Cara Professoressa Michela Nocita, ho appena finito di leggere con la massima attenzione il suo libro I fondatori delle colonie, che lei ha avuto la gentilezza di regalarmi. Sono stupito per la ricchezza di notizie, la profondità dell’analisi, l’acume nell’esame delle complesse vicende della Magna Grecia, e mi congratulo con lei e il coautore Lorenzo Braccesi. L’averla conosciuta è stata una fortuna ma anche un’occasione troppo ghiotta per lasciarmela sfuggire: io penso che lei potrebbe aiutarmi nel districare quella che io chiamo la Questione Italia. Tenga presente che io non sono uno storico di professione, anche se qualcosa so per formazione, passione e poi per dovere professionale da quando ho assunto la carica di Scolarca della Nuova Scuola Pitagorica. E, forse proprio perché non sono storico, mi salta agli occhi una lacuna che nessun libro – tra quelli che ho consultato finora – ha colmato. Ed è questa. Sappiamo che i greci che dalla madrepatria venivano da noi a fondare le colonie erano tutti maschi, i quali procreavano unendosi ovviamente con donne del posto. Quelle donne, però, non erano persone primitive senza cultura: erano italiche della Prima Italia con una cultura eticamente più avanzata rispetto a quella dei greci. Gli storici confermano che da quell’unione nacquero gli italioti, figli dei greci e delle donne italiche, le quali naturalmente ebbero grande influenza sui figli: sarebbe ingenuo pensare che una madre non abbia influenza determinante sui figli. In mezzo a quella popolazione italiota arrivò Pitagora, già venuto col padre da bambino a Crotone. Vi tornò da adulto intorno al 532 a. C. e vi fondò la sua Scuola. Io ho potuto costatare con le mie ricerche che i pilastri etici della dottrina pitagorica erano tutti già presenti nella Prima Italia, quella nata intorno al duemila a. C. tra Lamezia e Squillace, che poi si espanse verso nord e sud da mare a mare, Jonio e Tirreno.
Quei cinque principi erano:
1.libertà
2.amicizia
3.comunità di vita e di beni
4.dignità della donna
5.vegetarismo.
Questo in sostanza conferma Aristotele quando nella sua Politica (libro 7, capitolo 8) tratteggia l’Italia fondata da Italo sui Sissizi, i banchetti comunitari che si diffusero in tutto il Mediterraneo fino a Sparta e in Egitto. Fu comunque Pitagora che elaborò il concetto della maggiore dignità della donna rispetto al maschio. Il fatto che quei principi fossero comuni agli Itali e a Pitagora non può essere un caso. La spiegazione più semplice potrebbe essere che Pitagora rimase favorevolmente colpito dallo stile di vita che aveva visto da bambino nel suo primo viaggio: non per nulla Crotone era chiamata Crotone d’Italia. E da adulto volle tornare fra quella gente che lo praticava. Egli poi lo elevò a modello etico universale. Un chiaro esempio fu il Bue di Pane, che gli Itali infornavano col primo grano raccolto per ringraziare il bue aratore. Egli lo offrì agli Dei in ringraziamento della scoperta del suo teorema, e ne fece il simbolo della fine della violenza rifiutandosi di uccidere il bue animale che qualcuno gli aveva dato perché lo sacrificasse. Questa mia ipotesi spiegherebbe anche l’accoglienza trionfale che le donne di Crotone riservarono a Pitagora al suo arrivo. Porfirio scrive che le donne decisero di vivere in comunità fondando un’associazione per lui. Le donne di Crotone, cioè, avevano ascoltato un filosofo greco che le esortava a vivere alla maniera della loro gente italica, le esortava a tornare cioè al costume di prima dell’arrivo dei greci. Come mai le donne di Crotone potevano concepire e praticare una tale libertà, se non perché le italiche erano libere, contrariamente alle donne greche chiuse nei ginecei? Esistono tracce di ginecei nella Magna Grecia? Non c e ne dovrebbero essere, almeno nelle zone italiche… Il comune amico Domenico Lanciano mi aveva segnalato lo splendido volume Da Italìa a Italia, le radici di una identità, edito a Taranto nel 2011dall’Istituto per la storia e l’archeologia della Magna Grecia. L’ho letto con religioso puntiglio perché esso sfiora più volte la Questione Italia, ma non scende nella parte etica, che è quella che io vado indagando. Mi riferisco soprattutto agli scritti magistrali dei Professori Paolo Poccetti e Alfonso Mele, quest’ultimo quello che più si avvicina alla mia tematica. In estrema sintesi, riassumo così quello che riguarda la parte etica. La particolarità etica del mondo italico era già nota ad Aristotele che diede il nome di Scuola Italica ai filosofi magnogreci, Pitagora in primis. Aristotele voleva rimarcare la peculiarità della filosofia diffusa da Crotone come fortemente collegata al mondo originario italico, non a quello italiota. L’altra scuola era ovviamente la Scuola Jonica di Mileto, oggi sulla costa turca. Aristotele aveva dunque ben chiaro in mente che la Scuola Italica aveva contenuti ben diversi da quella Jonica. Il Mele afferma acutamente che il propulsore dell’espansione del nome Italia, che Augusto impose dall’attuale Calabria fino alle Alpi – tota Italia – fu proprio il pitagorismo. E cita la fondazione di Italica (l’attuale Siviglia in Spagna) nel 206 a.C. ad opera di Scipione l’Africano. La fondazione di Italica prova l’alta considerazione che il nome di Italia evocava tanto che tutti volevano essere Italici, anche se poi non osservavano i valori italicopitagorici. Difatti i romani facevano guerre di conquista, praticavano la schiavitù, ignoravano la comunità di vita e di beni dei quali, per esempio, la plebe romana era priva. Altra testimonianza chiara dell’apprezzamento dell’etica italico-pitagorica fu la statua che Roma eresse nel Foro a Pitagora come al più sapiente tra gli uomini. Lo ammiravano, ma poi non seguivano i suoi principi. Un atteggiamento bene espresso da Ovidio nel motto: Vedo le cose buone, le approvo ma seguo le cattive… Il problema che io pongo è essenzialmente di ordine etico-filosofico e può essere. Diciamo pure che io vorrei andare oltre l’archeologia di colonne e statue, fossero anche i Bronzi di Riace, per fare archeologia dell’etica, cioè scavare per trovare le regole immutabili della buona vita, il che sarebbe la scoperta più importante di tutti i tempi. Regole che a me sembrano indispensabili per armonizzare il nostro mondo in preda al caos. Secondo la mia analisi quelle regole sono i cinque principi pitagorici, confermati dai disastri di venticinque secoli di storia, la quale mostra un susseguirsi di guerre e disordini causati proprio dalla non osservanza di quei principi. Pitagora aveva capito che quei principi non sono opinabili, ma eterni e immutabili perché poggiano sulla struttura stessa dell’Essere: sono quindi immutabili come le regole della matematica e della geometria. Ecco perché sarebbe importante una indagine a tutto campo della terra di nascita di quelle regole, l’Italia, la grande sconosciuta. Nel nostro incontro le ho dato il mio libro Cristo ritorna da Crotone, nel quale sviluppo il tema dell’identità della dottrina etica di Cristo con quella italico-pitagorica. Se questo è vero – e personalmente non ho dubbi – vuol dire che nella Prima Italia si era formata un’etica poi capita e diffusa da Pitagora e seguaci. Quella stessa etica si diffuse per cinque secoli in tutto l’impero di Roma, a oriente come a occidente, e arrivò a Cristo tramite gli Esseni e i Terapeuti. Gli Esseni erano i pitagorici ebrei di Israele, mentre i Terapeuti erano i pitagorici sempre ebrei che vivevano attorno ad Alessandria d’Egitto. Su questo abbiamo conferma inequivocabile nelle opere di Giuseppe Flavio e Filone Alessandrino, due importanti dotti ebrei che scrissero in greco. La predicazione di Cristo, quindi, fu preceduta e favorita dall’opera dei pitagorici sicuramente attivi, anche se non sempre molto visibili, in tutto l’impero romano. Spesso si sente la domanda: Come potevano i dodici apostoli di Cristo, pescatori senza cultura, conquistare il mondo in così breve tempo? La risposta è: I dodici apostoli predicavano una dottrina insegnata loro da Cristo che corrispondeva all’etica pitagorica già abbastanza diffusa nell’impero di Roma e oltre. Quel modello, che potremmo chiamare italico-pitagorico e protocristiano – non quindi cristiano come le Chiese e le teologie che poi lo svilupparono a modo loro – è oggi schiacciato da nord dal modello competitivo anglosassone, basato sul successo e il profitto. E da sud dal modello mediorientale, connotato da uno stile di vita guerriero e maschilista, che cerca il predominio con le armi e l’assoggettamento dei vinti. La prova è il dissidio insanabile tra israeliani e arabi che vogliono prevalere gli uni sugli altri a costo di annientarsi a vicenda.
Riformulo dunque le mie domande, sempre con gli occhi rivolti alle radici italiche:
1. Cosa sappiamo dei popoli che vissero nell’Italia prima dell’arrivo dei greci?
2. Chi erano gli Itali antropologicamente?
3. Come e dove esattamente vivevano, avevano città?
4. Avevano templi, quali Dei adoravano, come immaginavano l’oltretomba?
5. Come mai vivevano liberi in un mondo dominato dalla schiavitù?
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6. La proibizione della schiavitù a Locri, già nel sesto secolo a. C., non derivava
dagli itali preesistenti alla colonia locrese?
7. Da dove deriva la conoscenza di Timeo, filosofo di Locri e quindi italico, riportata
da Platone nel suo Dialogo Timeo, che parla dell’unità di tempo e spazio negli
stessi termini elaborati millenni dopo da Einstein? Afferma difatti Timeo: Il tempo
fu prodotto insieme con il cielo affinché, così come erano nati insieme, si
dissolvessero anche insieme, se mai dovesse avvenire una loro dissoluzione.
8. In che misura il vino degli Enotri, progenitori degli Itali, e il pane, di cui gli Itali si
nutrivano, ha influenzato la formazione della loro etica?
9. Il clima favorevole e lo scambio termico tra i golfi di Lamezia e Squillace, e la
conseguente fruttificazione tutto l’anno, hanno contribuito a creare una
popolazione non aggressiva e amichevole?
10. La facilità di avere frutti in ogni stagione, può essere stata alla base della comunità
di vita e di beni?
Mi rendo conto che queste domande vanno oltre l’archeologia delle pietre e
raccontano quest’altra storia.
C’era una piccola terra chiamata Italia, ricca di acque, neve, boschi e vegetazione.
Il vento fresco di ponente, lo zefiro, soffiando da Lamezia a Squillace, effettuava lo
scambio termico mitigando il calore dello scirocco. La conformazione delle alture, che da
poca distanza dal mare s’innalzano fino a montagne di mille metri, permettevano una
varietà di coltivazioni agricole e offrivano una varietà di frutti e grano abbondante come
alimento base. Nell’estate c’era ombra per ripararsi e gli inverni non erano così rigidi da
uccidere. Quella popolazione abbandonò l’allevamento animale per dedicarsi più
convenientemente all’agricoltura. Così uscì dalla loro testa la cultura pastorale del dominio
sull’animale e dell’uccisione dello stesso per nutrirsene. La vita e i beni in comune furono il
corollario di un’attività di produzione agricola che si faceva insieme per le semine, la cura
dei campi e il raccolto. Era gente libera, amichevole, non competitiva, che ignorava la
guerra e la conquista.
Era la mitica Età dell’Oro, che si ritiene un’epoca leggendaria, ma che una ricerca
approfondita potrebbe dimostrare che era la Prima Italia. Difatti, l’Età dell’Oro fu scritta da
Esiodo intorno al 700 a. C., all’incirca lo stesso periodo di composizione dei poemi
omerici. Il poderoso studio del Professor Armin Wolf, uscito sotto il titolo di Ulisse in
Italia, 2018, dimostra al di là di ogni dubbio che Scheria, la terra, non l’isola, dei Feaci
dell’Odissea, corrisponde all’istmo tra Lamezia e Squillace, cioè alla Prima Italia, dove
vivevano i mangiatori di pane.
Quindi, non solo l’occidente romano apprezzava e capiva la dignità e il valore del
mondo italico, ma anche l’antica Grecia percepiva un’epoca felice in una terra tanto
generosa da denominarla Aurea Aetas. Esiodo, nella sua opera Le opere e i giorni, parla
dell’Età dell’Oro (versi 116-119, traduzione di E. Romagnoli) affermando l’abbondanza dei
frutti e la comunità di vita e di beni con queste parole:
E ogni sorta di beni
era fra loro: la terra datrice di spelta (grano), i suoi frutti,
da sé, facili e in copia, porgeva; e benevoli e miti,
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l’opere tutte fra sé ripartivano e i beni opulenti.
Nell’Odissea (libro 7, versi 152-161, traduzione di I. Pindemonte), leggiamo che le ancelle
macinavano il biondo grano mentre nell’orto di Alcinoo:
Alte vi crescon verdeggianti piante,
Il pero, e il melagrano, e di vermigli
Pomi carico il melo, e col soave
Fico nettareo la canuta oliva.
Né il frutto qui, regni la state, o il verno,
Pere(perisce), o non esce fuor: quando sì dolce
D’ogni stagione un zeffiretto spira,
Che mentre spunta l’un, l’altro matura.
Sovra la pera giovane, e su l’uva
L’uva, e la pera invecchia, e i pomi, e i fichi
Presso ai fichi, ed ai pomi.
Questa nozione della Prima Italia come terra unica e generosa di frutti andava oltre
il mondo greco, come testimonia il Talmud Babilonese, la grande opera di commento alla
Bibbia scritta intorno al 500 a. C. In essa si narra che Mosè mandò messaggeri nell’Italia
dei Greci, la terra grassa, a cercare il frutto più buono al mondo, il cedro, necessario per
celebrare la Festa delle Capanne. I messaggeri lo trovarono in Calabria e ancora oggi gli
ebrei osservanti lo raccolgono nel comune di Santa Maria del Cedro (CS). Gli stessi ebrei
della Roma repubblicana si erano dati il nome di Italkim, dal latino Italici.
Dopo Pitagora, più di sedici invasioni straniere per venticinque secoli distrussero
quel mondo, ma le sue radici, protette dalle rovine della decadenza, oggi rispuntano e
ricomincia un nuovo ciclo.
Difatti, quella terra benefica e nutrice durante tutto l’anno, descritta da Omero, da
Esiodo e dal Talmud ricondusse cinquant’anni fa Ancel Keys dall’America a Nicotera, in
Calabria, dove egli ritrovò il modello originario della Dieta Mediterranea, riconosciuta
dall’Unesco patrimonio immateriale dell’umanità. Oggi sappiamo che il regime alimentare
di origine italica è il migliore al mondo.
In sostanza a me sembra che la scoperta dell’Italia Etica, figlia di mari calmi,
campagne ricche, vegetazioni floride, climi temperati, orizzonti sereni, insomma frutto
metafisico di una terra fisicamente dolce e attrattiva, possa essere di fondamentale
importanza per riequilibrare il nostro mondo competitivo, guerriero, ostile, e alla fine
insopportabile e invivibile. Nasce oggi così il Made In Italy Etico!
Ogni contributo o suggerimento sarebbe da me molto apprezzato, soprattutto
riguardo al materiale già esistente e all’indicazione di specialisti della materia.
Nell’attesa voglia gradire saluti blujonici.
Salvatore Mongiardo 27 giugno 2018