Noi non siamo nei guai fino al collo perché è sopraggiunta la pandemia ma, al contrario, ci sta dando filo da torcere la pandemia perché prima che si manifestasse ci trovavamo già da tempo nei guai fino al collo.
E i nostri guai sono evidentemente in crescita, visto che ci stiamo dimostrando incapaci di ricavare dalla pandemia l’unica lezione possibile: la vera emergenza è la crisi ecologica, e dunque hanno fatto ormai il loro tempo, sono cioè privi di futuro, gli assetti economici e produttivi delle nostre società, fondati sullo spreco delle risorse, sulla guerra contro la natura in nome di miserabili guadagni monetari immediati per pochi (mentre si sa che un euro investito nell’economia circolare e nel restauro dei territori produce oggi più posti di lavoro di un euro destinato alle industrie nocive e alla distruzione degli ecosistemi), sull’incremento continuo dell’urbanizzazione, sull’agricoltura e l’allevamento industriali che, mentre immettono sul mercato cibo scadente dagli altissimi costi ambientali e sanitari, costituiscono una causa della fame nel mondo perché determinano la progressiva e inesorabile erosione della biodiversità e della fertilità dei terreni insieme all’espulsione dagli stessi dei piccoli produttori. Purtroppo nel 2020 l’eliminazione di aree forestali, che è in ultima istanza il presupposto delle epidemie e pandemie fiorite negli ultimi lustri, invece di subire una battuta d’arresto, ha registrato una formidabile impennata. E fanno rabbrividire le recenti dichiarazioni di Giovannini, Cingolani e Patuanelli sul “capitale naturale” e il destino dei boschi italiani consegnati alle loro decisioni.
Ma il nostro intervento, come al solito, si propone di richiamare l’attenzione su un caso concreto calabrese, sul lungomare di San Lorenzo che ormai è diventato un esempio classico di cecità distruttiva delle pubbliche istituzioni, del loro abbarbicarsi, mentre la barca affonda, alle prassi e alle visioni autolesioniste (e per giunta fuorilegge) che ci stanno portando al generale naufragio. A San Lorenzo le associazioni locali avevano fatto pervenire all’amministrazione comunale, e in seguito alla Città Metropolitana di Reggio Calabria, una domanda consapevole di buon governo del bene comune spiaggia, prima ancora della manifestazione, nel 2017, di un gesto progettuale obsoleto, eccessivo e fuori da ogni regola (si programmava un ettaro di asfalto impermeabile sul litorale di un’area inclusa come Zona speciale di conservazione nella Rete Natura 2000 e inserita tra i beni di prioritario interesse nazionale dal Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004). Enormi infatti sono i rischi ambientali – rapida riduzione delle spiagge in primis – se un ecosistema fragile come quello costiero non viene gestito attenendosi alle Linee guida per fronteggiare il fenomeno dell’erosione messe a punto dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e firmate da tutte le regioni, il cui onore non è certo tenuto alto dalla Calabria che nella fattispecie ha esercitato in maniera scadente le sue funzioni di controllo. Inqualificabile anche il comportamento dell’attuale funzionario di zona della Soprintendenza, pagato con i soldi del contribuente per difendere il paesaggio e incapace di trarre a questo proposito, a differenza del suo predecessore, indicazioni dalla specifica relazione dell’ISPRA sul paraggio di San Lorenzo, dove c’è scritto nero su bianco che il tratto di lungomare costruito nel 2001 ha causato erosione e che il rispetto della fascia dunale, ancora non artificializzata nell’area di progetto, è l’unica maniera per contrastare nel breve, nel medio e nel lungo periodo l’ulteriore arretramento della spiaggia. La Soprintendenza, che avrebbe dovuto mettere un argine alla superficialità irresponsabile espressa nell’occasione dal comune di San Lorenzo, dalla Città Metropolitana e dall’ufficio Via del Dipartimento Ambiente regionale, si è accodata a chi pervicacemente ha voluto a tutti i costi, con una corsa a ostacoli durata quattro anni, sancire il primato di un presente ammantato di abitudini urbane sul futuro prossimo. E non riusciamo a spiegarci come faccia il funzionario Filocamo a dormire sonni tranquilli, non funestati da rimorsi: chi ricopriva in precedenza il suo ruolo aveva incontrato coscienziosamente un ingegnere dell’ISPRA, ed era intenzionato a prescrivere una larghezza massima dell’opera di otto metri; per quale ragione questo lavoro di documentazione, successivo al parere contrario espresso per le violazioni di legge configurate dall’originario progetto, è stato del tutto ignorato? Una decisione ragionevole di questo tipo avrebbe salvato capra e cavoli: le esigenze umane di fruizione dell’area insieme a quelle dell’ecosistema di sopravvivere riacquistando la sua dunale fisionomia. E inoltre un altro elemento avrebbe dovuto guidare una decisione più cauta : la spada di Damocle del Ricorso al Capo dello Stato promosso da Italia Nostra, e giunto alla conclusione della fase istruttoria con il riconoscimento della fondatezza di tutte le istanze del ricorrente. Un rispetto minimo delle risorse dei cittadini (già in buona parte dilapidate con i precedenti lavori abusivi, privi della Valutazione di incidenza regionale, che appunto dall’ottobre del 2019 al febbraio del 2020 si sono dedicati al massacro dell’ambiente e di ingenti somme che i Patti per il Sud avevano stanziato – incredibile ma vero – per lo “sviluppo sostenibile”) avrebbe suggerito di far venire meno le ragioni del contendere andando incontro alle sacrosante richieste di Italia Nostra (ed esistono indicazioni progettuali alternative delle associazioni pervenute alla Città Metropolitana e alla stessa Soprintendenza) oppure di attendere l’esito del ricorso prima di ripartire col cantiere. Perché, se questo esito dovesse sopraggiungere adesso, con quali fondi si pagherebbe quanto è stato fatto da gennaio a oggi? Pescando nella voragine del già dissestato comune di San Lorenzo? Non si sa, l’unica certezza è il mancato aggiornamento dei protagonisti di questa vergognosa vicenda, portatori di una mentalità più vecchia, al contempo antiambientale e antieconomica, di quella che dovrebbe essere già scaturita dalla conoscenza dell’Accordo di Parigi e dell’Agenda strategica delle Nazioni Unite al 2030 (doverosa, non facoltativa per chi occupa posti di responsabilità). Consigliamo loro, se non sanno quello che fanno, di leggere almeno qualche pagina di Giovanni Urbani del lontano 1982, che ragionava sulla necessità che il fare umano sia integrativo e non distruttivo della bellezza del mondo in un’epoca in cui l’uomo comincia ad avvertire la terribile novità dell’esaurimento del proprio ambiente di vita.