L’Università delle Generazioni di Agnone del Molise è venuta a conoscenza di un breve racconto inedito scritto da Giovanni Sabelli per ricordare ciò che ha vissuto in prima persona, all’età di dieci anni, durante il bombardamento di Caserta, venerdì 27 agosto 1943 (in particolare quanto è avvenuto all’altezza di Corso Umberto n. 110).
Ricorrendo adesso il 72° anniversario di quell’evento drammatico, riteniamo utile proporlo all’attenzione, alla lettura e alla maggiore e migliore diffusione di chi probabilmente è più interessato a conoscere una testimonianza così diretta.
Giovanni Sabelli (nella foto) è di origini agnonesi ma vive a Roma da molto tempo. Finora ha pubblicato tre romanzi: Le stagioni di Alvaro (Todariana, Milano 1973), Il vizio della memoria (Todariana, Milano 1995) e Leggendo Cormac McCarty (e-book, Messina 2014). Questo terzo libro può essere letto gratuitamente digitando
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Giovanni Sabelli
“A Caserta, un venerdì del 1943”
Quel venerdì 27 agosto 1943, la giornata era limpida e il sole era alto, quando il rombo dei B17, famosi come “fortezze volanti”, fece tremare i vetri e le porte della casa di Vito e di tutte le case della piccola città campana.
Ma i suoi abitanti, la maggior parte, nemmeno quel giorno se ne stupirono, e sollevarono appena la testa dalle loro faccende, per la sola curiosità di scorgere gli aerei e di additarseli a vicenda. Ormai non si spaventavano più, da quando quel pezzo di cielo sopra le loro case, per l’assenza di contraerea, era divenuto un buon rifugio per i bombardieri che vi sostavano, quasi “a riprendere fiato” prima di tornare a riversare un nuovo carico di bombe sulla vicina città di Napoli che da mesi subiva l’onta di un massacro quotidiano.
Così al suono della sirena che annunciava l’imminente presenza degli aerei, ormai solo in pochi continuavano a scendere negli scantinati dei palazzi adibiti a rifugi antiaerei di quartiere.
Neanche a casa di Vito si erano preoccupati della sirena, e quando aveva sentito gli aerei sopra di lui, Vito che stava scarabocchiando disegni, lasciò i suoi fogli sulla scrivania ed uscì sul balcone della stanza dei genitori che dava sul corso, per vederli.
Erano cinque e volavano in formazione, tre avanti due dietro. Splendevano sotto il sole e Vito pensò che doveva farci un gran caldo lì dentro.
Guardò lungo il corso e vide gente con bambini che entrava nel portone del palazzo accanto per andare al rifugio. Il rombo degli aerei si allontanò e lui rientrò dal balcone e attraversò correndo le stanze per andare a vantarsi di aver visto gli aerei e chiedere se sarebbero scesi al rifugio. Ma quando fu sulla porta della sala da pranzo di nuovo avvertì il rombo degli aerei e nello stesso istante vide suo padre staccarsi da una delle finestre dalla quale stava scrutando verso l’alto e, curvo, precipitarsi gridando al centro della stanza: “Hanno sganciato!… Hanno sganciato!!… buttatevi a terra … a terra!…”
Il padre aveva udito il sibilo della bomba e Vito sentì il suo braccio avvolgergli le spalle e spingerlo verso il pavimento. Lo scoppio coincise con la fine delle sue parole. La casa sussultò e parve scollarsi dalle fondamenta. Le imposte più volte percossero il muro con grande fragore e i vetri andarono in pezzi insieme ai piatti che sua madre aveva tolto dalla credenza per poggiarli sul tavolo tondo della sala.
Tutti e tre si trovarono faccia a faccia, sdraiati a pancia in giù sul pavimento, con le mani intrecciate a cercare di coprirsi gli occhi e la testa.
Seguì un altro scoppio, più forte, più vicino, simile a uno schianto, e poi ancora un altro. Sentirono a quel punto lo sbattere violento della porta in fondo al corridoio che dava nelle stanze sul giardino, e in una nube di polvere densa che fuoriusciva dalla porta, con le braccia alzate a battere l’aria e i lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle, intravidero la loro anziana padrona di casa, “la signorina” come la chiamavano, avanzare vacillando lungo il corridoio e dietro di lei la donna che da anni l’accudiva, anche lei con le mani alzate, come se dietro avessero qualcuno con un’arma puntata.
“La stanza … la mia stanza …! – gridava con la voce strozzata dal pianto “la signorina”, – è andata giù …nel giardino … tutto è andato giù … salvatevi … salvatevi …!”
Allora Vito e i suoi, con cautela per non ferirsi, s’erano tirati su dal pavimento e frantumando vetri e altro sotto le scarpe, s’erano diretti alla porta d’ingresso che s’era spalancata, e staccata da un cardine, pendeva di traverso sul pianerottolo.
Ci fu un parlare concitato lì all’ingresso, con “la signorina” e l’altra donna, perché scendessero al rifugio insieme a loro. Ma non ci fu modo di convincerle a lasciare la casa.
“Andate voi … andate … voi siete giovani, dovete salvarvi…!” lei continuava a ripetere passandosi sul viso le lunghe dita affusolate e tossendo per la polvere che ormai avvolgeva ogni cosa intorno.
Gli scoppi continuavano a susseguirsi, anche se non erano più così vicini, ma non c’era più tempo per discutere. Così, il padre per primo e Vito e la madre dietro di lui, attraversarono la porta d’ingresso, e dal pianerottolo, azzardando, un gradino dopo l’altro, tenendosi accostati alla parete, si ritrovarono nel cortile del palazzo senza capire come avessero fatto ad arrivare giù, lungo le quattro rampe di scale ricoperte di detriti, immersi nella polvere che bruciava gli occhi impedendogli di vedere qualsiasi cosa intorno e costringendoli continuamente a tossire.
Curvi uscirono dal portone sul corso, e rasentando il muro, uno dietro l’altro, raggiunsero l’ingresso del ricovero. Era pieno di voci, di preghiere, di aria calda irrespirabile. Si fermarono sotto la prima volta dello scantinato tenendosi per mano, con le dita conficcate nel palmo di quella che stringevano.
Dopo un po’ che se ne stavano lì, appoggiati al muro grezzo dello scantinato, cominciarono a passare i primi feriti, alcuni sorretti per le braccia, altri li portavano dei soldati sulle barelle, che all’uscita del ricovero si scontravano con altri soldati che entravano di corsa con barelle arrotolate e proseguivano verso il fondo dello scantinato.
Era stata colpita la parte terminale del ricovero, quella che aveva un’altra entrata sulla via perpendicolare al corso e che finiva proprio sotto il giardino della loro casa, su cui era crollata la stanza della “Signorina”. Vito e i suoi spesso erano andati a sistemarsi proprio in quel settore, parecchio all’interno, durante gli allarmi notturni. Nessuno però osava chiedere ai soldati cosa fosse successo lì in fondo, forse per voler ignorare notizie peggiori di quelle che pensavano.
I feriti avevano sangue sui vestiti e sul viso ed erano pallidi e storditi e molte delle donne che affollavano il ricovero, nel vederli passare sotto i loro occhi, a stento trattenevano le lacrime premendosi le mani a pugno sulla bocca.
Vito notò che anche sua madre subiva la stessa emozione e vide il padre prenderle il viso tra le mani: “Non guardare … non guardare …” le diceva attirandola a sé. “Fra poco vedrai che suona il cessato allarme, e ce ne andiamo da qui” disse poi rivolto a Vito mettendogli una mano sulla testa e scompigliandoli i capelli.
Il tempo passava e la gente pregava, in piedi con le spalle alla parete, riunita per gruppi di famiglia. Da un po’ non si udivano più scoppi.
Poi all’ingresso del ricovero qualcuno gridò che l’allarme era cessato, che le sirene non funzionavano, ma che era cessato … Non ci fu una grande reazione all’annuncio. Ciascuno rifletteva sulla decisione da prendere, se uscire o restare. Ma il padre di Vito la sua decisione l’aveva già maturata.
“Ce ne andiamo” disse, e prendendo lui e sua madre per un braccio si avviò verso l’uscita del ricovero. Qualcuno li seguì mentre altri rimasero a interrogarsi a vicenda su cosa fare. Uscirono di nuovo sul corso e per quanto fossero all’incirca le tre del pomeriggio, fuori era quasi buio.
Sotto un cielo limpido, col sole alto, quel giorno, alcuni tra uomini donne e bambini, trovarono la morte in quello scantinato che fungeva da ricovero.
Ma questo Vito e suoi lo seppero tempo dopo quel lungo viaggio iniziato all’uscita dal ricovero, quando, immersi nel buio irrespirabile del corso, calpestando vetri e calcinacci, lo avevano attraversato in tutta la sua lunghezza per allontanarsi dalla città.
Avevano impiegato quasi tre giorni per raggiungere il paese e Vito, quei tre giorni, aveva sempre avuto in mente di raccontarli. Un giorno o l’altro l’avrebbe fatto.