne erano neanche a Locri, dove le Leggi di Zaleuco avevano proibito la schiavitù sia di uomini che di donne, mentre in Grecia la schiavitù era allora normale. Le donne del posto che i coloni greci prendevano in moglie, portarono la pratica della libertà ai mariti greci con i quali esse procrearono gli Italioti, nome che in origine non aveva nessun significato dispregiativo. Questo spiega anche la facilità con cui gli Italioti di Crotone accettarono nel loro territorio i duemila Italici-Lacini con i quali erano imparentati. Dal territorio di Sant’Andrea Jonio, il mio paese che ha alle spalle la Lacina e di fronte Capo Lacinio a est del Golfo, emergono elementi che evidenziano la continuità di scambio e di fusione tra Lacini e coloni greci. Abitato da millenni, Sant’Andrea aveva ed ha ancora gran parte della popolazione che porta il cognome Samà, forma tronca di samaios, che significa di Samo, cioè proveniente dall’isola greca da cui proveniva anche Pitagora. La provenienza dei Samà da quell’isola è confermata dal fatto che i Samà di Sant’Andrea erano vasai, l’arte per la quale Samo era famosa. È difficile stabilire al momento se quei Samà vennero prima, durante, assieme o dopo Pitagora, perché Sant’Andrea ha diversi altri cognomi che indicano provenienza da altre località greche: Coccari da Kokkari di Samo, Carioti dalla Caria, Carchidi dalla Calcidia, Càristo da Càristo ecc.
Inoltre, su una collina di Sant’Andrea chiamata Incenso (cioè non censita), c’è un’antica fontana di uso pubblico, ora ricoperta di rovi, chiamata Sundrì. Questa parola viene dal greco sun+edra, assieme+sedere, quindi consesso, e sunedrìe (sinedrìe come sinedrio) erano chiamate le 5 riunioni dei pitagorici antichi. In sintesi, la Lacina, Capo Lacinio e il Bue di Pane suggeriscono l’esistenza del popolo preitalico o italico dei Lacini, i quali vivevano attorno al Golfo di Squillace secondo l’etica dell’Antica Europa, quella che Pitagora scoprì e dichiarò di valore matematico universale. Antica fontana del Sundrì Inoltre, Aristotele e altri autori antichi come Diodoro Siculo e Giamblico, nonché importanti storici attuali tra cui Maurizio Giangiulio e Donatella Erdas, si discostano dalla tradizione secondo cui il fondatore di Crotone sarebbe stato il greco Miscello di Ripe, ed espongono l’altra versione secondo la quale Eracle predisse la fondazione della città dove egli aveva costruito la tomba di Kroton, genero di Lacinio, Kroton che lo steso Eracle aveva ucciso per errore scambiandolo per un ladro.
Illustri cattedratici hanno affermato che gli acusmi pitagorici, un insieme di massime che hanno poco in comune con la dottrina pitagorica, siano di provenienza tribale, senza però spiegare da quale tribù esse provengano. La logica ci porta a ipotizzare che quella tribù fosse la comunità di Italici con i quali Pitagora viveva. Quegli Italici probabilmente misero assieme alcune massime ascoltate dai pitagorici o da Pitagora stesso con detti sapienziali del loro popolo. Se questa mia ipotesi si dimostrasse vera, si squarcerebbe finalmente il velo di mistero che copre gli Itali-Lacini. Ecco alcuni acusmi: – Avviandoti al tempio, inchinati, né t’occupare, con parole e con atti, d’altra faccenda lungo il cammino. – Evita le vie maestre, cammina per i sentieri: non perdere tempo a parlare con persone incontrate per caso. – Frena la lingua davanti agli altri, per deferenza verso gli Dei. 6 – Non attizzare il fuoco col coltello: non aizzare chi è in preda all’ira. Seguiamo ora Omero che nell’Odissea racconta di Ulisse che voleva ritornare alla sua Itaca, un viaggio che mi sento di definire così: Ulisse dall’inferno di Troia al paradiso dei Feaci e ritorno all’inferno di Itaca. Difatti, il suo viaggio fu tormentato da lotte con Ciclopi, Lestrigoni, Scilla e Cariddi, Polifemo e tempeste spaventose che alla fine lo gettarono nudo sulle sponde del Tirreno. Quella nudità ci mostra un guerriero al quale il Tirreno ha tolto le armi, come poi fece lo Jonio con i Bronzi di Riace. Ulisse fu rivestito di morbidi panni da Nausicaa che lo condusse nella reggia del padre Alcinoo, dove lo straniero fu onorato e colmato di doni.
Alla fine Ulisse volle però tornare alla sua Itaca, dove lo riportò una nave dei Feaci. Ma i Proci spadroneggiavano a casa sua e gli insidiavano la moglie Penelope. Alla fine egli riuscì con l’astuzia ad armarsi e a sterminare i Proci, i quali versarono tanto sangue che il pavimento fumava. Compiuta la strage, obbligò le dodici ancelle che erano state con i Proci a pulire il sangue e poi Telemaco le impiccò tutte a una corda: le sventurate nel soffocare agitavano mani e piedi come colombe prese al laccio. Ricordo ancora l’orrore che mi fecero i versi del Canto XXII dell’Odissea che descrivono quell’impiccagione, quando li lessi all’età di quattordici anni. Per finire, Telemaco, degno figlio di tanto padre, tagliò al capraio infedele Melanzio orecchie, naso, genitali, mani e piedi e li diede in pasto ai cani. Con quella narrazione il cieco Omero apre i nostri occhi e ci dice che Ulisse non trovò pace né a Troia né in giro per il mondo e nemmeno sotto il suo tetto, con la sola eccezione del mondo pacifico e benevolo dei Feaci. Potremmo allora concludere che Itaca, tanto decantata dai poeti come patria ideale da raggiungere, si rivela invece come il peggiore degli incubi: Iliade e Odissea, difatti, descrivono un mondo di violenza senza speranza, come l’Inferno di Dante.
Viene allora spontaneo chiederci: esiste realmente una terra dove sia bello vivere? Prima di rispondere a questa domanda dovremmo riflettere che tutti i monumenti equestri di re o comandanti a cavallo, come Marco Aurelio a Roma, altro non sono che la raffigurazione della conquista violenta degli Indoeuropei. E lo stesso si può dire delle molte cariche di cavalleria degli eserciti nel passato, senza dimenticare i film western che testimoniano come quell’antica violenza sia stata introdotta in America dagli Anglosassoni, che almeno culturalmente discendono dagli Indoeuropei. Pitagora affermava invece che gli animali sono nostri fratelli minori che l’uomo deve aiutare e proteggere, e ci sono al riguardo quattro episodi riportati nelle antiche Vite di Pitagora scritte da Porfirio, Giamblico e Diogene Laerzio. Pitagora non solo non voleva che si uccidessero gli animali per mangiarli, ma rispettava il loro istinto naturale come fece a Olimpia con l’aquila che si posò sulla sua testa: egli l’accarezzò e la rimise in libertà. A Sibari catturò un serpente squamoso e mortifero, ma non lo uccise, lo allontanò. A Caulonia rese mansueta l’orsa bianca cattiva che uccideva gli abitanti e la lasciò libera di vagare nei 7 boschi. Durante un viaggio da Metaponto a Crotone vide dei pescatori che tiravano a terra le reti: egli pagò i pesci e li fece rimettere in mare. La vera patria dove sia bello vivere fu ripetutamente indicata, ma finora con scarso successo, dal super-pitagorico Cristo, il quale liberò gli animali destinati al sacrificio nel Tempio di Gerusalemme e si definì Buon Pastore, quello che non mangia e non vende le pecore, ma vive in loro compagnia e le conduce al pascolo.
Egli affermò che il regno di Dio o regno dei cieli si trova dentro di noi, entos umòn: non dunque in un luogo, nemmeno nella Terra Promessa di Palestina, che gronda sangue e violenza dal primo giorno che fu raggiunta fino a oggi. Quel regno felice sta nell’interiorità della persona che col retto agire rispetta le leggi di natura, che è il codice originario e autentico di Dio, come scrisse il pitagorico Tommaso Campanella. Oggi abbiamo nuove conoscenze che ci permettono di considerare l’antica Grecia per quello che realmente era: un mondo carico di violenza che solo nella Prima Italia venne a contatto con quegli elementi etici su cui Pitagora fondò la Magna Grecia. Questo ci suggerisce di distinguere tra civiltà formale e civiltà sostanziale: formale è la civiltà che i Greci portarono nelle colonie con lingua, statue, templi, vasi e dipinti. Ma la civiltà sostanziale, quella della vita felice, si trovava in Calabria da millenni e miracolosamente sopravvissuta. La discrepanza tra civiltà formale e civiltà sostanziale è facilmente comprensibile se pensiamo a Firenze nello splendore dell’arte nel Rinascimento, quando però uccisioni, stragi, congiure e ammazzamenti fin dentro le chiese avvenivano di continuo.
La decadenza grave in cui versa la Calabria, nonché la marea crescente di conflitti nel mondo attuale, derivano dalla non osservanza dell’etica pitagorica: io non ho dubbi al riguardo. Ma dalla Calabria, da dove nessuno se l’aspetta, la divina preveggenza fa partire ora un nuovo ciclo per proseguire il cammino evolutivo verso quella dimensione superiore che Italici, Pitagora e Cristo indicarono all’umanità.
Salvatore Mongiardo – Soverato (CZ) 18 novembre 2021